§ DIBATTITI

A chi non piaceva Montale




Ferdinando Camon



E' impopolare, ma è inevitabile, in questo momento, avanzare qualche riserva di fondo sull'opera di Montale. Montale è di gran lunga il poeta italiano più amato, e nel momento della sua morte l'indicazione di riserve sulla sua opera può risultare urtante e provocatoria, e va perciò preventivamente circoscritta nei suoi limiti: che son quelli del riconoscimento di Montale come massimo poeta italiano di tutto il secolo, e, con Eliot e Kafka, una delle tre massime espressioni della condizione dell'uomo contemporaneo. Se Eliot rappresentò ed espresse, di questa condizione, il momento della massima importanza (la fede), Montale incarnò ed espresse il polo opposto, quello della disperazione, tuttavia non patita con un senso di umiliazione (come in Kafka) ma redenta nell'orgoglio. La morte di Montale viene oggi sentita in maniera molto diversa dai laici, dai cattolici, dai marxisti, dai giovani. Il "Corriere della Sera" ha raccolto la più grande quantità di interventi commemorativi, pressoché tutti all'insegna della grandezza senza ombre e della validità per sempre e per tutti dell'insegnamento montaliano. La Radio Vaticana ha avvertito subito l'esigenza di limitare la validità di quella poesia, definendola "poesia della nostalgia e dell'inquietudine, non altro" e spiegando la sua riserva con un "vuoto" nella ricerca morale-letteraria del poeta. "L'esperienza religiosa del poeta non approda alla fede, resta circoscritta nella zona preliminare del sacro, alla ricerca delle tracce dello splendore del divino che ha abbandonato il mondo". Pronunciata naturalmente dal versante opposto, la reazione dei marxisti è stata dell'identico segno: l'opera di Montale "fa a pezzi, accuratamente, ogni possibile apertura di ordine solidale e fraterno verso l'umana compagnia" (Edoardo Sanguineti, Paese Sera); "Un uomo le cui idee politiche non furono esattamente le nostre" (Giovanni Giudici, L'Unità); "Fatto sta che la poesia di Montale è stata quasi sempre conosciuta come la poesia dell'establishment nostrano" (Elio Pagliarani, Paese Sera). Pare che le due sponde entro cui scorre ancora la cultura italiana di questo tempo, quella cattolica e quella marxista, ci abbiano tenuto a pronunciare, nei confronti di Montale, nel momento della sua morte, una dichiara ione di extraterritorialità. E che abbiano avuto fretta di farlo: come se quella dichiarazione fosse pronta da tempo, e come se quella extraterritorialità fosse un dato avvertito da decenni. E in effetti così è: negli anni del massimo fervore della critica marxista qui da noi e del suo rilancio, colui che passa, non a torto, come la "coscienza critica" del giovane marxismo (o del marxismo dei giovani), Franco Fortini, notava, a proposito di Montale: "La sua formazione intellettuale, di origini spiritualistiche e positivistiche è scarsa del senso della storia", e spiegava, "Con capacità profetica e con una tensione che per esattezza intellettuale applicata al caos è pressoché unica nella poesia moderna, Montale ha espresso la rimozione che la parte più europea del ceto intellettuale italiano ha operato nel conflitto fondamentale del nostro secolo - quello sociale e politico - sostituendolo col tema "eterno" dello scacco e della incomunicabilità. Le "bufere" della barbarie fascista, della guerra e della catastrofe atomica sono quindi interpretate come mere intensificazioni di una unica potenza intrinsecamente malvagia, l'esistenza". Siamo nel cuore del problema-Montale: i limiti del rapporto di Montale col suo tempo. Quel tipo di critica marxista dice molto su Montale, e molto sul marxismo. C'è un poeta che assume i temi della storia a categorie eterne, e c'è il marxismo che non sente più quei temi della storia: come se fossero vanificati e dissolti. Tutto ciò che è eterno per il marxismo non c'è. Perciò esso è sempre così inguaiato nell'affrontare la poesia. Ora, la poesia di Montale nasce proprio da qui: da una immersione della storia nell'esistenza, delle catastrofi nella Catastrofe, della repressione nell'infelicità, del terrore dei deboli nel terrore di esistere; insomma, dei mali della storia nel "male di vivere". Da questa immersione venne all'umanità una immensa quantità di ciò che chiamiamo "poesia"; ma nessuna spiegazione, nessun aiuto a capire. Chi cercava solo e soprattutto questo (cattolici, marxisti, giovani) non può accostarsi a Montale senza rancore e senza timore: che è il timore di non essere aiutato nella crisi o di essere messo in crisi. Chi, invece, vi cerca solo la poesia, esce da un contatto con Montale pienamente appagato: Montale, come dice lui stesso, non ha fatto nulla per migliorare il mondo, non ha trovato nulla che avesse un senso nel mondo, ma in quel nulla egli ha alzato un lamento che tutti abbiamo sentito e che nessuno può dimenticare. Diciamo dunque: poeta grandissimo? Sì, ma aggiungiamo: purtroppo per noi. La triade Ungaretti-Montale-Quasimodo, costruita in questo secolo quasi per contrapposizione alla triade che chiudeva il secolo precedente, Carducci-Pascoli-D'Annunzio, sta già per avere lo stesso destino di quella: la funzione di indicare un blocco di esperienze poetiche e umane che non formano, per la generazione che viene, il modello da cui partire, ma da cui differenziarsi.

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