I
Sarà per
quel pizzico di droga che nasce dai profumi della buona stagione, sarà
per una vertigine di sensazioni creatasi dentro di me da quando mi sono
indotto a occuparmi di problemi spiritici, è certo che i miei
sonni non sono più tranquilli, da pieni, addirittura abissali,
quali erano. Un pensiero assiduo ne intorbida le profondità;
sento come uno sciabordio di corpuscoli freddi intorno alle mie palpebre.
Mi sveglio di soprassalto e sempre col medesimo incubo: che qualcuno
si aggiri nel mio studio dove ho sistemato la poltrona-letto. Mi sollevo
di scatto per scrutare nell'ombra della stanza che non è mai
troppo folta, giacché tra le assicelle della serranda filtra
la luce vereconda di una lampada stradale, e sono istintivamente attratto
dalle righe bianche stampate sulla parete opposta alla finestra. Tra
queste righe saltellano segni neri a coda di lucertola, ad ala di pipistrello:
il pentagramma si anima, ma è animazione ovvia, non fatico a
riconoscerlo. Sono fregi di un arazzo sardo che, toccati dai riflessi
oscillanti del chiarore esterno, acquistano sembianze zoomorfiche.
C'è da vergognarsi, e difatti mi vergogno, a trovarsi lì,
le pupille sgranate, il cuore che martella un poco contro ogni imperativo,
lì a sondare il buio zebrato e a credere di avere scorto un fantasma:
di quelli, ad esempio, dal sorriso melenso, fotografati da Samuel Harrison
e chiosati dal professor Crookes.
"Forse Katie King?" mi scopro a domandare. Tiro fuori un braccio
dalle coperte, lo allungo al pulsante del lumetto da notte, sto per
premere, ma per fortuna è ancora vivo il sentimento diurno della
ribellione, non cedo al bisogno puerile di chiarire il mistero servendomi
di una candela elettrica; mi riaccuccio accigliato ripetendomi che dopotutto
la seconda vita non m'interessa, sono una persona dai saldi contorni
nella visione del mondo, e dunque sarebbe sciocco che gli spiriti comunicanti
venissero a importunare proprio me. Non sono medium, e se trascorro
parecchie ore a leggere Alan Kaderc e l'Aksakov e il Cavalier Chiaia,
il Pappalardo e i loro galoppini, è per dovere d'informazione,
per uso professionale. Per quanto accreditati gli esperimenti, non ce
la possono contro lo scetticismo di un recidivo.
Fatta questa premessa mentale, mi abbranco al cuscino e spero di riaddormentarmi.
Ma nelle fluidità del dormiveglia i propositi somigliano al velo
di sabbia asciutta spruzzato dal libeccio sulle spiagge; in apparenza
l'arenile è dolce, uguale e fine ed ecco, basta appena un mulinello
da ponente per scalzare la sottilissima armonia; riaffiorano buche,
detriti e meduse in putredine. Così, a dispetto delle immagini
che invoco per tenermi compagnia, tornano a ossessionarmi quelle, fosforiche,
dell'album di riproduzioni spiritiche: una vera antologia di fotografie
ormai storiche per i devoti. In primo luogo, la seduta in casa dell'ingegner
Blech. Intorno al tavolino a quattro gambe siedono Eusapia Paladino,
l'ingegnere, magrissimo e meticolosamente vestito, e Camillo Fiammarion
con barba e baffi alla "carbonaro 1821 ".
Una delle ragazze Blech è abbastanza graziosa, avvolta in una
morbida tunica, i capelli mori attorcigliati a piramide; la sorella
è nascosta dietro il padre, le si vedono solo le diafane manine
nell'atto (così sembra) di carezzare un levriere. Colei invece
che viene concordemente giudicata la sovrana delle medium, Eusapia,
onnipresente nelle sedute internazionali, risolutrice di vertenze teoriche,
mostra fattezze campagnole, tarchiata, le guance larghe e piatte, il
petto compresso in un corpetto ruvido. L'espressione è variamente
interpretabile: assorta o ottusa. Si capisce che Fiammarion ne è
conquistato. Subito dopo - riproduzioni 1-5 della IV serie dell'album
- il tavolo ha ricevuto lo stimolo, si alza sulle due gambe anteriori
divaricate, un pochino sconce in quella posa di creatura animale; si
alza per rivelare che Marie Aubren, la figliola di un medico di Tolosa,
morta tisica a diciassette anni, vaga tuttora nel regno degli spiriti
inferiori e deve accontentarsi di agire sulle scarpe paterne (sciogliere
le stringhe, lucidare il coppale, raddrizzare un tacco). Seduta piuttosto
magra, vien da considerare, per essere governata da una Paladino e da
un Flammarion.
Mi rigiro innervosito. Possibile che non riesca a passare ad altri richiami,
piuttosto che ritrovarmi a scorrere le riproduzioni della serie V, ovvero
la conversione di Cesare Lombroso? Un uomo così positivo, scienziato
ineccepibile! E tuttavia, quella dichiarazione del 2 marzo 1891, dopo
la seduta all'Hotel Genèvé di Napoli ("Sono molto
dolente di aver combattuto con tanta tenacia la possibilità dei
fatti spiritici. Ebbene, i fatti esistono, e io dei fatti mi vanto di
essere schiavo") sa di onoranza municipale, quando il Sindaco prende
a parlare dopo la fanfara e la voce assume tonalità epiche.
Cosa mai, mi chiedo, ha conquistato il Lombroso? La relazione parla
di un'alcova, di un tavolo di castagno e un piatto colmo di semola.
D'un tratto si percepisce un rumore, cominciano a manifestarsi i fenomeni
di levitazione e tiptologia, gli sperimentatori si avvicendano nell'alcova
e Lombroso constata che il piatto di semola si è capovolto e
contiene nella nuova posizione la quantità di semola predisposta
senza che nessuna particella si sia sparsa all'intorno. Tutto qui. Ora
può darsi che sia stato uno spirito a dar luogo al capovolgimento
della scodella, ma sorge il dubbio che un buon giocoliere della comune
gente vivente avrebbe almeno ottenuto che la semola si trasformasse
in tagliatelle.
Quando al fantasma di Katie King fotografato nel 1874 a Samue Harrison,
la riluttanza ad accettarlo si tinge di un tantino di commiserazione.
Katie King è scostante senza alibi. Appare in una cornice di
bende di lino, il volto cereo, occhiaie larghe e fonde; anche se cammina
nell'etere e si lascia fotografare e intervistare, essa è pur
sempre un soffio della morte.
Credo di dire in sogno: "Questa Katie è decisamente uno
sgorbio!" e invece mi trovo desto e, cosa strana, sto fissando
con tanto d'occhi un punto dello scaffale, precisamente la terza scansia,
dove senza possibilità di equivoci mi richiamano due iridi luminosissime,
l'una verde acqua, l'altra rosso rubino. "Diamine, e queste?".
Trattengo il respiro. Saranno le tre, le quattro, chissà. Non
si percepisce un segno di vita nella strada; non c'è nulla che
dia il senso del luogo e del tempo: impressione molto sgradevole per
una mente eccitata. E' notte spaziosa, anonima, e là nella terza
scansia del mio scaffale brillano due fuochi fatui. Ma saranno tali?
Mi sembra di essere in me, con tutto il peso della coscienza. Non posso
più almanaccare. Mi libero con uno strattone delle coperte e
a piedi nudi, d'un balzo, sono a tu per tu con quelle iridi bicolori.
Stendo la mano trepidante, urto coi polpastrelli un oggetto metallico,
mi asciugo la fronte con la manica del pigiama. "Eccolo qua il
soprannaturale!" esclamo. Avevo dimenticato di aver riposto io
stesso in quella scansia il più bel giocattolo di mio figlio,
un "Titanic" in miniatura dallo scafo verdone e la torretta
gialla sulla quale si accendono due crune e semaforo, rosso rubino e
verde acqua, appunto. Solo che le due levette si sono inspiegabilmente
incantate. Provo ad abbassarle, a muoverle perché si spengano.
Per quanto mi adoperi, però, i lumini restano accesi. Dovrei
smontare la torretta, ma l'incastro è perfetto, ci vorrebbe un
punteruolo. Rinuncio a quest'operazione di disarmo, rimetto al suo posto
il "Titanic" e m'infilo sotto le coperte. L'alba non può
essere lontana.
Resta, è vero, insoluto il perché di quel "Titanic"
che si è dato luce da solo. Contatto, umidità o caso?
Non mi rassegno agli interrogativi insoluti. Appena giorno chiamerò
un elettricista perchè mi spieghi il congegno del giocattolo
e domani sera, per precauzione, una buona dose di Neurobiol, se ancora
non avrò fatto pace con Maria Teresa riacquistando così
il diritto di giacerle accanto.
E' noto che gli spiriti attaccano vilmente la nostra solitudine.
II
Adesso che mi aggiro
per la stanza di quest'hotel a "stelo dinamico", com'è
scritto nel volantino, i cui progenitori si troverebbero a Marina City
(Chigago), la faccia avvolta di rettangolini umidi, o meglio sfibrata
dai fiotti d'acqua calda e fredda cui l'ho sottoposta, l'after-shave-emulsion
spalmato sulle guance a strati così densi da nascondermi all'ingresso
della cameriera, so per certo che la colpa è della mia natura,
diciamo ipersensitiva, non degli amici organizzatori del Convegno. I
quali, anzi, ospitalissimi, hanno scelto l'albergo di maggiore spicco,
non solo della cittadina, ma di tutto il comprensorio e oltre, dato
che l'ispirazione, come accennavo, risale a un modello-pilota americano.
Basti comunque l'ascensore a dimostrare l'originale struttura dell'edificio.
A parte l'inconsueta forma ovoidale e la rivestitura di una specie di
quarzo color ambra che dà l'impressione di volerti immergere
in un bagno di raggi abbronzanti, esso è combinato in modo che
il cliente non compia passi inutili. Una volta arrestata la corsa, un
nastro mobile lo preleva con infinita grazia per deporlo nella stanza
predestinata, senza alcun bisogno di introdurre la chiave nella toppa.
Semplicemente, silenziosamente, per virtù, come le vere virtù,
che non traspaiono.
Dopo ciò, l'ignaro che fin lì si è lasciato condurre
con scarsa coscienza nel tragitto può considerarsi solo con se
stesso, con le sue valigie, il pigiama, gli attrezzi da barba. Non perché
nel chiuso della stanza manchino altri eccitanti motivi di distrazione,
ma perché si è fatto tardi, il viaggio è stato
tortuoso, gli amici organizzatori ci hanno sorpreso con una cena così
assortita da sembrare una sequenza campionaria, la Relazione attende
di essere ritoccata, e resta appena il grave desiderio di spogliarsi,
buttarsi sotto le coperte e chiudere gli occhi.
Ma ecco che proprio in questo stolido buttarsi e serrare le pupille
quando dovrei appuntirle, riaffiora la mia colpa, ovvero carenza di
adesività al mondo che preme dall'esterno, se tale posso definirla.
Appuntirli preliminarmente sul letto a una piazza che qui diventa una
culla gigantesca, di dimensioni ellittiche, con certi ganci cromati
alle pareti che non permettono di dondolare come la sua conformazione
pur farebbe ritenere, e assicurarmi palpando che il materasso non sia
di gommapiuma e le lenzuola abbiano un sufficiente grado di porosità,
giacché conosco troppo bene la disperata tensione dell'epidermide
a contatto di un tessuto eccessivamente levigato, la cupa ribellione
dell'apparato osseo nell'avvertire sotto la schiena la leggerezza, l'elasticità
pneumatica, comunicativa di un angoscioso senso di impotenza al legittimo
affondare del corpo (del suo peso specifico, intendo). Ciò tuttavia
non deve far credere che l'opposto di siffatta stilizzazione sia assoluta
garanzia di buon riposo. Non dimentico talune notti austriache, particolarmente
di Innsbruck con quella incapacità di distinguere, anche dopo
le spiegazioni dell'albergatrice, che uso fare delle lenzuola che sfuggivano
qua e là dal gonfio talamo, dei copripiedi che avevano la vastità
delle coltri e coltri che alla minima virata su un fianco se ne scendevano
a slavine per le pendici, e insomma bramando un amplesso prima di inoltrarci
nel sonno, si correva il rischio di abbracciare un mastodontico piumino
sotto cui soffocava la timida compagna.
Consapevole dunque del valore che son solito attribuire al giaciglio,
avrei dovuto insistere per una diversa sistemazione, per quanto l'ordinamento
dell'hotel non lasciasse presagire una seria alternativa. Ma, alla fine
si poteva tentare!
Dopo, a notte alta, una sorta di pudore mi avrebbe trattenuto dal chiedere
quello che con ogni probabilità non avrebbero saputo darmi: il
rustico al posto del liscio, la semidurezza o anche la durezza totale
al posto della carezzevole uniformità. Talchè, superato
un breve dormiveglia, le membra, come era da prevedersi, hanno cominciato
a scrocchiare dal dispetto, e proprio mi pareva di sentirle come una
torma di lumache che si sveglino nel loro guscio. Non soltanto la gommapiuma
della qualità più scattante, sotto le natiche, non soltanto
le lenzuola di uno scivolo marmoreo, da pelle d'oca a percorrerlo con
i polpastrelli, ma il cuscino, diosanto, il cuscino d'una fibra sconosciuta
al mio tatto, viva, attiva!
Rimedi in tal caso non esistono, i cosiddetti tranquillanti a nulla
giovano trattandosi di reazioni molto periferiche, pressoché
indipendenti dai centri nervosi.
Pazientemente mi tiro su, accendo il lumino, più simile in verità
a una cellula fotoelettrica, sbircio l'orologio e mi avvedo con rammarico
che son passate le tre. Stordito, gonfio d'aria condizionata, metto
i piedi a terra, infilo un paio di calzini, i più invernali che
trovo nella valigia, e isolo per quella via le estremità, soprattutto
gli alluci esposti al terribile impatto delle lenzuola; poi rovescio
i risvolti delle maniche e riparo le falangi dal rischio di slittare
a nudo.
Ma, prima di affidarmi a questo vecchio stratagemma, ci sono due operazioni
da compiere, di non minore importanza: afferro una coperta e la stendo
con perizia tra materasso e lenzuolo, tanto da creare un principio di
intercapedine, un falsopiano; quindi mi metto a cercare nel bagno un
asciugamani che di solito è spesso, spugnoso, capace di evitare
la presa diretta con la fibra attivizzata del cuscino.
Questa volta, però, il pezzo spugnoso che mi occorre non c'è.
Vedo, sì, allineati sulla sbarra cinque sei rettangolini di varia
grandezza, ma candidi e rosacei, del brillio dei chicchi di riso, soffusi
di amido o che, e guai a toccarli, ché appartengono alla medesima
razza del guanciale: fibra viva, fibra attiva da scongelare! Sempre
più desto e col timore di svegliarmi del tutto, metto a soqquadro
la stanza da bagno, punto il lumino fotoelettrico in ogni angolo, in
ogni cubo, a parallelepipedo che abbia l'aria di un mobile, di uno scrigno,
ed ecco finalmente teso nel battente della scarpiera, un drappetto insolito,
lavorato all'uncinetto, sulla cui funzione non potrei giurare né
adesso né mai, ma d'una trama domestica, non restia al mio tatto.
Lo sgancio con somma facilità (è la caratteristica dell'Hotel
dove, tra l'altro, pare non esista un chiodo ad antica capocchia), torno
a palparlo, mi convinco che non è nylon o dralon o lilion, lo
distendo sul guanciale, noto con soddisfazione che lo comprende quasi
interamente, e più tranquillo, anche se rannicchiato, rattrappito,
i piedi compresi nei calzini invernali, le palme ritorte nelle maniche
del pigiama, torno a coricarmi.
Grazie al cielo, il drappetto agisce; se incrocia la barba, le resiste
ottunde il mio orecchio e ottunde la vitalità del cuscino. Mi
par di sentire addirittura un gemito soffocato nelle viscere del guanciale,
sarà una suggestione, ma non importa; le membra, questo si, adagio
adagio si rassegnano al compromesso, collaborano con patetica immobilità
alla ricerca del sonno:.
Quello che sia accaduto fra le tre e le sette, quando la portineria
mi suona per la sveglia, non saprei. In un certo senso ho dormito, anche
se con l'orribile impressione di essermi cacciato in un loculo, in attesa
che qualcuno mi tirasse fuori, e l'altra, più concreta, di aver
subito alle guancie una strana aggressione, qualcosa come un trattamento
a secco.
Mi alzo di scatto ripassando con poco profitto il dorso della mano sulla
pelle. Non riesco a capacitarmi. Mi porto davanti a uno dei numerosi
specchi della stanza e, senza rifletterci, comincio a prendermi meccanicamente
a schiaffi. Non per furia autolesionistica, come si potrebbe sospettare,
per punirmi di alcunché, (nell'inconscio, forse, ma sarebbe un
altro
discorso), bensì per cercare di correggere con l'unico mezzo
fornitomi dall'istinto i danni del drappetto. Che la faccia di un individuo
debba ridursi a una specie di opus reticulatum delle millenarie costruzioni
romane per le velleità di un albergatore che si ispira a Marina
City! esclamo furibondo, riprendendo a schiaffeggiarmi, ché altro
non rimane, a pizzicottarmi, a stirarmi gli zigomi. Ma ottengo solo
d'incendiare follemente i vasi sanguigni.
Mi dirigo avvilito nel bagno, apro i rubinetti e immergo nel lavandino
i rettangoli di tessuto imbalsamati, li strizzo, li strozzo e li applico
caldi e freddi sulle guance; poi apro il necessaire, estraggo il barattolino
del dopobarba, mi spalmo abbondantemente fino al collo. Dubbioso, però,
sull'efficacia di un qualsiasi intervento singolo, mi sguarnisco subitamente
della crema, mi lavo strofinando contro verso, reimmergo gli asciugamani
nell'acqua gelida e bollente, mi rispalmo, e via daccapo, lavatura,
tamponatura e ripasso di crema, in un circolo quasi perfetto.
Mi accorgo intanto che il giorno, sia pure zuppo di pioggia, dilaga
dietro le serrande, qualche personalità deve essere morta in
questa cittadina perché una campana di prima classe lo rintocca,
vorrei dire a festa; la cicala sul comodino frinisce. So già
che è uno degli amici organizzatori che affabilmente sollecita;
i congressisti sono tutti pronti o quasi nella hall, i lavori debbono
seguire un preciso calendario se non si vuole che... Gli dico di s'i,
un attimo... uno stupido inconveniente. Vorrei proporre di rinviare
la Relazione alla seduta pomeridiana, ma non oso, né spiego.
E rientro, con quella faccia che lievita, nel bagno, dinanzi allo specchio
d'una indefinibile luce albina, a martellarmi di after-shave-emulsion,
di pannicelli caldi e freddi, di schiaffettini ben assestati, ben calibrati,
in punta di dita e a ritmo di terapeutico massaggio perché, senza
offesa della mia e altrui dignità, possa presentarmi in sala
a sciorinarvi il mio incompiuto messaggio.
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