§ DILEMMI DELL'ENERGIA ATOMICA

Il Salento nell'occhio del ciclone




Enrico Surdo



L'era del carbone bianco nel nostro Paese si è chiusa da venti o venticinque anni. Praticamente, non possediamo più risorse idriche da sfruttare né sulle Alpi, né sulle catene appenniniche. Da qualche tempo facciamo ricorso al "riciclaggio" dell'acqua già utilizzata per produrre energia elettrica creando gli impianti di pompaggio notturno, costosi, ma resi convenienti dal crescente prezzo del petrolio. Facciamo ricorso anche alle centrali elettriche minori, che erano state chiuse, perché economicamente non convenienti, nell'epoca del greggio a buon mercato. Le riapriamo perché sono ridiventate utili anche ad alto costo: secondo un'immagine non appropriata ma emblematica, è come rimettere in circolazione le vecchie Balilla a causa del prezzo troppo alto di una qualsiasi auto nuova.
Il black-out - vale a dire le città al buio, le case senza riscaldamento, le industrie ferme, le ferrovie immobili, le auto in garage - diventa un rischio concreto e vicino. Ma l'uomo della strada non lo sa, o non ci pensa, o non ci crede. A Porto Tolle la nuova centrale termica non può entrare in funzione perché i Comuni del delta padano non vogliono che il loro territorio venga attraversato dall'oleodotto di cui la centrale ha bisogno (sarebbe più esatto dire: ha urgentissimo bisogno) per essere avviata. A Montalto di Castro i lavori per la prima grande centrale nucleare di dimensioni ottimali vanno a rilento. Il ritardo che si è accumulato è già di alcuni anni, ma sembra destinato ad allungarsi.
Bisogna fare un discorso chiaro. Le nuove centrali, a carbone e nucleari, debbono essere localizzate, e subito. Noi abbiamo farne di energia, tutti i Paesi industrializzati hanno farne di energia. Si dice che la terza guerra mondiale sia già scoppiata, anzi, sia già in corso da alcuni anni, e che lo scacchiere medio-orientale (l'area delle grandi produzioni petrolifere) sia una delle più rilevanti poste in gioco. Si dice anche che le fonti energetiche alternative (eccezion fatta per l'atomo) non possano essere utilizzate prima di dieci-venti anni: il mondo ha vissuto di rendita sul petrolio, lo ha considerato una risorsa inesauribile, facilmente accessibile. Nel momento in cui alcuni Paesi produttori hanno chiuso o stretto i rubinetti, e tutti hanno aumentato in varia misura i prezzi di vendita, mettendo in crisi i sistemi economico-produttivi delle aree avanzate, ci si è accorti della necessità di tornare alle fonti tradizionali o di far ricorso alle fonti atomiche. Così, è tornato di moda il carbone polacco (in Italia, addirittura, il pessimo carbone sardo); e così si è riaperto il discorso, in realtà mai sopito, delle centrali per energia nucleare. Con due problemi di fondo da affrontare. Il primo: chi le vende, difficilmente offre gli ultimi modelli, frutto di progetti recenti, tecnologicamente avanzati, e semmai cede i diritti di esecuzione di centrali superate, il cui costo è altissimo, e la cui "fase di invecchiamento" è così celere, da lasciare quantomeno perplessi. Il secondo: chi le acquista, in ogni caso deve affrontare i difficili nodi della dislocazione. E' necessario trovare aree non insidiate da fenomeni sismici, in zone pianeggianti, prossime a corsi d'acqua, equidistanti da medi o grossi centri abitati. Perché non siano presi in considerazione i piccoli centri abitati non è dato ancora sapere con chiarezza. Comunque, le esperienze fatte finora in Italia sono tutt'altro che edificanti. Al punto che il Ministro dell'Industria ha dichiarato che, se gli Enti Locali (a Porto Tolle e a Montalto di Castro i Consigli Comunali da soli hanno messo in crisi l'intero sistema elettrico nazionale) non saranno d'accordo con le scelte previste nel Piano Energetico Nazionale, la Presidenza del Consiglio interverrà d'ufficio, decidendo in via autonoma e diretta le località nelle quali dovranno sorgere le centrali.
Correttamente, il Ministro ha pubblicato subito l'elenco delle località nelle quali si dovranno installare, entro questo decennio, sia le nuove centrali nucleari, sia quelle a carbone, per una potenza complessiva di circa trentacinquemila megawatt, vale a dire di trentacinque milioni di chilowatt, che, calcolando un funzionamento annuo di seimila ore, permetteranno di produrre circa 250 miliardi di chilowattora. E' il caso di ricordare che nel 1980 la produzione nazionale di energia è stato pari a 184 miliardi di chilowattora, e che il resto del fabbisogno di energia è stato importato: dalla Francia e dalla Svizzera. E' anche il caso di ricordare che l'Unione Sovietica ha offerto al nostro Paese energia proveniente dalle sue numerose centrali nucleari: l'offerta è stata respinta per motivi politici e strategici. I primi determinati dalla nostra appartenenza all'area occidentale; i secondi dal timore che, in caso di raffreddamento dei rapporti Est-Ovest, Mosca potesse tagliarci i cavi, lasciandoci a secco.
Quali sono le località indicate dal Ministero dell'Industria per i vari tipi di centrali?
In linea di massima, queste:
Piemonte: due unità nucleari da 1.000 megawatt, da ubicare lungo il Po; due unità a carbone da 300 megawatt, da dislocare nell'area di Chivasso;
Lombardia: due unità nucleari da 1.000 megawatt nell'area sud-orientale della regione; due unità a carbone da 640 megawatt a Bastida Pancarana, in provincia di Pavia; due unità a carbone da 300 megawatt a Tavazzano e in un'altra località da individuare;
Veneto: due unità da 1.000 megawatt, nucleari, nell'area sud-orientale della regione; due unità da 640 megawatt lungo la fascia costiera;
Friuli-Venezia Giulia: due unità a carbone da 640 megawatt da ubicare lungo la fascia costiera;
Emilia-Romagna: tre unità a carbone da 640 megawatt, due delle quali da localizzare nell'area di Ravenna, la terza in una fascia da individuare;
Toscana: due unità nucleari da 1.000 megawatt nell'isola di Pianosa (ma forse una di esse sarà localizzata nell'area di Grosseto); quattro unità da 640 megawatt, dunque a carbone, lungo la costa di Livorno;
Umbria: una unità nucleare da 1.000 megawatt nell'area sud-occidentale della regione; due unità a carbone da 640 megawatt, anche queste destinate alla fascia sud-occidentale;
Abruzzo: quattro unità a carbone da 640 megawatt nella fascia tra Vasto e Chieti;
Campania: una unità nucleare da 1.000 megawatt nell'ultimo tratto del fiume Garigliano (dove esiste già un noto centro di ricerche atomiche);
Puglia: due unità da 1.000 megawatt, nucleari, che dovrebbero sorgere nella penisola salentina; quattro unità a carbone da 640 megawatt nell'area di Brindisi o, in alternativa, in quella di Taranto;
Basilicata: una unità nucleare da 1.000 megawatt da localizzare lungo la fascia costiera ionica;
Calabria: quattro unità a carbone da 640 megawatt destinate al territorio di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria;
Sicilia: una unità da 1.000 megawatt, nucleari, nell'area della provincia di Ragusa; tre o quattro unità a carbone da 300 megawatt nella costa sud-occidentale;
Sardegna: quattro unità a carbone da 300 megawatt in località da individuare. Si capisce benissimo perché, ad esempio, non siano state previste centrali nucleari nel Friuli-Venezia Giulia, regione di confine, e per di più del confine orientale, esposta, in caso di conflitto, alla forza d'urto di un'ipotetica invasione. E si può capire l'assenza di centrali nucleari in un'altra regione, questa volta meridionale, la Calabria, geologicamente instabile, di recentissima formazione, e sismicamente pericolosa. Alcuni ragionevoli dubbi ci assalgono, quando notiamo, tra le località proposte dal Ministero dell'Industria, per la dislocazione di centri di produzione energetica nucleare, assenze, se non veri e propri "privilegi" ed esclusioni di una certa rilevanza. Dal punto di vista geofisico e tettonico, ad esempio, la Sardegna è il primo lembo di terra emersa dal nostro emisfero. Sismicamente passiva, dotata di ampie zone pianeggianti, con larghissima aree deserte, con centri abitati a notevoli distanze, l'isola sarebbe (posta l'assoluta necessità di impiantare centrali atomiche ad uso pacifico nel nostro Paese) un punto di riferimento ideale. Si dirà che la vicinanza delle basi navali per sommergibili atomici della Maddalena potrebbero rendere esposte e vulnerabili le centrali energetiche; lo stesso discorso vale, però, per il Veneto, anch'esso regione di confine, con basi Nato di primaria importanza e con un sistema difensivo rilevante. Fra l'altro, è esclusa la Liguria (non vi è prevista l'installazione di alcuna centrale, neanche a carbone, sebbene si sia ventilata l'idea di far sboccare un carbondotto, a Livorno o a La Spezia, proveniente dalle miniere polacche). Eppure, l'indice di espansione industriale ligure, la presenza di un porto e di un bacino di carenaggio di portata mediterranea, comportano altissimi consumi di energia. Né è stata ipotizzata l'ubicazione di alcuna centrale nucleare nell'Emilia-Romagna, regione ampiamente pianeggiante, interessata da alti consumi energetici, con presenza di primari corsi d'acqua. Oltre tutto, delle tre unità a carbone da 640 megawatt previste, due dovrebbero sorgere nel territorio di Ravenna (la terza in un'area da individuare): ebbene, proprio il territorio di Ravenna più vicino al mare registra da diversi anni un fenomeno di sprofondamento, con media minima di cinquanta centimetri, e con punte massime di oltre un metro, che dovrebbe consigliare maggior prudenza e un diverso orientamento selettivo.
Altra esclusione rilevante, quella del Molise, terra tettonicamente stabile, cerniera tra due regioni in pieno sviluppo industriale, l'Abruzzo e la Puglia, con l'area industriale di Termoli che registra crescenti richieste di fonti energetiche.
In compenso, è prevista la concentrazione di tre centrali nucleari in un raggio minimo di poche decine di chilometri. Ci riferiamo a quelle, da 1.000 megawatt ciascuna, che secondo i programmi di localizzazione predisposti in linea di massima dal Ministero dell'Industria dovrebbero sorgere nella Penisola Salentina (due, oltre alle quattro a carbone, da 640 megawatt, previste alternativamente a Brindisi o a Taranto, che sempre vecchia Terra d'Otranto sono) e nella fascia costiera ionica della Basilicata (una, probabilmente ipotizzata nelle immediate vicinanze della pianura metapontina). Si tratta della più alta concentrazione europea di centrali atomiche destinate a scopi pacifici, equidistante da due zone ad alta intensità sismica (la Grecia ad oriente, la Calabria ad occidente), prossime a due aree di sviluppo industriale di primo piano (quella tarantina, ruotante intorno al quarto centro siderurgico; quella brindisina, sviluppata tra il mare e la fascia di rispetto del centro petrolchimico), al limite estremo di una regione che ha in Bari il polo industriale tecnologicamente più diversificato (e forse anche più avanzato) dell'intero Mezzogiorno, in Foggia un nucleo industriale specializzato (si pensi agli impianti Aeritalia) e nelle province lucane, specificamente in quella di Matera, una specie di appendice geopedologica di Puglia, con potenzialità industriali non secondarie e con un nucleo di ricerca e di sperimentazione atomica (ha lavorato anche al riciclaggio dell'uranio già utilizzato) unico nel nostro Paese.
Posto in termini di necessità il problema dell'impianto e dell'esercizio di centrali atomiche per la produzione di energia, dato per risolto (ma non lo è, e non vediamo come possa risolversi se non interessando le fasce meridionali del Mediterraneo) l'altro problema, quello dello smaltimento delle scorie radioattive, una volta consegnate alla Francia, che provvedeva a chiuderle in cassoni di cemento armato, che poi finivano in fondo all'Atlantico centrale, e dato per insignificante il terzo problema, quello della eccentricità della Penisola Salentina e della fascia costiera ionica lucana rispetto alle aree nelle quali si verifica il maggior consumo di energia, rimane (e ci sembra insuperabile) l'ultimo problema: quello della sicurezza della popolazione residente. I paesi della Penisola Salentina sono, poco più poco meno, un centinaio; e nella fascia costiera lucana si addensa una popolazione, arricchita in unità da coloro che, da decenni ormai, abbandonano la montagna e l'alta collina e creano doppioni di paesi (le "marine"). Il Salento è un'isola di soli 230 mila ettari; l'area metapontina è una specie di finestra sul mare, con alle spalle l'argilla dell'"osso" lucano: una brevissima pianura con spiagge sabbiose che richiamano turisti in cerca di tranquillità. Concentrare in un rettangolo di alcune decine di migliaia di ettari e in un'appendice vallivo-marina tre centrali nucleari (ripetiamo: quattro centrali a carbone sorgeranno al limite settentrionale; e aggiungiamo: un'altra centrale, anch'essa a carbone, sorgerà nel cuore del Salento, a Galatina, ma di questa non v'è cenno nel programma ministeriale) sarebbe consentito solo in assenza di popolazione, a ragionevole distanza da paesi (sia pure di media e di minima dimensione) e in condizioni di assoluta sicurezza. Dato per scontato quest'ultimo aspetto (ma non lo ritengono superato gli abitanti di Porto Tolle, né quelli di Montalto di Castro), rimangono in piedi gli altri, compresi quelli dell'occupazione: Salento e metapontino diventerebbero produttori ed esportatori di energia nucleare; se ne servirebbero impianti industriali lontani ed estranei alla realtà socio-economica locale; non ci sarebbero - necessariamente - impianti indotti; ridotta a pochissime unità, altamente specializzate, l'occupazione. I conti, per le aree impegnate, sarebbero subito in rosso. Si dirà che risulterebbe avvantaggiata la situazione generale del Paese, costretto a importare energia (perdendone molta, strada facendo, attraverso interminabili cavi) e costretto a subire, per il bisogno di greggio, pressioni e ricatti dai paesi produttori di petrolio. Tutte cose giuste. Ma a quel che ci risulta, l'unica politica che Roma ha è quella atlantica. Non ha una politica comunitaria; non ne ha una mediterranea; non ha neanche "politiche interne": dell'industria, dell'agricoltura, della pesca, del fisco. Siamo un Paese miracolato, un caso patologico che gli stranieri esaminano - curiosi e increduli - al microscopio, alla ricerca di un "grimaldello" che non c'è, di una chiave di lettura che si riduce al volontarismo individuale e allo scetticismo generale. Che ancora una volta chi meno ha, più debba dare, sulla propria pelle, è quanto meno inopportuno. Il dilemma energetico non si può considerare risolto dal dito di un Ministro puntato su alcune aree fisicamente pianeggianti e politicamente indifese. Le centrali atomiche ad uso pacifico sono senz'altro necessarie, se ci affrancheranno dalla dipendenza esterna e se risolveranno i problemi dell'energia per lo meno a medio termine. Ma sono anche una cosa seria. E con le cose serie non è consentito scherzare. Il territorio nazionale non è vastissimo, e oggettivamente non offre molte alternative. Ma quelle che ci sono vanno accuratamente confrontate; le soluzioni devono essere bilanciate; le scelte responsabilmente ponderate. Altrimenti, si finisce col passare sulla testa di molti, e soprattutto dei più deboli.

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