§ IL BAROMETRO DELL'ECONOMIA

Ciclone in vista




Ulrico Buttini



Il 1981, per la nostra economia, è un anno di "frenata". Chi credeva in significativi sintomi di risveglio dell'attività produttiva si è dovuto ricredere. Il "letargo" si protrarrà fino al primo semestre '82, quando dovrebbe essere raggiunto il punto di "minimo" congiunturale: preludio - si spera - a una ripresa che si ritiene possa consolidarsi nei mesi successivi. Resta l'incognita dei prezzi: permarranno i confortanti segnali di rallentamento osservati all'inizio dell'ultimo trimestre dell'anno? Abbiamo condotto un'indagine presso gli Istituti di analisi e previsione congiunturale, gli Uffici Studi di banche e grossi gruppi industriali. Questi, i risultati emersi.
Consumi. Cominciamo dai "comportamenti" delle famiglie. La gente sta spendendo meno. Da una certa, seppur tenue, ripresa della domanda per beni di consumo nel primo periodo dell'anno - dovuta, secondo giudizi unanimi, alle aspettative di nuovi rincari che hanno sollecitato gli acquisti l'"operatore-famiglia" si è fatto più prudente. Il Servizio Studi dell'Istituto San Paolo di Torino è in grado di confermare che dopo un anno (il 1980), nel corso del quale è stato evidente un forte calo della propensione al risparmio, il pubblico sta tornando a "ricostituire le scorte finanziarie", come dimostra soprattutto il notevole acquisto di titoli.
Ma c'è di più. Secondo il Servizio Studi della Pirelli, la compressione dello spazio dedicato ai consumi delle famiglie è dovuta anche all'erosione praticata dall'aumento dei prezzi sui redditi. E che dire poi del cosiddetto fiscal drag? L'Istituto per la Congiuntura ribatte in proposito che sono cresciuti i trasferimenti alle famiglie da parte del settore pubblico, il che indurrebbe a pensare che nei prossimi mesi la domanda di beni di consumo possa crescere un po', anche se a tassi abbastanza limitati.
Nessuno, di fatto, è disposto a credere in significativi "soprassalti". Il Centro Studi della Confindustria parla (tra fine anno e inizio '82) di stazionarietà o di modesto incremento (dallo zero all'uno per cento), e gli esperti di Prometeia concordano nell'ipotizzare una leggerissima ascesa (con un aumento dallo 0,5 allo 0,7 per cento). Neanche l'Ufficio Studi della Comit crede a riprese degne di nota o comunque in grado di far ripartire l'attività industriale, ormai stagnante da diversi mesi. L'Ufficio Studi dell'Iri è orientato a ritenere per parte sua che, in termini reali, la domanda di beni di consumo subirà una caduta, sia pur leggera.
Investimenti. Se i consumi dell'operatore-famiglia cadono o languono, è segnato anche il destino degli investimenti. Su tutto il fronte, in questo caso, è prevista una domanda in flessione, dopo che si è esaurito il boom del 1979 e del 1980. Il Centro Studi Confindustria è il meno pessimista, quantificando il calo intorno all'uno per cento, e anche meno. Ma a Prometeia sono propensi a credere che gli investimenti in macchinari e in impianti potranno flettere anche del quattro-cinque per cento. Anche l'Iri ipotizza una caduta "molto consistente", in sintonia con l'Isco, mentre la Comit sottolinea che non esistono oggettivamente i presupposti per una ripresa degli investimenti. La domanda è piatta, afferma l'Iri, la capacità produttiva delle imprese in parte inutilizzata e il denaro a prestito scarso e caro.


L'estero, da parte sua, non è prodigo di benefici in grado di compensare la carenza di incentivi interni. Il sostegno della domanda estera, chiariscono all'Iri, complessivamente per la nostra economia sarà meno importante del previsto, poiché la ripresa che ci si attendeva nelle economie industrializzate dell'Ocse per il secondo semestre '81 si è spostata di un altro semestre e forse di più. La Confindustria prevede per fine '81 inizio '82 un incremento del due per cento, che però rappresenta un "tonfo" rispetto al cinque per cento dell'incremento registrato nel 1980. E un recupero è individuato anche da Prometeia, secondo la quale le nostre vendite sui mercati esteri potrebbero raggiungere un cinque-sei per cento in più rispetto all'80, all'inizio del nuovo anno.
Bilancia commerciale. Ancora pesantemente negativa. Ma, guardando ai flussi in volume dell'interscambio, sottolinea l'Isco, si nota che l'import sta cedendo e che l'export sale: di conseguenza, quando si arresterà il peggioramento delle ragioni di scambio, il trend sarà meno negativo. Tuttavia, ammonisce la Comit, occorre non sottovalutare il permanere degli effetti del "dollaro forte" e il fatto che si sta ampliando il differenziale di inflazione tra noi e i nostri concorrenti.
Prezzi. L'inflazione, appunto, cioè il male peggiore. Il ventaglio delle previsioni, in questo caso, è di gran lunga più ampio. Secondo l'Ufficio Studi della Zanussi, si dovrà scontare un tasso cumulato non inferiore al ventidue per cento. La Confindustria è più propensa a credere al venti per cento. Stessa cifra per la Pirelli. Prometeia, però, preferisce rilevare la tendenza al calo della dinamica del costo-vita prevedendo che il tasso di inflazione, rapportato ad un anno e calcolato come ritmo di crescita dell'ultimo trimestre '81 rispetto al trimestre precedente, sarà solo del quindici per cento, mentre all'inizio dell'anno correva attorno al ventidue-ventitre per cento.
L'esercitazione sul "quantum" potrebbe continuare all'infinito. Si tratta invece di capire se gli accordi già stilati e le politiche governative siano credibili. Solo due testimonianze. Secondo l'Isco, più ottimista, l'intesa sui "prezzi stabili" contiene le basi economiche per avere un minimo di successo, in quanto il dettaglio ha la possibilità effettiva di frenare gli aumenti (pur dovendosi mettere nel conto i consueti rialzi stagionali). D'altra parte, l'effetto di una lira stabile produce fenomeni di calmiere per le imprese. Perciò, sostiene l'Isco, non è lecito attendersi una nuova fuga inflazionistica. Più scettica la Comit, secondo la quale le aspettative inflazionistiche, cioè i meccanismi che tendono sempre ad anticipare possibili rincari specie nel settore non produttivo, sono ormai radicate nel nostro sistema economico, e come tali sono difficilmente estirpabili.
Analisi dell'occupazione. La crisi che sta investendo violentemente il nostro Paese - a giudizio di tutti - costituisce tra l'altro una formidabile sfida per il rinnovamento del sindacato il quale, di fronte alla trasformazione del sistema produttivo e del mercato del lavoro, sostanzialmente si trova di fronte a una secca alternativa: consolidarsi come vecchio sindacato di "gestione" e di "opposizione", con il risultato di non riuscire probabilmente a ricondurre ad un minimo di unità di interessi rivendicativi una classe operaia e impiegatizia via via più differenziata in un sistema economico segnato da forti competizioni interne e da diversi gradi di sviluppo; oppure assumere un ruolo di "indicazione", rafforzando le proprie capacità di indagine, ridando alla negoziazione gran parte delle sue primitive capacità di innovazione e di trasformazione sociale.


La seconda scelta comporta certamente un salto politico, teorico e pratico, che sinora non è stato fatto; è altrettanto vero, però, che solo con la partecipazione in positivo del sindacato sarà possibile risolvere sia la crisi del modello produttivo, sia la crisi di un'occupazione che a quel modello in via di cambiamento serve sempre meno. Per tirare le fila dei discorsi che si son fatti negli ultimi tempi sull'argomento, ci rifacciamo al rapporto del Consiglio d'Europa, "Preparation à la vie de travail", nel quale i problemi che toccano oggi direttamente il sindacato sono analizzati attentamente. Il primo aspetto non trascurabile è il "rifiuto" del lavoro, un fenomeno in forte crescita, dovuto probabilmente ai più alti livelli di istruzione, quindi alle maggiori attese di professionalità, che un modello industriale tradizionale non può più soddisfare. E' un fenomeno, ben inteso, non solo italiano ed europeo, come si sarebbe tentati di pensare: il 36 per cento dei lavoratori americani è sottoimpiegato, il 32 per cento ha un'istruzione superiore alle esigenze del lavoro, più del 50 per cento lamenta l'assenza di ogni controllo di qualità sulle mansioni che svolge. Questa situazione generalizzata indica che la governabilità del personale non solo in senso produttivistico ma anche da un punto di vista sindacale, diviene sempre più difficile. In un Paese come l'Italia, dove maggiore è il "peso" delle produzioni più "povere" (contro un "peso" del 23 per cento da noi di settori maturi - tessile, abbigliamento, scarpe - nella Germania Federale questi coprono appena un 10 per cento dell'intero comparto manifatturiero) il problema risulta senza dubbio più grave.
Nonostante questo diffuso malessere rappresenti già una forte spinta "spontanea" per l'avanzamento verso nuovi modelli di sviluppo, la tendenza ad una maggiore qualificazione del lavoro risulta ancora molto debole. Da tutti gli studi più accurati condotti in aziende, settori e Paesi diversi sull'evoluzione della qualificazione media dell'occupazione emerge che, tranne rare eccezioni, questa non migliora nel tempo. Soprattutto colpisce il fatto che, anche dove l'automazione e la meccanizzazione sono state applicate in dosi più massicce (stabilimenti Fiat di Cassino e Volkswagen di Wolfsburg), la struttura professionale non è migliorata. Senza parlare dei settori pronti ad assorbire tecnologia molto avanzata (è il caso della telefonia), dove oggi l'elemento frenante è l'impossibilità di disporre di personale sufficientemente preparato. Se si tiene conto non solo delle esigenze di innovazione delle produzioni e dei prodotti manifatturieri, ma anche degli scarsi sbocchi occupazionali che offrirà un terziario "povero" ove si farà sentire di più l'ingresso di manodopera del Terzo Mondo e la sostituzione di molte mansioni con l'elettronica, appare chiarissima l'esigenza di una radicale riforma dell'organizzazione del lavoro, anche perché l'aggiustamento tra un'offerta di lavoro altamente scolarizzata e una domanda di bassa qualificazione media sarà sempre più difficile ed in certe aree addirittura drammatico.
Tutto ciò investe direttamente la materia più strettamente sindacale: i problemi retributivi e di partecipazione. Una risposta soltanto salariale allo "spirito di negoziazione" dei lavoratori, in un mercato del lavoro che subisce queste trasformazioni, diventa sempre più inutile. Tanto per fare un esempio, in Italia il rapporto fra retribuzione degli impiegati e degli operai è passato nel corso degli ultimi nove anni da 2,05 a 1,60; non perché, come credono coloro che vorrebbero semplicemente ristabilire gli scarti retributivi originali attraverso la contrattazione, i "colletti blu" abbiano acquisito indebitamente maggiore forza contrattuale, oppure siano più sindacalizzati; semplicemente perché, invece, la classe dei "colletti bianchi" che abbiamo allevato non è sufficientemente qualificata per un terziario avanzato. Il problema non tocca comunque solo la separazione tra lavoro di concetto e lavoro manuale: senza andare tanto lontano, basti dire che già oggi un operaio di catena alla Renault, alla Volkswagen e alla British Leyland guadagna quasi quanto un operaio qualificato della manutenzione ed in Italia, dove la situazione è ancora del vecchio tipo, la contrattazione spinge nella stessa direzione, creando nuove tensioni e conflittualità.
Il più grave problema degli anni '80 per gli imprenditori come per il sindacato rischia così di essere la risposta da dare allo squilibrio tra qualità dell'offerta e della domanda di lavoro; poiché, da un lato, occorrerà facilitare un aumento della professionalità media del lavoro mediante una nuova organizzazione del lavoro e, dall'altro, bisognerà rivalutare le funzioni manuali. Entrambi questi processi sono difficili e di lungo periodo, ovunque l'impatto tra una professionalità inedia stazionaria (industriale e terziaria) e una scolarità crescente sia molto evidente, come è in Italia e negli altri Paesi industriali.
Per il sindacato, il dilemma non è da poco: accrescendo la professionalità del lavoro si deverticalizza la gerarchia in fabbrica, si aumentano le responsabilità e la discrezionalità sia individuale sia di gruppo, e ciò implica certamente un nuovo modo di vedere i rapporti tra vertice e base, la rinuncia a considerare la diversità di interessi come qualcosa di ostativo alla gestione del consenso e delle lotte, l'abbandono dell'immagine di massa che il sindacato ha costruito nell'ossessione di dare continue rassicurazioni sul mantenimento dei vecchi modelli di sviluppo. Solo un sindacato nuovo, che metta in discussione la propria cultura e i tradizionali rapporti gerarchici al suo interno, potrà dare modo all'industria italiana di cambiare volto e al processo di creazione del lavoro di non arrestarsi completamente.
Lotta alla disoccupazione. Anche il problema dell'occupazione deve essere affrontato in modo radicalmente nuovo, almeno per due ragioni: innanzi tutto, perché la tendenza che si sta manifestando ovunque e non solo da noi mostra una preoccupante crescita della disoccupazione "strutturale", non più collegata, cioè, come nel passato, a particolari momenti di caduta della domanda e dell'attività economica in generale; in secondo luogo, perché crisi dell'occupazione e crisi del modello produttivo sono oggi connesse strettamente, e da una corretta soluzione della prima dipenderà in gran parte la possibilità di reinserire la nostra industria nel mercato internazionale. Lo spirito di "attaccamento alla fabbrica", che la quasi scomparsa dell'assenteismo post-ferie in tutte le grandi aziende starebbe a dimostrare, la "socializzazione del disimpegno", le formule di distribuzione del lavoro attraverso la riduzione dell'orario che molti sindacalisti chiedono a gran voce, i primi difficili esperimenti di mobilità "esterna" di massa, la diversa interpretazione del concetto di produttività e i dissensi sull'uso che di essa bisogna fare, sono di questi tempi i segnali confusi e contraddittori di una maggiore consapevolezza della centralità del problema-lavoro tra le tematiche che ci stanno di fronte.
Il dato iniziale, che è poi quello sul quale si innestano le numerose crisi di adattamento in atto (industriale, sindacale, sociale), è che un sistema come il nostro, fortemente sbilanciato ancora sul versante dell'impresa manifatturiera tradizionale, tende ormai a espellere manodopera sempre più velocemente, e in misura superiore anche alla caduta di attività economica, poiché risente fortemente e in tempi ristretti degli investimenti di razionalizzazione e di sostituzione del lavoro che per anni non si sono compiuti e poiché risente altrettanto fortemente della perdita di alcuni fondamentali vantaggi comparativi a favore dei Paesi a minor costo unitario dei prodotti. Oltretutto, è dimostrato che la produttività dell'azienda, a differenza di quanto avveniva finora, aumenta oggi sulla spinta dell'innovazione degli impianti anche in periodi di bassa attività economica, creando una disoccupazione "nuova" e imprevista.
Si imporrebbero a questo punto ritmi tali di espansione produttiva (sette per cento all'anno, secondo stime di qualificati Uffici Studi), anche solo per mantenere gli originali livelli di impiego che la necessità di una profonda trasformazione del mercato del lavoro e di un adattamento degli strumenti legislativi e contrattuali con cui gestire e incentivare la mobilità, le riqualificazioni, il collocamento, appare inderogabile per un Paese a economia avanzata. Questo processo di trasformazione e di adattamento non si è ancora avviato seriamente. Settori e mestieri in chiaro declino vengono strenuamente difesi, la formazione scolastica - come abbiamo detto - delle nuove leve del lavoro è a dir poco anacronistica, le normative creano nuove e maggiori rigidità, la mobilità del lavoro che si chiede non corrisponde ancora a una mobilità degli investimenti e della spesa pubblica. Le risposte che a ogni incalzare della crisi si tenta di dare sono perciò spesso demagogiche e talvolta pericolose.
I cambiamenti strutturali che comunque avvengono sotto l'incalzare della concorrenza rischiano di trovarci gravemente spiazzati. La dimensione del problema, a quanto dimostrano le esperienze che altri Paesi moderni stanno compiendo, è calcolabile nella perdita di circa un 20 per cento di addetti industriali nei prossimi dieci anni. Ma c'è di più: gli esperti concordano nel ritenere che il terziario non offra più sbocchi di occupazione crescenti, ai ritmi degli anni Sessanta e Settanta, se non verrà accuratamente promosso, qualificato e programmato, poiché il grado di automazione dei servizi sarà in futuro molto superiore al previsto: il 30 per cento almeno degli impiegati pubblici e privati potrà essere sostituito da microprocessori.
Diversi ordini di problemi derivano da questa situazione. Ne sottolineiamo uno che ci sembra di forte contenuto sociale. Insistere su un settore manifatturiero e sul terziario di tipo tradizionale non ha più senso economico: appiattirebbe le retribuzioni e provocherebbe nuova sottoccupazione. Già oggi in molti Paesi nordamericani ed europei centinaia di migliaia di laureati e diplomati lavorano come operai: dal 1970 ad oggi, otto laureati americani su dieci hanno trovato un lavoro che non corrisponde alla loro qualificazione universitaria e che potrebbe essere svolto da chiunque avesse completato gli studi secondari; a Roma e nel Lazio 200 mila disoccupati (il 60 per cento dei quali laureati) coesistono con 100 mila lavoratori del Terzo Mondo occupati in lavori rifiutati dai giovani disoccupati locali.
L'accentuarsi di atteggiamenti sempre più diversificati nelle nuove generazioni e il prendere le distanze dalle aspirazioni professionali delle generazioni precedenti dovrebbe essere una spinta formidabile per una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e per una maggiore aderenza della domanda e dell'offerta, di occupazione ai nuovi modelli di sviluppo avanzati. Tutto invece sembra congiurare contro il compiersi di queste trasformazioni "fisiologiche". Di qui, le forti tensioni sociali, in Italia, in Europa e nell'America del Nord.
A questo punto, persistere negli errori degli ultimi anni, o credere di poter trovare facili scappatoie, serve solo ad aumentare le probabilità che carenze di lavoro qualificato coesistano con alti livelli di disoccupazione strutturale e che le pressioni a favore del protezionismo negli Anni Ottanta aumentino anziché diminuire.


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