Il Sud nella narrativa




Anita Chemin Palma



Negli anni del "boom", cioè nei sorprendenti e drogati anni '60, alcuni elementi intervennero a sconvolgere le coordinate dell'attività letteraria italiana. Del mutamento nell'ambiente provocato dallo sviluppo industriale, si è già detto: le cose, la realtà tutta evolvevano rapidamente verso esiti che non di rado sembravano ostili e refrattari ai tentativi di interpretazione secondo le abituali categorie ideologiche, politiche ed estetiche. La stessa diffusione degli strumenti creati per rispondere a tali esigenze conoscitive, le cosiddette "scienze sociali", se pure apriva orizzonti inediti alle possibilità espressive, contribuiva tuttavia ad approfondire il senso di complessità e di enigmaticità del reale. Un secondo fattore di cambiamento fu il fenomeno, del tutto nuovo e proprio delle società moderne, della cultura di massa, nel duplice aspetto della cultura come industria e della diffusione standardizzata di determinati modelli di comportamento, di ideologia e di linguaggio. Da un lato, la crescente importanza dei mass-media e il nascere dell'industria culturale, configurano un uso diverso della cultura, che da coscienza critica della società, si fa addirittura strumento di orientamento della società medesima, nel caso della cultura distribuita attraverso i mezzi di comunicazione di massa, o che, nel caso della cultura come industria, da momento di crescita spirituale diventa, né più né meno, merce. Dall'altro, i nuovi paradigmi che si impongono sulle precedenti realtà, e che sono tanto funzionali allo sviluppo industriale quanto banalmente uniformi, pur configurandosi come un sistema compiuto di valori, mancano dell'essenza stessa di ciascuna cultura, che sta nell'essere originale e nel caratterizzare e differenziare se stessa e la comunità che ne è portatrice rispetto al diverso. E' chiaro che una simile impostazione del problema coinvolgeva aspetti di fondo dell'attività letteraria e si poneva come nodo centrale nella definizione del ruolo dell'intellettuale negli anni '60. Le soluzioni proposte furono molto diverse, dagli sperimentalismi dell'avanguardia al ritorno alla narrativa tradizionale. L'intento dichiarato di recuperare l'immediatezza de "le persone, le cose, il dolore, i problemi non risolti" e la genuinità d'espressione di un linguaggio ancora non devitalizzato dagli stereotipi sta all'origine dei "Racconti siciliani" di Danilo Dolci, caleidoscopica galleria di personaggi, a metà strada tra la documentazione sociologica e la ricerca delle figure se non perdute almeno in via di estinzione:

"Il tracoma viene da una botta di sangue o da collera, quando è forte, ci può scattare l'occhio, il sangue ci si leva di dentro e viene fuori. Se una donna è incinta, con una collera si rovina. E' la collera che rovina tutte le cose. Per guarire gli occhi si usa l'acqua del bevaio dove nasce l'erba verde, oppure si mette l'erba verde negli occhi, e, strofinare, e ci passa, ci guarisce, perché nel bevaio ci bevono, mucche, muli, e la bava di queste bestie ci fa bene alla vista. Ci si può mettere la bava di mulo e di mucca, sciolta nell'acqua. Tutti i mali svolgono o dalla collera o dal mangiare. E con una collera forte si può anche morire. Suo fratello dormiva in campagna, poi si sveglia e era diventato rosso, gonfio e gli si stringeva la voce, la voce l'aveva stracambiata. Tornato a casa non riusciva a chiamare, picchiò la porta che non poteva chiamare, tanto che sua moglie non si fidava a aprire il catenaccio, sua moglie diceva: - Chi è ... ? - Gli venne la febbre; che ci aveva una mangiacinedda al braccio, ci guardò e era una zecca attaccata. Le zecche sono velenose quelle cammarate, basta che va addosso a una persona, è velenoso. E senza tirarla da una persona: si tagliano con le forbici, perché se la tira si rompe e lascia il veleno dentro. Invece la taglia e resta com'è. Con queste bestie in casa, sempre zecche c'è. Nascono dal fetore degli animali. Le bestie hanno vermi sopra la carne. La capra ha tanti vermi addosso. Ci si spreme la carne e esce il verme, un pezzo di spaghetto, capre e pecore. Le zecche si appizzano nei cani, nelle bestie. Dormono le bestie con noi, e le zecche passano dagli animali ai cristiani. C'è la qualità bianca, grossa e quella caffé, che si attaccano con le zampette. Avvelenano il sangue.".
(Da "LA GUARITRICE", in "RACCONTI SICILIANI", di DANILO DOLCI, 1963).

Ne "L'amara scienza" di Luigi Compagnone la guerra breve e velleitaria dei quattro componenti della famiglia Alinei contro lo sfratto che li butterà sul lastrico si combatte in una Napoli che s'è fatta più grande e moderna, ma nella qual e è ancora indispensabile scaltrirsi nell'amara scienza della "conservazione della vita come scopo a se stante" per non soccombere:

"No, Egidio Alinei non va in giro come un automa. Ha un problema preciso, che investe tutt'intera la sua famiglia; un problema, al quale cerca, sì, di trovare una soluzione utile e responsabile. Poiché non si può rispondere alla crisi can la crisi, all'infelicità con la coscienza infelice. Charles Wright Milis. Appunto, distinguere tra difficoltà e problemi. Le prime si producono nei limiti del carattere dell'individuo e dei suoi immediati rapporti col prossimo; i problemi si riferiscono invece a questioni che trascendono l'ambiente particolare dell'individuo e i confini della sua vita interiore. Sorriso, anzi smorfia, alla propria faccia incontrata in una vetrina. Bella faccia. Da conferenziere. O faccia da monologo interiore? Conferenza e monologo interiore, due in uno. Ancora con Wright Mills, considerare sotto questi due diversi angoli visuali, difficoltà e problemi cioè, il fenomeno della disoccupazione. Quando in una città di centomila abitanti, lui dice, c'è un solo disoccupato, ci si trova dinanzi a una difficoltà personale, e per eliminarla si esaminano il carattere dell'uomo, le sue capacità, le sue immediate possibilità. Se invece in un paese di cinquanta milioni di abitanti, vi sono quindici milioni di disoccupati, si tratta allora di un problema, la cui soluzione non si può necessariamente trovare nell'ambito delle possibilità che si offrono ai singoli individui, eccetera. Eccetera e vivissimi applausi. A questo punto: il qui deambulante Egidio Alinei costituisce una difficoltà personale o un problema generale? Non è il solo disoccupato in questa bella e popolosa città, verissimo, esistono però anche occupati, medio-impiegati, sotto-occupati, et coetera. Esiste altresì una ricchezza; papà, ad esempio, la valuta addizionando il numero delle automobili che circolano, dei palazzi che crescono, dei negozi strapieni, e bisogna riconoscere che Napoli è già Megalopoli, già elefantiasi e ipertrofia. Allora: perché, lui, appartiene alla Napoli ipotrofica? Drammatica domanda, che merita applausi, strette di mano, fiori al conferenziere."
(L. COMPAGNONE, L'AMARA SCIENZA, 1965).

Ancora Napoli è lo scenario di "Una spirale di nebbia" di Michele Prisco, una Napoli inconsueta, bigia e perfino fredda, nella cui plumbea atmosfera si involvono i personaggi trascinando senza capacità di riscatto le loro ipocrisie e le loro disillusioni:

"C'era il circo? Lì a due passi, attendato a due passi dall'uscita del casello: non avevano visto i grossi manifesti sui muri venendo, e la scritta luminosa in piazza? Ma già, erano venuti per l'autostrada. Si trovava lì da una settimana, il circo, e i bambini c'erano già stati un paio di volte a vederlo e adesso ci andavano loro giusto per fare qualcosa, e chi propose, allora, del gruppo: "Andiamo anche noi?". Le ragazze riluttavano: "Ma lo sapete che dopo dobbiamo arrivare a Napoli?" e qualche altro non voleva rinunciare al tacchino. Valeria si muoveva lì in mezzo come se fosse di casa, perfettamente a suo agio: suggerì, con la più mondana naturalezza che le si potesse supporre, di comprare dei panini o farsi preparare dei panini, alla buona, con la porzione di tacchino in mezzo, e andare a mangiarseli al circo, ma sì, in prima fila, tra il pubblico. "II pubblico!" soggiunse con un sorriso un po' fatuo. "Siamo noi altri, sapete: campagnards: non dovete formalizzarvi troppo se è per questo.". E lui la guardava con una specie di freddo stupore: come se non la riconoscesse, così padrona di sé e così giovanilmente graziosa: perfetta, nella nuova parte che a un tratto le piaceva recitare innanzi a loro, non l'avesse tradita il battito un po' nervoso delle palpebre che scopriva il patetico desiderio di trattenerli e vivere questa inaspettata parentesi di svago (si contentava di poco), prima di ritornare sotto la pioggia a casa, in piena campagna, in quella villa troppo grande e isolata anche per il loro nucleo familiare abbastanza nutrito ... E per la prima volta lui aveva avvertito come un'ombra di rimorso, una specie di puntura leggera e insofferente ... o lo stava provando adesso qui, nello studio del nonno, a furia di fissare quella tendina alla finestra che per un attimo gli aveva fatto pensare al fantasma di Valeria?
(M. PRISCO, UNA SPIRALE DI NEBBIA, 1966).

Tra le proposte che erano state avanzate rispetto alla questione del ruolo della letteratura nella società neocapitalista, un posto a sé occupa il cosiddetto sperimentalismo linguistico Dalla constatazione del totale disfacimento della significatività del linguaggio nell'età contemporanea, dell'impossibilità di comunicare tra individui, dell'inutilità, al limite, della comunicazione stessa, in quanto ogni rappresentazione del reale ne è già in qualche modo una deformazione, si arriva alla conclusione che l'unica possibile via che si apre alla letteratura consiste nell'alchimia verbale, nel tentativo di rendere con la suggestione dei suoni la farraginosità e l'immediatezza dell'esperienza vissuta. Gli esiti più radicali di tale posizione si sono avuti nella poesia, mentre per la prosa il risultato forse più interessante è "Vogliamo tutto", di Nanni Balestrini: la storia della rabbia operaia di un ragazzo meridionale immigrato al Nord si snoda attraverso l'accostamento di parti narrative in prima persona, di resoconti di assemblee, di brani di volantini:

"Come in tante fabbriche alla Fiat per mangiare ci portavamo il baracchino. E io dicevo che la mezz'ora del mangiare ce la dovevano pagare perché anche quella mezz'ora lavoravamo. Perché mentre stai lavorando suona la sirena, uuuhhh, e allora tu ti metti a correre, fai le scale, arrivi nel tuo corridoio, arrivi nel tuo spogliatoio, arrivi al tuo armadietto, prendi la forchetta, il cucchiaio, il pane, corri, vai dove sta il tuo baracchino che ce ne stanno duemila, prendi il tuo baracchino, arrivi al tavolo, parli, tatatatatatatatatata mangi, giù, uuuhhh, salti su, scappi, corridoio, spogliatoio, armadietto, posi un'altra voltala roba, corri giù, mezz'ora, eccoti un'altra volta nell'officina. Tutto di corsa, mentre vai e mentre torni in officina, se no non ce la fai. Questo è lavoro, mica è intervallo. E' produttivo sto fatto.
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Io vorrei parlare dello sciopero di giovedì. Sappiamo che questo sciopero è proclamato dai sindacati per tentare di recuperare la forza delle nostre lotte. Ma questo sciopero per gli sfratti o per qualunque cosa sia dobbiamo cercare di sfruttarlo a modo nostro, non dobbiamo lasciarne l'iniziativa ai sindacati. Allora si tratta di portare il nostro sciopero, la nostra lotta all'esterno e per questo di organizzarci. In questi tre giorni che abbiamo cerchiamo di organizzarci tra noi, squadra per squadra, reparto per reparto, officina per officina. E cerchiamo di formare un corteo abbastanza grande per ottenere se non con le parole con la forza ciò che vogliamo. Applausi."
(L. BALESTRINI, VOGLIAMO TUTTO, 1971).

Oggetto dell'ironia raffinata e caustica di Giuseppe Cassieri ne "Le caste pareti" è la tranquillante ideologia del "senso comune" cui imprevisto e irrazionalità sono ignoti. Esempio, anzi, capolavoro realizzato di buon senso è la convivenza dei due protagonisti, piattamente incanalata nelle regole del vivere in due, tanto serena da sfiorare la banalità, nella quale tuttavia si insinua, dapprima impercettibilmente, poi con effetti sempre più evidenti, una oscura nota d'inquietudine. L'impiego protratto fino quasi al paradosso del linguaggio mondano e amabile con punte di raffinata modernità, tipico dei rotocalchi, in particolare dei rotocalchi cosiddetti femminili, finisce per evidenziarne tutta l'intima vacuità:

"Talvolta mi domando se sia un bene o un male che tra noi sussista qualche divergenza nella cosiddetta visione della vita. Forse non è un male, se ci amiamo. Serve a rendere più folto di emozioni il campo privato; senza spostarci dall'abitacolo riusciamo a incarnare il sì e il no del nostro mondo nel mondo in grande mantenendoci in equilibrio. Si può, dunque. Si può se ciascuno bussa con discrezione alla porta del compagno, e in determinate circostanze accetta che si risponda di no. Liberissimo lui di preferire la linea ondulata al rettifilo, ma non mi accusi per favore di esagerata fedeltà al planning. Mi spiego meglio. Io ho una filosofia da mettere in pratica nel corso della giornata. Ogni donna, soprattutto una razionale padrona di casa, dovrebbe averne una. Mi alzo un quarto d'ora prima del mio uomo e dopo breve transito in bagno mi ritiro nel mio studiolo, siedo allo scrittoio e rifletto sulla ripartizione delle faccende interne, delle faccende esterne, degli imprevisti da calcolare nell'arco delle ventiquattro ore. Giungo ad affermare che una morte subitanea non mi troverebbe impreparata. Ignoro cosa significhi poltrire tra le lenzuola col cervello sveglio, pronto ad assumersi le sue responsabilità. Nel riflettere e coordinare non cedo mai per pigrizia ai doni della memoria: un alibi da vecchia massaia che consiglio di sotterrare. Mi munisco di due armi leggere e infallibili, da portare legate al collo, alla cintura, a vostro criterio, purché in servizio permanente: biro e agendina, e grazie ad esse evito quelle ulcerate esclamazioni delle nostre conoscenti allorché si accorgono che il bilancio previsionale è saltato. Come mai siamo fuori di tanto? Come mai! Occorre, si capisce, affidarsi a un metodo di gestione che comprenda finanze, governo della casa, rapporti intimi col proprio compagno; ciascuna di voi può elaborarne uno, ma quel che importa è che non lo molliate se non per provata indegnità. Io trovo eccellente il Drucker-Constance articolato in cinque punti capitali: definizione del problema; analisi del problema; ricerca delle diverse soluzioni del problema; decisione a valle del problema; trasformazione della decisione in azione e sorpasso del problema."
(G. CASSIERI, LE CASTE PARETI, 1973)

Del 1975 è "Padre padrone: l'educazione di un pastore", di Gavino Ledda. E' un testo complesso, nel quale sembrano confluire motivazioni ed impulsi diversi: vi è sempre l'intento di denuncia delle condizioni di vita dei più dimenticati tra i lavoratori agricoli, i pastori, diseredati in modo colpevole da uno stato che se ne ricorda solo per farne dei soldati o dei poliziotti, o per braccarli quando hanno scelto la via del brigantaggio, ma è anche costante lo sforzo di razionalizzare l'arcaico sistema di valori che contribuiscono fortemente a mantenere i pastori della campagna sarda in un ruolo di totale subalternità, e di recuperare per superarla, attraverso l'analisi della figura del padre quale tramite interno al sistema stesso e della diversità linguistica come limite che impedisce di uscire dall'emarginazione, una realtà che pure, per l'impressionante autobiografismo del libro, è sentita come parte essenziale del proprio presente:"Giunti al bivio, si attese il pullman in un imbarazzo reciproco che ci allacciava come un giogo dispaiato alla fiera. Nei suoi confronti mi ero sentito sempre come un capo di bestiame, come Pacifico. Mi aveva sempre dovuto imbastare ed usarmi come un attrezzo nel lavoro. Ma nell'attesa mi stavo preparando ad uscire dalla proprietà di mio padre e stavo incominciando ad immaginarmi diverso dalle altre bestie domestiche. Non ci riuscivo del tutto. Il tempo stringeva e la circostanza mi stava strappando dal peculio e ci stava imponendo di recitare, almeno per un attimo, una parte mai vissuta. Dentro il nostro timido silenzio, tutti e due ci si preparava ad essere quello che non eravamo mai potuti essere: padre e figlio. Impalati lì, l'unica arma cui ognuno ricorreva per rimanere ancora dentro il nostro rapporto gerarchico era il silenzio. Avevo quasi vergogna di divenire figlio davanti al, mio padrone che mi aveva sempre dominato. Lui nel suo imbarazzo tradiva più o meno lo stesso sentimento: la soggezione di divenire padre. E' come se ognuno si fosse abituato al proprio ruolo, ora nessuno voleva rinunciarvi. Gli attimi però correvano. E di tanto in tanto ci si stiracchiava il collo per vedere se il pullman si stesse snodando lungo la strada. Nessuno, però, voleva cedere a fare la parte che la circostanza ci imponeva in ogni caso. Il pullman con le sue trombe sbloccò quello stato d'impaccio. E ognuno pian piano riuscì, sia pure malamente, a mettersi finalmente nella posizione naturale. Io a risalire a quella di figlio, lui a retrocedere in quella di padre.
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Il brusco scontro con la nuova vita mi rese ancora più diverso da quello che ero nei confronti degli altri. L'adattamento fu affannoso: come l'apprendimento dell'italiano. Spesso rasentò l'impossibilità e la disperazione. Il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero "muto" e senza una lingua: come un essere inferiore che non poteva esprimere quello che pensava. Per parlare allora dovevo fare più o meno come facevo a Baddevrustana nel silenzio del bosco dietro il gregge. Dovevo rientrare nel mio mondo che fortunatamente anche a distanza mi rapiva e mi distoglieva da quella desolazione. Il mio cervello, disperato, come per creare un rifugio al nuovo ambiente ostile, secerneva fantasia viva: creava immagini. E con la disperata nostalgia, non potendo comunicare con altri, riviveva e si rievocava, golosamente disperato, il mondo che conosceva, anche se lo aveva lasciato al di là del mare: si rifiutava completamente di conoscere il mondo militare. Voleva vedere natura senza divisa."
(G. LEDDA, PADRE PADRONE, 1975)

Si è detto prima che l'entità "fabbrica" ha modificato radicalmente il sistema dei rapporti dell'individuo con l'ambiente in cui opera, ed ha quindi imposto agli intellettuali nuovi modi di confronto e di approfondimento rispetto alla realtà. Un aspetto particolare di questa tendenza è costituito dal proliferare dei "romanzi-verità" scritti in prima persona da operai: per ricordare alcuni nomi, si pensi a Vincenzo Guerrazzi, a Vincenzo Bonazza, a Tommaso Di Ciaula. L'ispirazione di partenza di Tommaso Di Ciaula può sembrare simile a quella del Balestrini di "Vogliamo tutto", ma del tutto diversi sono gli esiti: la "letteratura operaia" di Balestrini tradisce un approccio molto intellettuale all'oggetto della narrazione, sia nell'uso sapiente della contaminazione della lingua scritta con la concitazione del parlato, sia nel ruolo preminente affidato all'enunciazione ideologica rispetto al racconto; in Di Ciaula, il continuo vagabondare del discorso tra i ricordi dell'infanzia vissuta in campagna e il presente fatto di lavoro in fabbrica sostanzia di una verità più autentica e convincente le riflessioni, che pure sono anche molto politiche, sui guasti e sulle occasioni fallite dello sviluppo economico nel Sud:

"Che grande invenzione la fabbrica. La fabbrica! In poche centinaia di metri quadrati costringere centinaia e centinaia di persone. Gente che doveva saper quasi volare.
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In questa fabbrica ci sono parecchi studenti-lavoratori. I primi a diplomarsi già da molti anni indossano il camice bianco. Sono molto fieri del loro camice e noi operai siamo fieri di loro. Agli ultimi diplomati, purtroppo, la direzione ha risposto picche: c'è la crisi, debbono continuare a tenersi la tuta blu. Ormai sembrano rassegnati, non ci pensano quasi più, al diploma che non è servito a niente, che forse non serve più, o forse non aveva nessuna ragione di esistere. Quando tornano alle case sono le loro mogli, le loro ragazze o le loro madri che rinnovano la piaga. Chiedono come va, hanno avuto il passaggio ad impiegati, e loro rispondono con un uffa, le guardano di traverso e si gettano stanchi sul letto.
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Anche oggi abbiamo pranzato dice mia moglie. Ieri siamo andati a raccogliere cicorielle selvatiche e le abbiamo fatte lesse, un goccio in più di olio, di vero olio di oliva, ed è uscito un pranzo sano e gustoso. Ho avuto cura dopo versato l'olio di leccare l'orlo della bottiglia perché è peccato che se ne perda pure una goccia. Lo faceva mio nonno'mba tmas insist, lo fa mio padre e l'ho imparato anche io. Lo si fa non per tirchieria ma per rispetto, quasi per devozione, come se fosse un rito.
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Faccio un salto alla Standa. Qui dentro, più c'è roba buona più mi immalinconisco, entri allegro e ne esci scocciato, rimbambito, irritato. Qui c'è tutto: migliaia di aggeggi, tanta roba buona da mangiare. Certo che l'uomo ha inventato la tv a colori, le auto a 300 all'ora, e tante altre cose che sarebbe sciocco elencare, ma non è riuscito a far passare nemmeno un filo d'acqua tra questi campi sperduti nell'afa, sperduti nel maledetto canto di cicale che non ho mai capito come cantano."
(T. DI CIAULA, TUTA BLU, 1978)

Infine, un'epica dell'emarginazione, "Nero di Puglia", di Antonio Campobasso. Difficile dare una definizione di quest'opera, quanto mai atipica rispetto al panorama letterario contemporaneo: non è solo un romanzo, dal momento che a tratti la "voglia di dire" di Campobasso rompe le linee della prosa per cercare il ritmo dei versi, ed è qualcosa di più di una giustapposizione di brani di prosa e di poesia, perché nella prosa resta la potenza suggestiva e lirica dei versi, e la poesia mantiene la rabbiosa volontà di denuncia della prosa. La narrazione si snoda veloce, appassionata, quasi concitata, con una ricchezza espressiva che va dai toni di indignazione più acuta, alle note di tristezza più dolente, alle poche vibrazioni di tenerezza:

"A Triggiano, in vicolo Buonarroti, vivevo con la vecchia in un basso desolato. Un letto a due piazze, tre sedie, una catasta di legna secca per fare fuoco, una lampada a petrolio. Luce, gas, acqua corrente non l'immaginavo manco. E d'inverno, quando il gelo pungeva (ma chi ha mai incantato la gente con l'illusione del calore del sud?) dominava il braciere con le carbonelle semiaccese, ti bruciava le cosce e ti lasciava le spalle al vento. E che notti! Quando la stanchezza non mi faceva suo prigioniero, mi danzavano gli incubi nel sogno, mi svegliavano, mi facevano bestia, e lì, accanto al mio corpo, c'era questa donna cui aggrapparmi per il calore che mi veniva meno. Cosa mangiavo? Ora lo comprendo. La vecchia usava una tessera di povertà, bussava all'ente comunale di assistenza, strappava al mondo del Moro e dei potenti del sud qualche chilo di pane e di pasta; faceva la serva presso le case dei ricchi, tirando avanti ora per ora, giorno per giorno, settimana per settimana, in un calendario della miseria che nessuno conosce, quello che non è il calendario dell'opulenza e della liturgia: qualche cosa di diverso, in cui ogni giorno è sangue rosso, attesa, speranza, un tozzo di pane, un rifiuto che raccogli. E non sempre le davano soldi; bastavano un chilo di zucchero o un abito smesso che si facevano, nella magia delle sue mani, una ricchezza inattesa. Si facevano acquietamento di fame, o pantaloni e mutande per il ragazzo negro che le premeva addosso. E se non trovava da servire o da lavare panni, girava per le case a pettinare le vecchie, secondo l'antico mestiere delle pettinatrici che il tempo, anche quello del sud, ha ingoiato.
Gloria alla vecchia,
che più di cristo merita altari,
più di ogni dio insignificante
vuole che le si paghino
inni saltati e cantati
come in una foresta africana.
E' giusta, è grande,
ha patito ora per ora
in una storia che non è quella dei grandi.
I suoi stracci sono vestiti di luce,
il suo volto
mette fuori fulgori,
costringe i serafini del tempio
a coprirsi gli occhi,
copre di vergogna i santi di dio.
I tozzi di pane lemosinati
sono più sublimi di ogni assurda eucarestia.
Il negro, il bastardo,
lo ha fatto creatura
con il calore del suo corpo.
E' in mezzo ai cori degli ordini angelici,
se mai sono al di là dei cieli di pietra.
…………………………………………….
La sua soavità aveva meravigliose pieghe. Più di una volta mi tolse il malocchio e tagliò i vermi servendosi di remote formule e di antichi incantesimi. Gesti misteriosi, parole segrete che mi esorcizzavano il male sul capo e sul ventre, scatenanti sensazioni dolcissime, lenendo le mie sofferenze infantili, e tante volte mi fingevo ammalato per sentirla vicina, per godermi questa sua segreta pietà. A sessantacinque anni era ancora lucida, lottava contro il declino, non cedeva per vigilare sul mio crescere. E mi chiedeva: "Come farai quando morirò?", e allora mi bolliva dentro l'ira per una cosa che non conoscevo, una ribellione atroce contro la morte come comando del dover spegnersi. E le dicevo: "Non devi morire!", e nei suoi occhi fiorivano lacrime, poiché sapeva che da sempre ho avuto paura dei morti."
(A CAMPOBASSO, NERO DI PUGLIA, 1980)


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