§ LE CIFRE IN ROSSO

Tra caos e miracolo




L. D. M.



Secondo alcuni siamo già allo sfascio, con inquietanti prospettive per il futuro immediato. L'indagine di Mediobanca condotta su 1.078 società, il "memorandum" del Ministro delle Partecipazioni Statali sulla situazione delle imprese pubbliche, il documento della Confindustria per una politica industriale, il promemoria sugli stati di emergenza più rilevanti in campo industriale inviati alla Presidenza del Consiglio dalle Confederazioni Sindacali, le dichiarazioni, gli allarmi, sono altrettanti tasselli di un mosaico che presenta un panorama abbastanza desolante. Chi parla di stato di crisi acuta, ricorda che nel solo "triangolo industriale" del Nord ci sono circa 450 aziende che rischiano di chiudere e di spedire a casa gli operai, e che la situazione a Napoli è sempre esplosiva, mentre non è stato creato nell'area partenopea uno solo dei diecimila posti di lavoro promessi. Certo, affermano gli osservatori, non chiuderà la Fiat: ma che cosa significavano quarantacinque giorni di ferie per i dipendenti della Fiat e della Lancia, se non che anche il settore automobilistico italiano prevede entro i primi mesi del nuovo anno la caduta e la crisi? Nei primi sei mesi del 1981, la Fiat ha venduto poco più di mezzo milione di automobili, un paio di migliaia di unità in più rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Ma queste cifre, che pure sembrano positive, non hanno lasciato grandi illusioni: di fatto, a Torino sanno benissimo che, con l'inflazione che gira per il Paese, si anticipano gli acquisti per prevenire aumenti dei prezzi, tutt'altro che improbabili. Dunque: si è in presenza di un mercato gonfiato, "drogato", come si dice, che può registrare una caduta verticale da un giorno all'altro.
Altri, invece, si aspettano una ripresa nel corso del 1982. E se non si verificasse? E' vero questo: che da anni, ormai, siamo abituati a sentir parlare di fallimento dello Stato italiano, salvo poi a dover rettificane i conti, e a scoprire che le "partite invisibili", le entrate del turismo e le rimesse dei nostri emigrati, e anche le esportazioni di tecnologia, soprattutto media e piccola, hanno ripetuto il miracolo, riequilibrando il più possibile la bilancia dei pagamenti, compromessa dalle importazioni di prodotti alimentari e di materie prime, soprattutto del petrolio. Tuttavia, mai come nella scorsa stagione estiva le banche si sono lamentate per l'andamento dei cambi effettuati da turisti e da emigrati venuti in ferie. Questi ultimi in particolare, sono tornati nei paesi d'origine con le somme strettamente necessarie per l'arco di tempo previsto. Dunque, non più grandi flussi di deposito, e non più investimenti, particolarmente nell'acquisto di terra e nelle spese per il settore edilizio, com'era accaduto negli anni precedenti. L'emigrato ha temuto più che mai la perdita di valore d'acquisto della lira, e ha preferito mantenere le maggiori giacenze possibili nelle banche svizzere, francesi e tedesco-federali. Una questione di fiducia (o meglio: di sfiducia) che realisticamente non è stata infondata.
A tutto questo, si aggiungano i dissapori, le controversie e le spinte protezionistiche dovute a quella "guerra dei poveri" che è stata la querelle del vino. I contadini francesi, com'è noto, hanno piantato viti da Marsiglia al confine con la Spagna, indiscriminatamente, con una corsa folle alla quantità, trascurando la qualità del prodotto. Come sempre, un'intelligente campagna promozionale ha presentato i vini francesi come i migliori del mondo; e, come sempre, si è trattato e continua a trattarsi di vini "tagliati" abbondantemente con "supergradi" italiani, in particolare pugliesi e meridionali. Le rivolte nelle campagne francesi sono il frutto della decadenza dei prodotti transalpini e della ottusa politica parigina in campo agricolo. Il danno derivato al Sud da questo stato di cose è stato incalcolabile. Si aggiungano i danni subiti da altre regioni produttrici, (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia); si aggiungano le enormi quantità di vini giacenti nelle cantine cooperative; e, nel settore secondario, si consideri che grande e piccola, privata e pubblica, nelle regioni del Nord come in quelle del Sud, alla luce del sole o "sommersa" che sia, l'industria italiana sta correndo gravissimi rischi. Ci si è chiesti: quando questa situazione esploderà? Forse mai. O forse ancora, com'è stato osservato, la fine giungerà per implosione, nel buco nero dell'economia italiana.
La parola ad alcune cifre. Per l'industria a partecipazione statale, Iri, Eni, Efim (che un giorno ci invidiava il mondo) conteggiano ormai solo le perdite. Alla fine del 1980, i debiti dei tre Enti erano già di trentacinquemila miliardi di lire, e nel 1981 sono cresciuti a una velocità di venti miliardi al giorno, con trenta miliardi da pagare alle banche solo di interessi. E' ormai generalmente accettato il principio secondo il quale, entro il 1985, novemila persone dovranno lasciare il posto di lavoro, pur essendoci un turn over di sedicimila unità. Su un milione di addetti alla grande industria pubblica e privata, ha affermato il Ministro delle Partecipazioni Statali, si dovranno tagliare almeno sessanta-settantamila posti di lavoro.
Questo in linea generale. In particolare, l'Iri prevede per il 1981 un deficit di 2.546 miliardi, che potrà salire a 2.770, se non saranno stati versati tempestivamente al fondo di dotazione i l. 545 miliardi previsti dall'ultimo decreto legge. Di questi, circa duemila miliardi rappresentano il buco provocato dalla siderurgia: il settore, insieme con la cantieristica, nel quale più grave è la crisi. Qualcuno oserà più parlare di un quinto centro siderurgico da impiantare in Celebre, e dunque con nettissime previsioni di perdita, da accollare alla collettività, sin dal primo giorno di entrata in funzione?
Quanto alleni, ha già dovuto registrare, solo tra gennaio e maggio'81, perdite per 704 miliardi di lire, per la metà da attribuire alla chimica e per un terzo all'energia. Infine, l'Efim, il più piccolo dei tre Enti, ha già previsto per tutto il 1981, un deficit di 230 miliardi di lire.
Intanto, il Ministro dell'Industria prevede aumenti di luce, benzina e telefono. Dice: "L'Enel ha perso 1.800 miliardi, paga gli stipendi e il petrolio, ma non paga i fornitori e non può fare investimenti. Rischiamo di restare senza energia elettrica. L'Agip ha perso 853 miliardi solo nei primi sei mesi dell'anno, perché ha dovuto coprire sempre più il mercato, perché i privati non raffinano più. Sul piano energetico, pensavamo di avere quarantamila megawatt di nucleare nel 1990, invece ne avremo a malapena ottomila. E un chilowattora prodotto col nucleare costa un terzo di uno prodotto con l'olio combustibile".
E per la cassa integrazione? "Dico che bisogna ridiscuterne l'utilizzazione. Perché, così, non serve a niente. Solo a dare il novanta per cento dello stipendio ai lavoratori. Ma in questo modo non liberiamo le imprese dei pesi che non possono sostenere. Allora le aziende non possono ristrutturarsi, non possono licenziare, e, purtroppo, non possono neanche migliorare le proprie condizioni e riassumere. Nel frattempo, i dipendenti in cassa integrazione trovano un secondo lavoro, per lo più nero, e si abituano così". Infatti: sappiamo di esponenti politici che non sanno più a che santo votarsi, tante sono le pressioni e le raccomandazioni che ricevono da operai che chiedono di essere messi in cassa integrazione. Un circolo vizioso che fa paura.
Passiamo alle multinazionali. Le campagne contro le multinazionali, portate in fabbrica e fuori, da terroristi e anche da sindacalisti massimalisti, hanno avuto i loro effetti: la Grundig ha chiuso lo stabilimento di Milano con 530 dipendenti e ha posto in mobilità trecento dipendenti di Rovereto; la Philips sta chiudendo la fabbrica di cinescopi di Monza; la Telefunken ha dichiarato esuberanti trecento dipendenti su 1.400. Intanto, la Indesit ha chiesto l'intervento della Gepi per i suoi stabilimenti nel Mezzogiorno (rispettivamente con 1.100 e con 1.200 dipendenti) e per la Voxson si è sollecitato, in alternativa al fallimento, il commissariamento in base alla legge Prodi. I contestatori delle multinazionali sono serviti! Se non si interviene (ma in che modo?), i sindacati prevedono una riduzione degli occupati di ventimila unità, con l'esodo progressivo delle multinazionali aventi realtà produttive e con un conseguente, pesante passivo commerciale e tecnologico nei confronti della Repubblica Federale Tedesca, del Giappone e del Sud-Est asiatico.
Non diverso il panorama delle aziende sotto amministrazione controllata in base alla legge Prodi. Tutte insieme occupano oltre trentamila dipendenti, il cui futuro, come dimostra un'indagine dell'Italconsult, non è affatto garantito. Stesso discorso per le aziende della Gepi. La maggior parte di queste fabbriche (per un totale di diecimila posti di lavoro) non ha avuto dalla cura Gepi alcun beneficio. Lo dimostra, fra l'altro, l'intero settore navale e cantieristico.
Neanche per i piccoli i tempi sono facili. Solo fino a un paio di anni fa slogans come "small is beautiful" e "il sommerso ha salvato lo stivale" avevano sicure rispondenze nella realtà dei fatti. Ora, le crepe sono evidenti anche qui. Cuoio, legno, calzature, edilizia, tessili vanno all'ingiù. Gli indici di produzione sono calati da meno 12 a meno 16 per cento. All'Ucimu, che raggruppa i costruttori di macchine utensili, confermano che la caduta del settore è stata del 35 per cento. E in questo campo il lavoro indotto coinvolgeva decine e decine di piccole aziende artigiane, che ora si trovano senza ordini e senza commesse. Le stesse "aree del miracolo e della fantasia" sono in decadenza. Carpi e Sassuolo, con le piccole fabbriche di panni e di piastrelle, non danno più ricchezza incondizionata al Modenese: per la prima volta in vent'anni, calo intorno al 23 per cento e cassa integrazione massiccia, passata da 450 mila a un milione e 630 mila ore nei soli primi sei mesi dell'anno. A Bologna, cassa integrazione addirittura decuplicata. In Toscana, produzione del cuoio calata mediamente del 30-40 per cento. Nel Lazio crisi caotica; nelle regioni meridionali lavoro nero e "sommerso" assurti a sistema.
Eppure, osservano all'estero, il "miracolo italiano" continua: nessun altro Paese avrebbe saputo resistere, "tenere", fra tante tensioni e fra tante contraddizioni. Sebbene l'Italia occupi, geograficamente, un'area al centro di improvvise e continue basse pressioni, in grado di richiamare tutte le tempeste, gli imprenditori (i medi, ma anche i piccoli) riescono a produrre e ad esportare; l'ipersindacalismo e le sue storture sono in grado di dare bruschi, spesso violenti colpi di freno ad una macchina complessa e delicata, con la politica del go and stop, che poi finisce per paralizzare interi settori della produzione nazionale, e un fiscalismo rapace e sconsiderato, che colpisce chi investe e chi ha reddito fisso, impedisce il moltiplicarsi delle iniziative; eppure, il Paese tira la carretta, resta indietro rispetto a molti partners europei, ma avanza a modo suo. Questo il "vero miracolo", o "il caso" italiano, che non è facile esaminare se non da una certa distanza, non si fa analizzare nei suoi intricati meccanismi. E nessuno ha spiegato che basta un granello di polvere, inserito per caso o per perfidia tra quei meccanismi, a bloccare, forse in maniera drammatica, l'intero sistema.

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