"S'ha da
aspettà, Amà.
Ha da passà à nuttata"
(EDUARDO-Napoli milionaria)
Quando alle 19,35
di domenica 23 novembre 1980, la terra tremò e il Mezzogiorno
dell'"osso" ripiegò su sé stesso, come schiacciato
da una apocalisse che non dava scampo, il cuore del Sud si fermò
per novanta secondi: novanta eterni secondi, lunghi come l'interminabile
"notte del Sud" e laceranti come la disperazione delle sue
mille tragedie. Il Sud, devastato ma non annientato, riprese subito
dopo - da solo - a curarsi le ferite e, passati i giorni della morte
e di questa nuova espiazione, a combattere per guadagnarsi una nuova
alba di speranza e di vita.
"Noi non accettiamo l'idea che il cuore del Sud si sia veramente
fermato insieme con quello delle migliaia di suoi figli, uccisi dal
terremoto, dall'inefficienza e dall'indifferenza": Antonio Ghirelli,
che conosce assai bene la storia e le vicende politiche e sociali del
Sud, sapeva bene, scrivendo sette giorni dopo il terremoto, come il
cuore della sua gente e il sangue dei suoi fratelli meridionali non
potessero fermarsi per sempre, neppure di fronte a questa nuova, tremenda
catastrofe che h aveva colpiti. No: la volontà della rinascita,
la ferma coscienza di vivere l'alba nuova del riscatto, un anno fa come
oggi, è più forte del dolore e della disperazione, della
rabbia e della protesta. E come sempre dopo ogni sventura - venisse
dal mare con i predoni o dalle paludi con la malaria - i "presepi"
attaccati alle cime dei monti o sui dorsi dell'Appennino, sepolti i
morti, vittime più della inefficienza degli uomini che della
fatalità della natura, ripresero a vivere. La forza intima e
il coraggio morale di una "civiltà" che è resistita
per secoli alle dominazioni straniere, al feudalesimo, alle incursioni
dei barbari, all'autoritarismo e alla repressione, al sistema clientelare
dei "notabili" di ieri e dei "potenti" di oggi,
ha resistito, come sempre nella sua lunga storia, anche alle devastazioni
della natura.
Il terremoto che colpì, un anno fa, la Campania e la Basilicata
è una nuova tappa di dolore è di rabbia lungo il sentiero
della depressione meridionale. Ancora una volta, un anno fa, una nuova,
tetra, angosciosa "notte" scese sul Sud più debole
ed indifeso. Ancora una volta, come sempre nella sua "lunga notte",
il destino del Sud giuocava la sua partita con la vita e la morte, tra
le insidie della natura e le "ingiurie" dell'uomo: il disprezzo,
l'arroganza, la spregiudicatezza con le quali il potere viene gestito
nel Sud, la brutale "occupazione" delle pubbliche istituzioni
da parte di uomini e partiti. "Combattiamo insieme una grande battaglia
contro le forze della natura e contro le ingiurie degli uomini":
così terminava il suo discorso a Potenza il 29 settembre 1902,
l'on. Zanardelli, il primo Presidente dell'Italia unita venuto a visitare
il Mezzogiorno. Anche un anno fa, con il terremoto del 23 novembre,
abbiamo registrato come sia arduo combattere l'"ingiuria degli
uomini": i vecchi vizi di un potere inefficiente e piegato agli
interessi delle consorterie locali, le deviazioni clientelari della
gestione della cosa pubblica. Sono i vecchi vizi di un sistema clientelare
ed assistenziale che, a differenza dei tempi di Zanardelli, oggi è
più mostruoso e perverso e che ha mostrato i suoi ripugnanti
artigli non solo nella gestione dell'immediata emergenza quanto nei
mesi successivi riesumando i vecchi metodi del clientelismo più
deteriore.
Il problema centrale della crescita civile del Mezzogiorno si ripropone
ad un anno dall'ultimo terremoto nei termini esatti nei quali lo affrontarono
Giustino Fortunato ed Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini e Guido Dorso:
il "meridionalismo della ragione" aveva individuato nella
mancanza di una classe dirigente meridionale, affrancata dalle tentazioni
del "particulare" e dell'ascarismo, la chiave di volta per
spezzare una condizione di obiettiva subordinazione agli interessi economici
e politici dell'"altra Italia". In quest'ottica si collocala
rigorosa denuncia che Guido Macera elevò, subito dopo il 23 novembre,
nell'editoriale ("Mali antichi e mali nuovi", apparso su "Realtà
del Mezzogiorno" nel fascicolo di dicembre) quando osservò
che "I mali nuovi dell'oggi, non derivano dalla "fatalità
geografica" richiamata assiduamente da Giustino Fortunato, talvolta
in pagine memorabili. Sono invece dovuti tutti alla mano dell'uomo:
cioè alla vacua presunzione, alla imbelle superbia di una classe
che può anche autodefinirsi politica ma che nel giro di un quindicennio
ha letteralmente sfasciato lo Stato". E Guido Macera, meridionalista
della ragione, rifiutando tanto i piagnistei ed i vittimismi propri
di un certo meridionalismo parolaio e velleitario quanto le collusioni
con il potere, indica nell'analisi della realtà meridionale,
operata al riparo da cedimenti demagogici e da tentazioni di potere,
la strada maestra di un impegno etico-politico che deve rigenerare la
classe dirigente e dare nuovo slancio ai cittadini.
Questa "notte del Sud" è lunga, è stata troppo
lunga per non farci invocare, con tutta la rabbia civile che può
avere un popolo saccheggiato e umiliato dal malgoverno locale e dal
sistema clientelare, quell'"alba nuova" che cercava Scotellaro
per i contadini della sua Lucania e per "tutte le Lucanie del mondo".
Un'alba di dignità civile e di progresso sociale che sconfigga
la buia "notte del Sud" con tutte le "ingiurie"
che l'uomo arreca all'altro uomo. Secoli di malgoverno e di corruzione,
di umiliazioni e di prevaricazioni non hanno sradicato del tutto dalle
coscienze delle popolazioni meridionali l'ansia della libertà,
di quella "libertà liberatrice", come la definiva Adolfo
Omodeo, capace di sconfiggere il bisogno e la paura e di dare forza
alla ragione umana e alla dignità individuale. La forte consapevolezza
e il virile impegno a fare da sé, senza aspettare miracolismi
e promesse ingannatrici. Il Belice - con i suoi quarantamila baraccati
costretti a vivere in alloggi precari e di fortuna, a tredici anni dal
terremoto che sconvolse quella valle - ha insegnato che il tempo delle
promesse è passato, che bisogna fare affidamento sulle proprie
forze e non attendere l'elargizione del sistema clientelare. Il Sud
chiede posti di lavoro non assistenza, uno sviluppo adeguato non sussidi.
Anche chi non ha letto Giustino Fortunato e Guido Dorso, avverte oggi
nel Sud - e proprio a causa della perversa e scellerata azione clientelare
messa in opera prima e dopo il terremoto -l'esigenza prioritaria di
modificare radicalmente il meccanismo di sviluppo e di intervento pubblico,
avendo cura di privilegiare un rapporto più corretto e funzionale
tra gli insediamenti produttivi ed il territorio. Si tratta di esigenze
che il "meridionalismo della ragione" aveva già individuato
da decenni e che la "notte" del 23 novembre ha reso più
drammatiche ed urgenti. "I problemi di fondo restano quelli di
prima - ha scritto Manlio Rossi Doria - con l'aggiunta dei danni da
riparare, di una maggiore sicurezza da garantire e di una situazione
di emergenza da affrontare ordinatamente con le proprie forze.
L'obiettivo dello sviluppo e della crescita civile del Mezzogiorno è
stato il tema centrale del dopo-terremoto. In quest'anno che ci separa
dal 23 novembre 1980, saggisti ed economisti, imprenditori e sindacalisti,
classe politica e cittadini hanno riaffermato con forza quest'esigenza,
ritenuta ormai non più rinviabile. Dalla tragedia del Mezzogiorno,
dall'apocalisse dell'Appennino è nata una nuova coscienza civile,
non più la rassegnazione inerte ed impotente del passato, ma
la volontà ferma e decisa di battersi per una nuova alba di vita
civile. La poesia del terremoto è un tributo della ragione umana
al Mezzogiorno che soffre per i suoi vecchi mali, è la speranza
di tanti giovani - che forse non hanno mai appreso la "lezione"
dei meridionalisti della ragione di ieri e di oggi - ma che sentono
con essi quanto disumano ed ingiusto sia il dramma che vive il Mezzogiorno,
quanto buia e soffocante sia la lunga "notte del Sud", le
cui tenebre dobbiamo fugare per cominciare a respirare a pieni polmoni
l'aria rigeneratrice della libertà. La notte del Sud deve passare.
L'invocazione sofferta ed angosciata, rassegnata e paziente che Eduardo
pronunzia alla fine della sua "Napoli milionaria" si è
trasformata, dopo la tragedia della natura e l'insulto degli uomini
nella notte del 23 novembre, in una rabbiosa imprecazione contro il
tempo perduto, in una virile promessa di riscatto e di rinascita.
A quest'alba nuova di speranza e di libertà, di lavoro sicuro
e di dignità civile, la "poesia del terremoto" -versi
e pagine di libertà e di verità - reca l'alto tributo
di coscienza libera che alla rassegnata passività di ieri sostituiscono
una nuova, intatta speranza per un domani migliore. La poesia del terremoto
- come già la poesia civile del Sud - si collega al grande patrimonio
della cultura meridionalista, ed è essa stessa cultura e protesta
civile. La poesia del terremoto, ispirata dal dolore e dalla rabbia
per le sorti dei nostri fratelli meridionali seppelliti sotto le macerie
di case di sabbia la notte del 23 novembre, si pone sul terreno dell'impegno
civile come un grande, smisurato bisogno di libertà e di dignità.
Essa si inserisce a pieno titolo nel filone più vivo e positivo
del "meridionalismo della ragione" perché parla alla
ragione degli uomini, perché intende penetrare nel profondo della
realtà sociale del Sud, non per contemplarla ma per capirla e
piegarla ai valori di libertà e di dignità umana. In fondo,
questa poesia è anch'essa - come tutta la cultura meridionale
da Vico a Croce, da De Sanctis a Dorso -l'espressione più alta
e più fiera della coscienza solitaria di uomini liberi, che non
si crogiolano nell'estetismo letterario ed intellettualistico fine a
sé stesso, ma trasmettono i loro ideali alla società in
cui vivono e che vogliono cambiare, alla comunità di cui sono
parte. E l'"eresia meridionale", di cui ci aveva parlato quasi
vent'anni fa Guido Macera, si arricchisce di nuovi contributi, di nuove
voci libere e autonome, sicché dalle macerie della tragedia che
ha sconvolto un anno fa l'Appennino Meridionale si sprigiona una poesia
civile, un messaggio di speranza e di certezza nell'avvenire del Mezzogiorno,
un potente impegno di lotta per il riscatto del Sud. Nei poeti meridionali
che hanno vissuto e "cantato" il dramma del 23 novembre e
la speranza di una immediata rinascita, le "muse dei boschi e delle
valli tacciono in essi", in quanto essi sono diretti protagonisti,
e molte volte vittime, dell'amaro destino del Sud; perciò in
essi "rigurgitano - come scrisse Quasimodo - i boati delle frane
e delle alluvioni per le loro mitologie contadine". La poesia del
Sud non è più il compiacimento individuale ed estetizzante
di una visione, di un sogno, di una realtà estranea al dramma
della vita: è il dramma stesso della vita meridionale che si
fa poesia, non più modulazioni astratte del sentimento ma virile,
ferma denuncia di una realtà difficile a viversi e dura a morire.
Una realtà che si vive tutti i giorni, a contatto con uomini
che soffrono, fino al punto che il poeta non è più un
cantore "neutrale" e distaccato di questa realtà, ma
si sente "uno di loro", come si definisce Ennio Bonea
E' fatto di pietre
il mio Sud
di terribili uomini in lotta
contro la roccia da millenni.
(Sono uno di loro)
La poesia del terremoto
non è perciò un lamento, né imprecazione verbale:
è la condanna severa e forte dei colpevoli ritardi, dello sfascio
delle istituzioni, del clientelismo mostruoso e ripugnante, delle violazioni
edilizie. In questo senso il "meridionalismo della ragione"
non può non far propri i "valori" etico-politici della
poesia del terremoto che incarna nei suoi versi taglienti la protesta
meridionale sia quando affronta i temi dell'emigrazione sia quando vibra
di intensità lirica per i novanta terribili secondi del 23 novembre
di un anno fa. Ed in ciò adempie alla profonda funzione etica
di rottura, di denuncia sociale, di sdegno civile, di anticonformismo,
che è il valore più genuino dell'"eresia meridionale".
La poesia del terremoto, come quella di Rocco Scotellaro, è perciò
"eresia meridionale": il rifiuto sprezzante del potere clientelare,
la reale alternativa delle coscienze libere al conformismo dilagante,
la denuncia delle promesse e del miracolismo elettoralistico. Questa
poesia esprime anche la forte, tenace volontà di restare per
non disperdere le "radici" di una antica civiltà, per
dare una certezza alla grande speranza della rinascita, per ridare vita
ai "presepi" distrutti e abbandonati. Ed allora come non capire
il canto disperato di Giuseppe Juliano -l'interprete più fine
e genuino della realtà dell'alta Irpinia - che dopo la catastrofe
del 23 novembre ha con la sua poesia espresso la dignitosa, fiera fermezza
dei meridionali che
Chini per l'erte
e le pietrose campagne
donne e vecchi,
fortunati sopravvissuti
animano i tristi presepi.
Dimostrando, con
la ferma dignità del silenzio, di avere più fiducia in
loro stessi, nelle "radici" della loro terra avara ed amara
che, con la loro presenza ed il loro rinnovato impegno, potrà
avere uno sviluppo meno precario.
Ancora una volta il terribile dramma della gente del Sud si consuma
a danno delle aree più deboli, di quelle aree interne già
svuotate dalla emigrazione, di quei "paesi fantasma" resi
tali dall'esodo dalle campagne. Ed in un "paese fantasma"
giunge nel cuore della notte dell'apocalisse il caporedattore della
sede regionale della RAI-TV di Potenza, Mario Trufelli, che opera il
primo collegamento televisivo con Balvano. L'Italia intera apprende
dalle parole piene di dolore ed emozione di Mario Trufelli l'immensità
della catastrofe, superiore ad ogni previsione. Le aree geografiche
colpite dal terremoto sono in grandissima parte collocate nelle "zone
interne" della Campania e della Basilicata, in quell'"osso"
della dorsale appenninica che proietta il Sud - per rievocare l'immagine
felice di Giustino Fortunato -come "uno sfasciume pendulo sul mare".
Ancora una volta, la tragedia del Sud è accompagnata da invocazioni
di aiuti e soccorsi che tardano a venire: l'"urlo nero" della
poesia di Quasimodo ("Come potevamo noi cantare?") è
il grido disperato di migliaia di seolti-vivi travolti dalle macerie
ed in attesa di una mano soccorritrice. La nota dominante della lunga
"notte del Sud" è la speranza della salvezza, è
la trepida invocazione della solidarietà umana, dell'aiuto di
altri fratelli disperati, dei soccorsi "ufficiali" che arriveranno
dopo gli emigrati ed i giornalisti europei. Anche dalla piccola chiesa
di Balvano i "sepolti vivi" chiedono aiuto: con trenta bambini
giace sotto quelle macerie Rosetta, la bambina di sei anni che Mario
Trufelli strapperà alla morte per asfissia. La bambina morirà
due giorni dopo all'ospedale di Potenza. E dal cuore straziato del giornalista,
aduso a vivere la vicenda di un "mestieraccio" che non consente
soste e divagazioni, prorompono i versi toccanti del "Lamento per
Rosetta", dove i toni della poesia civile e sociale del Sud si
stemperano nelle lente reiterazioni di un dolore vissuto in prima persona,
delle lacrime per una persona ormai cara, della tragedia che falcia
inesorabili dolci, piccole, indifese creature innocenti
Rosetta ha la
faccia di cera
ma forse non è vera
la bambina senza gloria
minuscola memoria
nell'inferno di Balvano.
E nell'inferno dei
136 comuni meridionali devastati dal terremoto,
il pianto non basta a dare pace
ai morti e ad aiutare i vivi - Nel "delirio dei superstiti"
c'è la dura, vigorosa denunzia dei colpevoli ritardi, c'è
la ragione offesa ed umiliata dalla arrogante ed impunita violazione
della legge, c'è il rifiuto di "morti inutili", dovute
all'inefficienza dei pubblici poteri. In fondo, la tragedia di un anno
fa, che si è abbattuta con tutto il suo "nero furore profondo"
sul Sud più debole e depresso, è un altro terribile "momento"
della depressione meridionale, è "una storia del Sud"
(è questo il titolo della poesia che Domenico Rea scrisse nella
notte del 23 novembre) di cui protagonisti e vittime sono ancoragli
emigrati, le loro mogli, i loro figli rimasti al paese. Il terremoto
sconvolge in novanta terribili secondi la vita pacifica e l'attesa serena
del rientro degli emigrati per il prossimo Natale e si abbatte con il
suo "nero furore profondo" sulle case e sui paesi dell'"osso".
Con i suoi versi tenui e delicati, Domenico Rea penetra nell'animo e
nei sentimenti delle famiglie degli emigrati, raccolte nelle case dell'Irpinia
la sera della domenica in cui la terra tremò. Con la tenue immagine
della sua poesia ci descrive l'interno di una casa contadina, dove le
ore scorrono nella serena attesa di un ritorno, di un abbraccio di una
nuova vita che deve ricominciare insieme, qui, nel cuore del Sud più
interno e depresso, dove ci sono i lavoratori ma manca il lavoro, mentre
il compito dello Stato e dell'azione pubblica è di portare il
lavoro dove sono i lavoratori. Domenico Rea sente, vive, e ci fa rivivere
questo dramma antico e sempre nuovo dell'emigrazione meridionale, penetrando
in punta di piedi all'interno di una famiglia raccolta intorno al vecchio
genitore-patriarca:
Mia figlia stava
tessendo,
pensando al marito in Germania.
Mia nuora stava scrivendo
a caratteri grandi l'amore
per mio figlio finito a Digione.
Un esercito di "mariti"
e di "figli", lavoratori meridionali emigrati all'estero,
tornano dai Paesi europei appena hanno notizia del nuovo flagello che
si è abbattuto sulla loro terra. Essi tornano in Irpinia e in
Basilicata, nell'alto Sele e nel Sannio per aiutare i vivi e piangere
i loro congiunti, morti come "antichi clandestini della storia".
Affrontano da soli una tragedia che non ha confini: senza soccorsi,
senza mezzi, senza aiuti strappano alla morte migliaia di sepolti-vivi
sottraendoli all'asfissia della lenta agonia, scavando con le mani.
Nulla possono di fronte alla "cattiva sorte" che condanna
a morte altri fratelli, altre vite umane, senza possibilità di
soccorrere ed aiutare tutti
Ho sentito il
passo di Pertini
e quello felpato del Papa,
ma né l'uno, né l'altro,
umane creature, avevano
unghie per scavarci.
...................
E così siamo morti da emarginati
da antichi clandestini della storia.
Domenico Rea, con
questi versi di "Una storia del Sud", ha toccato il cuore
del problema meridionale: l'emarginazione sociale e civile di una grande
area depressa, l'emigrazione che ha depauperato il Sud di energie valide
e vitali, la frantumazione di un tessuto sociale e urbano divorato dalla
necessità del lavoro e dell'occupazione. Rileggendo i versi della
poesia "Lucania" che Rocco Scotellaro lasciò, appena
scritti, un giorno del 1940, sul tavolo di studio di Giovanni Russo
a Potenza ("Il vento mi fascia - di sotterra nei nastri d'argento
- e là nell'ombra delle nubi sperduto - giace in frantumi un
paese lucano") dobbiamo ancora una volta registrare il fallimento
di una politica per il Sud incentrata esclusivamente sul più
rozzo assistenzialismo, mentre la frantumazione del tessuto civile ed
urbano è continuata, e le centinaia di paesi meridionali che
giacciono "in frantumi" sono il simbolo della inesistenza
di una politica per il territorio nella sua duplice prospettiva di recuperare
ad un circuito di produzione e di reddito le aree interne collinari
e montane e di promuovere un diverso e più articolato riequilibrio
tra l'"osso" e la "polpa" del Mezzogiorno. I versi
di Rocco Scotellaro, così come le acute analisi di Giustino Fortunato
e di Ettore Ciccotti sembrano scritte nei giorni dell'immediato post-terremoto.
La verità è che quando si parla di "isolamento"
e di "frantumazione" del tessuto civile ed urbano del Sud
si coglie una condizione immutabile, che è venuta aggravandosi
nel corso degli anni a causa della mancanza di una organica politica
per il Sud, sicché l'abbandono dei paesi-presepe dislocati sulle
dorsali appenniniche - "appesi ad una cresta, rinserrati in una
gola, spesso l'uno nascosto dall'altro" (come scrisse Ettore Ciccotti)
- offrono una debole, insufficiente difesa ai loro abitanti contro tutti
gli eventi della natura. Ed è facile, allora, che in una situazione
di abbandono, di isolamento, di frantumazione del tessuto abitativo
E' passata una
ruspa
sulle antiche miserie,
su queste povere case
abbandonate.
Templi della fame
e delle attese vane.
Certo, come questa
poesia ("Non toccate i miei morti "), Silvio D'Aleo sottolinea
la condizione di miseria e di isolamento, di abbandono e di emarginazione
delle "povere case abbandonate" nei villaggi-presepe sui quali
si è abbattuta un anno fa, dopo la tragedia dell'emigrazione,
la furia devastatrice della natura avversa e l'indifferenza degli uomini.
Non è inerte e cupa rassegnazione quella dei meridionali di fronte
alle "antiche miserie", ma dignitoso e sdegnato rifiuto delle
"attese vane". Ma alfine, ci si chiede, perché sono
morti migliaia di meridionali sotto le macerie di case di sabbia? Attenderemo
ancora per decenni risultanze di commissioni d'inchiesta, di indagini
giudiziarie, di servizi giornalistici, di denunce?
Il pianto non basta a dare pace né ai morti né ai vivi:
uno Stato di Diritto efficiente e moderno, autorevole e rispettato,
deve individuare precise responsabilità e colpire severamente
i colpevoli degli scempi urbanistici e delle inefficienze. Migliaia
di questi morti pesano sulla coscienza di chi doveva intervenire e non
ha fatto nulla, ricadono sull'inerzia, l'immobilismo, la corruzione
di padrini e padroni, di corrotti e corruttori.
La violazione delle leggi antisismiche e gli abusi edilizi tollerati
dal potere clientelare è motivo di riflessione e di aspra denuncia
nella poesia di Peppino Juliano, il poeta dell'alta Irpinia, sepolto
anch'egli sotto le macerie della sua casa paterna e che ha saputo cogliere
nei versi della poesia "Incantesimo" l'anima della sua gente
non vinta dal terremoto e non rassegnata dalla disperazione e che, pur
cosciente di una condizione crudele
Quanto resta
della mia terra
è solo polvere
conserva intatta
una grande forza morale, l'immensa dignità della protesta civile
e morale per condannare con parole di fuoco i protagonisti della nuova
colossale truffa a danno del Sud:
Le case sono
di sabbia
ma lo sapevano
solo la morte
ed i ricchi speculatori.
Che le case fossero
di sabbia lo sapeva certamente il Consiglio Regionale della Campania
fin dal 1974, quando fu investito da una documentata denuncia del consigliere
Quagliariello, che si concluse con la costituzione di una Commissione
di inchiesta che accertò deviazioni, ritardi, immobilismo, inattività
degli Enti Locali preposti alla applicazione della legge Sullo, emanata
dopo il terremoto del 1962. Ma anche di queste conclusioni non possiamo
essere soddisfatti, perché rese a distanza di un decennio non
servono più a niente. Il problema che abbiamo di fronte è
quello di impedire che una nuova sciagura - per l'immobilismo degli
uomini e l'inefficienza delle pubbliche strutture - colpisca altre vittime
innocenti, è di pretendere l'applicazione severa e rigorosa delle
norme di legge. Ed allora se "il pianto non basta a dare pace"
alle vittime e ai superstiti, dobbiamo perciò convenire con Gino
Montesanto, quando ci ammonisce a compiere scelte tempestive e coerenti,
perché nell'avvenire
Non si tornino
a piangere
sincere o ipocrite
strumentali lacrime
per spreco esecrando
del dono della vita.
Il "dono della
vita" dei nostri fratelli meridionali è stato troppo spesso,
per "spreco esacrando", schiacciato e violentato non solo
dalle tragedie della natura avversa quanto dalla disperazione della
condizione civile nella quale sono stati condannati a vivere. Le migliaia
di vite umane, costrette a vivere per anni lontano dagli affetti familiari
e dal piccolo mondo delle loro piccole patrie, e, perciò, infiacchite
dai disagi di una condizione di vita ai limiti della dignità
umana nella convulsa esistenza dei dormitori dei sobborghi delle città
industriali o stroncate dalle tragedie del lavoro e dell'emigrazione:
nelle miniere, nelle cave, nei cantieri, sui cigli delle strade. Tragedie
che colpiscono sempre i più deboli ed indifesi, che si abbattono
sempre sulla pelle dei meridionali; tragedie del lavoro e dell'emigrazione
che travolgono e schiantano vite umane del Sud, come a Mattmark in Svizzera
il 30 agosto 1965 quando persero la vita ottantotto operai: tra i quali
cinquantasei emigrati italiani; che
Ancor oggi una
coltre ricopre
operai ch'eran pieni di vita.
La tragedia dell'emigrazione
si risolve spesso in un "bagno di sangue" per i poveri emigrati
meridionali, perché è sempre "sulla nostra pelle
- di meridionali" (Mario Dilio) che si abbatte la furia della natura
e l'impreparazione e l'inefficienza dell'organizzazione civile. Chi
ricorda più oggi, a distanza di venticinque anni, la tragica
mattina dell'8 agosto 1956 quando alle 8,30 esplose in un rogo infernale
la miniera di carbone di Marcinelle, in Belgio, causando la morte di
262 minatori di cui 136 erano italiani. Rievocando quell'episodio di
dolore e di morte, "Paese Sera" del 10 agosto di quest'anno,
ha scritto: "Italiani, carne da miniera": ma i meridionali
non sono, forse, da oltre un secolo carne da miniera, da terremoto,
da frane, da alluvioni, da miseria e da emigrazione? E non è
forse la stessa carne che ha generato l'altra carne rimasta sepolta
sotto le macerie dei paesi del cratere? E dai "paesi del cratere",
dalla terra inquieta del Sud molto tempo prima del 23 novembre sono
partiti migliaia di lavoratori, tutti giovani e validi, lasciando nei
paesi-presepe i loro piccoli figli ed i loro vecchi genitori ad attendere
il "vaglia", le rimesse degli emigrati che serviranno a costruire
una casa, ad avviare una discreta attività economica quando maturerà
il tempo del ritorno: una speranza viva che fa superare l'umiliazione
della emarginazione in terra straniera, un'ansia febbrile che ti fa
vivere "per non morire". Ritornare nella terra abbandonata
è l'obiettivo di tutti gli emigrati, è la ragion di vita
dei giovani diplomati e laureati costretti a lasciare i vecchi paesi,
che hanno deciso di ritornare, perché come scrive Peppino Juliano
nella poesia "Contro la rassegnazione",
Restiamo sulla
nuda terra
bagnata di sangue
e di cocenti lacrime,
contro altri saccheggi.
Nell'Irpinia, travolta
in un ventennio da due terremoti, l'economia provinciale è quella
di una terra depressa, caratterizzata da una agricoltura di sussistenza
mantenuta in piedi dalle rimesse degli emigrati. Su una popolazione
di 439 mila abitanti, gli emigrati sono 180 mila e con le loro rimesse
è stato possibile mettere in piedi nuove case, pertanto come
osserva Juliano
Ogni pietra o
mattone
racconta sacrifici
di terre lontane.
E dalle "terre
lontane" sono rientrati gli emigrati il 23 novembre, prima ancora
che giungessero sui luoghi della catastrofe e della morte i soccorritori
ufficiali; e gli emigrati hanno ridato subito vita ai paesi-presepe,
molti sono restati per lavorare alla ricostruzione, altri son ripartiti
giurando di tornare se potrà loro essere assicurato un lavoro
stabile e sicuro. Chi è restato e chi è partito è
accomunato dalla forte consapevolezza di dover lavorare con le proprie
forze e senza attendere nuove ingannatrici promesse, per l'avvio di
una reale rinascita del Mezzogiorno. Anche la "vana attesa"
ha un limite: perché non si può sempre sulla nostra pelle
scaricare le contraddizioni, i contrasti, la rissosa ed inconcludente
polemica di una classe dirigente che non avverte l'urgenza drammatica
dello sviluppo e della crescita del Mezzogiorno, che continua a ritenere
come un problema di ordinaria amministrazione, da affrontare con i soliti
e logori "pacchetti", con provvedimenti isolati e frammentari.
Ed allora, è possibile come spera Giuseppe Juliano che "quel
giorno verrà", e
Un giorno ci
stancheremo di aspettare.
Ruberemo a noi stessi
la libertà di sperare.
Abbiamo il dovere
noi tutti di salvare per chi resta e per chi è partito, per chi
è morto e per chi è uscito vivo dalle lunghe disperate
agonie del Sud ferito, non solo la "libertà di sperare"
ma la speranza di un avvenire migliore, di un domani sicuro. Sorge,
a questo punto, prepotente e spontanea, disperata e rabbiosa dal profondo
della nostra coscienza e dal vivo della nostra ragione, la stessa inquietante
domanda che si poneva Ignazio Silone al termine delle pagine di "Fontamara":
Che fare? Che fare per il Sud terremotato, devastato e saccheggiato
già prima del 23 novembre? Ad un anno di distanza dal terremoto,
mentre ancora stenta a concludersi la fase dell'emergenza e del reinsediamento
dei senza-tetto, il tema della ricostruzione legato allo sviluppo è
prioritario rispetto ad ogni altro problema. Che fare, dunque? L'angosciato
interrogativo che Ignazio Silone si poneva di fronte alla tragedia marsicana
del terremoto di Avezzano del 1915, merita una risposta sollecita ed
adeguata. Forse è una risposta che il Sud attende da decenni,
forse è una risposta che tarda a venire: dopo il 23 novembre
il Sud è al limite della sopportazione e della rassegnazione
e chiede un nuovo sviluppo che tenda effettivamente al superamento degli
squilibri settoriali e territoriali, alla definitiva eliminazione delle
sacche di povertà e di depressione. Un nuovo meccanismo di sviluppo
del Mezzogiorno deve tendere al pieno recupero delle aree interne e
all'avvio di un processo di industrializzazione e della piena occupazione
svincolato dagli interessi clientelari e di campanile, onde sradicare
le radici avvelenate di un sottopotere che strumentalizza lo stato di
bisogno e di necessità delle masse meridionali. Bisogna perciò
puntare ad un processo di sviluppo integrato che, esaltando le potenzialità
e le vocazioni delle aree meridionali, si articoli in un disegno organico
e diffuso su tutto il territorio. E' questo l'impegno che scaturisce
dalla tremenda tragedia del 23 novembre: è il senso di un dovere
etico-politico che è stato colto, con finezza di sentimenti e
forza di valori ideali, da scrittori e poeti, da uomini di cultura ed
economisti. Le pagine di questi ultimi, come le poesie del terremoto
vanno meditate per quello che sono e hanno inteso rappresentare. La
ribellione delle coscienze libere non soggiogate al carro del potere
ed il sentimento di forte fiducia nel proprio destino individuale e
collettivo è il deciso impegno della poesia del terremoto, E'
la fiducia che nasce dalla stanchezza che scuote e rianima il Sud. Ed
è non la stanchezza che prelude alla rassegnazione di sempre,
ma la stanchezza che gonfia il cuore di rabbia civile. Ed è ancora
la poesia di Salvatore Quasimodo alla lacerante scoperta di un Sud vivo
e reale, ad indicarci non più la terra mitica descritta dai grandi
"viaggiatori" e poeti dell'Ottocento, sebbene la "terra
ferita" dalle alluvioni e dalla malaria, violentata dalle dominazioni
straniere, assalita da tragedie e lutti.
Oh, il Sud è
stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
(Lamento per il Sud).
Perciò il
Sud è stanco di vivere nella solitudine dell'antica depressione
e della nuova emarginazione, è stanco di "trascinare i morti"
vittime ieri della malaria, oggi delle sciagure del lavoro e dell'emigrazione.
Questa stanchezza fiera e virile abbiamo colto negli sguardi immobili
e sulle bocche chiuse dei sopravvissuti durante la lunga notte del 23
novembre. C'è chi disse e scrisse un anno fa che era cupa e impotente
rassegnazione. Noi sapevamo un anno fa e sappiamo oggi che è
solo stanchezza di piangere e "trascinare morti", è
stanchezza di disoccupazione, è stanchezza di ascoltare promesse.
Questa colta è una stanchezza diversa: è il Sud che ha
perduto la pazienza e non aspetta più, nell'attesa rassegnata
di sempre, che arrivi il suo tempo, perché oggi l'uomo del Sud
"grida dovunque la sorte d'una patria" e prepara, con la sua
attiva e diretta partecipazione, l'avvenire della sua gente. Prepara
quell'"alba nuova" del riscatto e della rinascita meridionale
che aveva infiammato il cuore ed esaltata la ragion di vita di Rocco
Scotellaro, il sindaco-poeta di Tricarico, che aveva speso la sua giovane
ed intensa esistenza per combattere le "carte abbaglianti"
della vuota demagogia parolaia e le "pozzanghere nere" della
disoccupazione e dell'emigrazione.
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