La civiltą contadina riscoperta con il terremoto




Franco Compasso



Il terremoto del 23 novembre ha riaperto un dibattito che sembrava essersi concluso alla fine degli anni '50, una conclusione imposta dal passaggio del nostro Paese da società agricola a società industriale. Si discusse molto negli anni del boom economico se la "civiltà contadina" del Sud fosse o meno compatibile, ed in quale misura potesse convivere con una moderna società industriale. Il contributo più vivo e positivo scaturito dal dibattito culturale di quegli anni, segna con i saggi dei nuovi "meridionalisti della ragione" -da "Baroni e contadini" di Giovanni Russo a "Terroni in città" di Francesco Compagna e a tutta la vasta e profonda saggistica di Manlio Rossi Doria sui problemi e le prospettive di una moderna agricoltura nel Sud - uno dei punti più elevati della cultura meridionale impegnata a scoprire i valori storici, umani, sociali e le radici di una civiltà e di una cultura, sulle quali il nuovo sociologismo snobistico ed elitario voleva stendere pesanti veli di oblio e di ripulsa. L'operazione rigetto era strumentale e di breve respiro: la società contadina ha radici profonde, come ha dimostrato anni fa, con la bella e suggestiva antologia poetica (" I poeti del Sud"), Aldo Bello riallacciandosi al filone più vivo della cultura meridionale. Dopo il terremoto, con la polemica sui "presepi", con il dibattito su dove ricostruire i vecchi paesi distrutti, è esplosa la discussione sui "miti" e sui "valori" della civiltà contadina. Con un articolo su "La Repubblica" del 30 gennaio 1981, Ida Magli denunciava la deteriore "mitizzazione" della "civiltà contadina" che aveva una "struttura gerarchica e dispotica" al vertice della quale il capofamiglia deteneva ogni potere e "a quel potere a nessuno era consentito ribellarsi, anche se esso si traduceva nell'ingiustizia e nel sopruso". Alla Magli replicava Sandro Portelli sul "Manifesto" con una tesi fortemente ideologizzata e sostenendo, in fondo, che la cultura contadina, con le sue miserie e le sue arretratezze, le sue ingiustizie e le sue chiuse gerarchie, è figlia della cultura occidentale. "Perché forse una cultura contadina meridionale - si è chiesto Portelli - pur intrisa di povertà e di ignoranza non è anch'essa cultura occidentale?". Il dibattito dalle colonne dei giornali si trasferì presto in "campo aperto", in particolare al Centro Culturale di S. Teresa dei Marchi, nei quartieri della vecchia Bari. In quell'occasione, un giornalista della "Gazzetta del Mezzogiorno", Giacomo Annibaldis, commentò il dibattito con una osservazione conclusiva, che ci trovò pienamente d'accordo perché ispirata al necessario equilibrio e al rispetto di tutte le opinioni. "In realtà se civiltà occidentale e civiltà subalterne/ diverse - scrisse l'Annibaldis - sono due facce di una medesima medaglia, è corretto liquidare un mito, quello della cultura contadina, per lasciare sgombro il terreno a quello altrettanto falso della "cultura tecnologica"? Che tale posizione sia corretta ed esprima una tolleranza piena e civile non vi è dubbio alcuno, perché a noi sembra che su problemi che affondano le loro radici non solo nei "miti" ma anche nei "valori", cioè nelle scelte di vita, nei comportamenti, nella storia di intere generazioni non si può passare una spugna e, in nome di falsi e retorici intellettualismi, fare piazza pulita di tutto e di tutti. Certo, la "civiltà contadina" è la società chiusa dei padri-padroni e dei figli-servi, delle donne murate in casa ed avvolte nello "scialle nero" della superstizione, delle morti per "vendetta" o per "onore" o per "disgrazie". Come dimenticare, però, che questa "civiltà" è la genitrice di Rocco Scotellaro e di tutto un filone del pensiero, della poesia, del giornalismo, della saggistica che ha voluto sempre "capire" i valori di una società che sembrava pietrificata nel suo cupo isolamento, e che invece proprio la tragedia del 23 novembre ci ha mostrato nella pienezza dei suoi valori, della sua coscienza civile, forte nella certezza di una ricostruzione legata allo sviluppo, cosciente e ferma nel rifiuto del vecchio assistenzialismo corrotto e corruttore. Ed allora, come dar torto a Tommaso Di Ciaula, che di quella società è l'emblema attuale più ricco di significati, perché abbandonando le campagne isolate e depresse del "latifondo contadino" si è immerso nella società industriale e tecnologica e, pur avendo ormai acquisito lo status di "tuta blu", ha scoperto che la società delle "tute blu" non garantisce contro la alienazione, le morti bianche, il bombardamento dei mass-media, gli inquinamenti e i disastri ecologici, la paura nucleare e i bimbi deformi. Allora, bisogna tornare indietro all'età della pietra? No. La civiltà è continuo divenire, è il progresso civile e umano che si costruisce ogni giorno, né può essere ingabbiata nei ferrei schemi del pregiudizio politico e storiografico. E la cultura, quando è la libera e autonoma creazione dell'uomo libero e razionale, non può essere etichettata né emarginata con aggettivi riduttivi o spregiativi. In questo senso -ripensando alla polemica del dopo-terremoto sui "miti" e sui "valori" della civiltà contadina si manifesta in tutto il suo valore culturale un saggio recente di Giuseppe Giarrizzo e Fosco Maraini ("Civiltà contadina" -Immagini del Mezzogiorno degli Anni Cinquanta, a cura di Enzo Persichella) edito da De Donato di Bari proprio qualche giorno prima del terremoto del 23 novembre. Questo ampio saggio, ricco di una stimolante introduzione di Giuseppe Giarrizzo e di una documentazione fotografica di Fosco Maraini - nella quale la foto si appalesa uno strumento di "lettura" in chiave critica ed autonoma delle difficili realtà del Sud negli anni '50 -conferma che il metodo più appropriato e corretto per affrontare una discussione difficile e lacerante sulla "civiltà contadina" (una discussione sulla quale pesa l'ipoteca di una "mitizzazione" di tipo arcaico e la suggestione dei nuovi "miti" di una cultura troppo angusta e schematica) è quello di cogliere ciò che è vivo e che può ancora vivere nella società meridionale. In particolare, più che in altre regioni del Paese, nella "storia immobile" del Mezzogiorno i mutamenti, le "eresie", le "ribellioni" sono state più numerose e sconvolgenti - ed anche creative di nuovi status sociali - che altrove. Mi pare che si possa concludere con Giuseppe Giarrizzo che la civiltà non si costruisce con operazioni prefabbricate né si demolisce con i pregiudizi ed i miti di una sociologia paleocapitalistica: "quando c'è e resiste tenace ed ha modi e contenuti espansivi, questa civiltà contadina è espressione funzionale dell'autonomia culturale di una comunità contadina" . Una comunità viva nelle sue radici e forte nella sua storia, profondamente cosciente di uscire dalle vecchie strutture sociali e capace - come è stata capace negli anni della travolgente trasmigrazione dalle campagne alle città - di qualificare il vecchio lavoro agricolo in attività imprenditoriale moderna, di portare attorno alle catene di montaggio la dignità ferma e severa dell'antica miseria contadina.

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