§ TESTIMONIANZE / PROSPETTIVE

Il crollo di Bretton Woods




Guido Carli



La Banca d'Italia fu informata della decisione americana di sganciare il dollaro dall'oro nella notte tra il 15 e il 16 agosto. A Roma c'era Paolo Baffi, allora Direttore Generale. Mi avvisò subito a Nizza, dove mi trovavo per qualche giorno di vacanza. Rientrai immediatamente. Il 16, d'accordo con le Banche Centrali di tutto il mondo, chiudemmo il mercato dei cambi.
Da tempo, il mercato dei cambi dava segni di grave turbamento. Il dollaro non era più il sovrano incontrastato del sistema monetario e parecchie Banche Centrali preferivano avere nelle proprie riserve una quota d'oro anziché accettare moneta americana in misura sovrabbondante. Del resto il presidente De Gaulle era stato il primo ad inaugurare questa tendenza. Nel 1968 gli Stati Uniti avevano già dovuto sganciare parzialmente la loro moneta dall'oro, decidendo, insieme ai maggiori Paesi industriali, che il prezzo ufficiale del metallo - 35 dollari per un'oncia - sarebbe stato applicato soltanto alle transazioni tra Banche Centrali e non con i privati. Nacque in quel momento il prezzo libero dell'oro, ma il principio della convertibilità del dollaro in metallo fu ancora conservato in vita e continuò ad essere il punto di riferimento del sistema dei pagamenti internazionali. Dovevano passare tre anni e poi anche quel principio affondò e, insieme con esso, il "gold exchange standard" che dal 1945 era stato il regime monetario di tutto l'Occidente industriale.
Noi non fummo presi alla sprovvista dalla dichiarazione d'inconvertibilità del dollaro. Avevamo capito da tempo che gli Stati Uniti avrebbero fatto un vero e proprio coup de theatre. A metà del giugno 1971 ero stato a Washington per incontrarmi con John Connally, allora Segretario al Tesoro. Nella stessa occasione avevo anche avuto lunghi colloqui con Paul Volcker, che era il vice di Connally ed ora è il presidente della Federal Reserve. La diagnosi delle autorità monetarie americane era molto chiara. "Sono finiti i tempi", mi dissero Connally e Volcker, "nei quali questo Paese poteva fare tutto senza che ciò incidesse sul tasso d'inflazione. Abbiamo finanziato contemporaneamente la guerra del Vietnam, i programmi di sicurezza sociale, l'agricoltura, gli artigiani, gli studenti, la costruzione di case. Adesso è arrivato il momento delle scelte". Non mi dissero quali sarebbero state le scelte. Ma capii che stava tramontando l'epoca che gli americani hanno definito delle "unlimited opportunities", delle occasioni illimitate. Il resto del mondo si era troppo abituato all'idea che l'America poteva fare tutto: invece non era più così. E la prova l'avemmo a cominciare da quel 15 agosto 1971. Negli anni che sono seguiti da allora, una buona parte delle incertezze dell'Europa è stata causata dalla necessità di doversi adattare ad uno scenario nel quale ciascuno deve contare anche sulle proprie forze e non soltanto su quelle del potente alleato. A giudicare da quanto accade, non mi pare che le nazioni europee abbiano tratto da quel messaggio d'allora tutte le implicazioni che esso conteneva. Fosse così, ci sarebbe già in Europa una moneta unica, sarebbero state messe in comune le riserve delle Banche Centrali, sarebbe stata concordata una politica europea nei confronti del dollaro. Poco o nulla s'è ancora fatto su questa strada e il dollaro rimane una delle incognite maggiori della nostra vita economica.
Credo sia utile ricordare quali furono i provvedimenti presi dal presidente Nixon in quella Notte tra il 14 e il 15 agosto, dopo aver riunito a Camp David i responsabili della politica economica americana. Il dollaro fu dichiarato inconvertibile, e questa fu la misura che destò maggior sensazione in tutto il mondo. La spesa pubblica fu ridotta di 4,7 miliardi. Fu istituito un credito d'imposta del 10 per cento su tutti gli investimenti e fu istituita un'imposta del 10 per cento su tutte le importazioni. Quest'ultima doveva servire, come si capì subito, per negoziare le nuove parità monetarie con gli altri principali Paesi industriali. Insomma, il mondo si trovò in presenza d'una durissima frenata da parte della più grande potenza d'Occidente.
L'inconvertibilità del dollaro in oro fu definita "solo temporanea" dal presidente Nixon, ma questa dichiarazione non ingannò nessuno. Avviene sempre così, quando un grande Paese abbandona un principio che per tanto tempo è stato alla base del suo sistema. Anche il governo britannico definì "temporanea" l'inconvertibilità in oro della sterlina nel 1931. La verità è che questi passi, una volta compiuti, sono irreversibili.
Perché la crisi del "gold exchange standard" esplose proprio nel 1971? Ebbene, in quell'anno la bilancia dei pagamenti correnti degli Stati Uniti registrò un disavanzo di 2,8 miliardi di dollari: il disavanzo globale, comprensivo degli investimenti di capitale a medio e lungo termine, fu di 20,6 miliardi. Non basta: una massa ingente di dollari passarono in tutti i Paesi industriali dalle Banche Commerciali alle Banche Centrali. Cioè, i privati cedettero dollari ai governi. L'ammontare complessivo di questi trasferimenti fu di 29,7 miliardi, una cifra enorme.
In conseguenza di tutti questi movimenti, le Banche Centrali si trovarono in pochi mesi inondate di dollari. "Le dollar qui nous submerge", aveva detto qualche anno prima De Gaulle, ed è quello che si verificò nuovamente nel 1971. Per limitare questa specie di inondazione, molte Banche Centrali chiesero alla Tesoreria americana di convertire dollari in oro al prezzo ufficiale di 35 dollari l'oncia, come il sistema del "gold exchange standard" consentiva. Questo sistema - è bene ricordarlo - era basato sulla libera convertibilità di tutte le monete tra loro sulla base di cambi fissi, e sulla convertibilità del dollaro in oro, cioè in una "merce" la cui quantità non era regolata dalle autorità monetarie, bensì dall'estrazione mineraria del metallo. E' evidente che il prezzo di 35 dollari l'oncia non era più, da tempo, remunerativo, ma gli Stati Uniti si rifiutavano tenacemente di modificarlo, per ragioni di prestigio.
Le richieste di conversioni delle Banche Centrali, specialmente della Svizzera, del Belgio, dell'Olanda, misero il Tesoro degli Stati Uniti di fronte al dilemma: o accettare la conversione dei dollari in oro col rischio che le riserve di metallo degli Stati Uniti sarebbero state rapidamente consumate, oppure dichiarare l'inconvertibilità. Scelsero, come ho già ricordato, la seconda strada.
Il "gold exchange standard" creato nel'45 a Bretton Woods affondò definitivamente nel Ferragosto del '71.
Cominciò da quel giorno un periodo assai agitato, che dura tuttora. Il fatto nuovo fu che, abolito l'ancoraggio del sistema monetario all'oro - per tenue che fosse - tutto il processo di creazione della liquidità internazionale passò nelle mani delle autorità monetarie americane. Di fatto, per lungo tempo, tutto il mondo occidentale non fu altro che un'immensa "area del dollaro". Mi sono domandato spesso se la creazione - avvenuta parecchi anni più tardi - dello Sme sia servita a spezzare questo monopolio monetario degli Stati Uniti. Al di là di alcune apparenze, la mia risposta è no: siamo ancora un'immensa area del dollaro, nella quale i vari Paesi non hanno che una debolissima voce in capitolo. Ma, al tempo stesso, il dollaro non ha più quell'intatta forza che aveva avuto negli Anni Cinquanta. Insomma, un dollaro più erratico, un'economia americana più debole - almeno fino all'avvento di Reagan alla Casa Bianca - ma al tempo stesso un dollaro senza rivali sul mercato mondiale.
Fasi alterne si sono succedute da quell'agosto del '71 ad oggi: abbiamo visto la moneta americana fortissima, poi debole, poi di nuovo forte come proprio in questi giorni accade. Per converso, abbiamo visto indebolirsi il marco, lo yen e le monete europee, e poi rafforzarsi e infine indebolirsi di nuovo. Gli Stati Uniti hanno esportato inflazione in Europa in due diversi modi: con un'eccessiva creazione di liquidità, che ha irrorato tutta l'economia europea, e con improvvisi e vertiginosi rincari delle materie prime e delle merci americane causati dall'apprezzamento del dollaro in termini di monete europee. Oggi siamo in questa seconda fase. E le possibilità per l'Europa di difendere la propria economia sono assai ridotte.
Il 18 dicembre del 1971 si concluse a Washington la grande conferenza monetaria per riallineare sul dollaro la parità delle altre monete, dopo la dichiarazione d'inconvertibilità. La tesi prevalente in quel momento era che il sistema monetario avrebbe dovuto continuare ad essere basato su cambi fissi. L'idea di cambi fluttuanti stentava ad entrare nell'orizzonte immaginativo dei banchieri centrali, in particolare di quelli americani. In Europa, debbo dire, c'era una più fervida fantasia intellettuale: in particolare, noi della Banca d'Italia consideravamo con molta serietà una doppia ipotesi: da un lato, quella di poter sostituire l'ancoraggio all'oro all'ancoraggio ad una moneta internazionale, emessa dal Fondo Monetario sulla base di parametri oggettivi; dall'altro, quella di abbandonare il regime dei cambi fissi. Erano ancora ipotesi di lavoro. Nel frattempo, si trattava di vedere alla prova il funzionamento del nuovo meccanismo, ancorato esclusivamente al dollaro.
La prova fu tremenda. Tra la fine del '71 e il febbraio-marzo '73, gli Stati Uniti inondarono gli altri Paesi industriali di dollari, quindi di liquidità eccedentaria, quindi d'inflazione. Il mercato che più d'ogni altro dovette subire questi movimenti fu quello tedesco. Poiché ad un certo punto la situazione diventò insostenibile, fu giocoforza arrivare alla fluttuazione dei cambi, con massicci interventi delle Banche Centrali europee sul mercato per contrastare i movimenti della speculazione.
La Germania Federale cercò di conciliare due obiettivi: la fluttuazione tra il dollaro e il marco da un lato, e dall'altro la stabilità tra le monete della Comunità Europea, verso le quali l'industria tedesca dirigeva circa la metà delle sue esportazioni. Nacque a questo punto il tentativo di sganciare almeno parzialmente l'area monetaria europea da quella del dollaro, che culminerà qualche anno dopo nella creazione dello Sme. Da quel momento in poi noi, e con noi gli altri membri della Comunità, dovemmo abituarci a stare in barca non con un solo elefante, ma con due: il dollaro e il marco.
L'instabilità del sistema dei pagamenti internazionali diventò così preoccupante che, nel settembre 1973, in occasione della conferenza del Fondo Monetario a Nairobi, si decise l'ancoraggio del sistema alla creazione dei diritti speciali di prelievo. Era appunto quella moneta internazionale che avrebbe dovuto prendere il posto abbandonato dall'oro. Ma proprio mentre le telescriventi da Nairobi informavano il mondo dell'avvenuta decisione, le truppe corazzate egiziane, nel giorno del Kippur, attaccavano Israele. La grande crisi del petrolio avrebbe da quel momento pesato sull'economia di tutto l'Occidente.
La crisi del petrolio provocò nei principali Paesi consumatori disavanzi spaventosi nelle bilance dei pagamenti. Nel gennaio '74, in presenza delle prime notizie sull'ammontare di quei disavanzi, il Segretario al Tesoro americano, George Schultz, dichiarò che la situazione era "unmanageable", incontrollabile. Le conferenze monetarie si susseguivano a getto continuo e le proposte per riprendere sotto controllo il meccanismo dei pagamenti internazionali si moltiplicavano, ma con poco costrutto. Mentre i banchieri centrali e gli uomini di governo discutevano, il mercato provvedeva da solo: i petrodollari incassati dagli sceicchi in pagamento del petrolio e depositati presso le filiali europee delle banche americane venivano da queste ultime prestati ai paesi industriali deficitari, per finanziare i loro acquisti di petrolio. Il mercato dell'eurodollaro, che già negli anni precedenti aveva raggiunto dimensioni rimarchevoli, diventò gigantesco, e non finì più di crescere su se stesso.
Tra il 1974 e il dicembre del 1980, i depositi di istituzioni e cittadini stranieri in banche americane passarono da 119 a 295 miliardi di dollari; ma alla stessa data (dicembre '80), i depositi in eurodollari presso filiali europee di banche americane, ammontavano nientemeno che a 398 miliardi. La conseguenza di questa espansione del mercato dell'eurodollaro fu un continuo aumento dell'instabilità dei cambi.
Oggi siamo in presenza di una forte ripresa del dollaro, che deriva dalla decisione "monetarista" presa dalla Federal Reserve nel quarto trimestre 1979, quando era ancora presidente Carter. L'amministrazione Reagan ha proseguito quella politica e l'ha resa ancor più incisiva. Essa si basa su un controllo estremamente severo dell'offerta di moneta senza alcun riguardo alle conseguenze che questo può comportare sui tassi d'interesse, sul taglio della spesa pubblica, e, contemporaneamente, dei gravami fiscali. Ma non è soltanto la politica economica dell'amministrazione Reagan a spiegare il rialzo del dollaro. C'è da un lato la nuova credibilità politica della Casa Bianca, dall'altro una serie di preoccupazioni politiche nell'area europea. Metterei tra queste le tensioni in Polonia, l'acutizzarsi del terrorismo in Gran Bretagna, la vittoria socialista in Francia. Sono tutti fatti che inducono gli investitori ad abbandonare il marco, la sterlina, il franco e a spostarsi sulla moneta americana.
Dove potrà arrivare il tasso di cambio del dollaro? In una recente intervista ho affermato che potrebbe arrivare a 2,70 marchi, com'era nel marzo del'73, quando ebbe inizio la fluttuazione dei cambi. Ciò significa, per quanto riguarda la lira, un tasso di cambio di 1.350. La Banca Centrale tedesca, tra i diversi modi possibili per attenuare la spinta del dollaro, si è incamminata verso una politica di alti tassi d'interesse. Conseguentemente, tende a calare in Germania la produzione industriale.
Proseguiamo così, tra un aggiustamento e l'altro, tra brusche frenate e altrettanto brusche accelerate, senza ancora aver trovato uno stabile e soddisfacente assetto del sistema dei pagamenti internazionali. L'oro non poteva più rappresentare un punto di riferimento, questo è certo. Ma dopo quel 15 agosto di dieci anni fa, il sistema è diventato indeterminato, ci sono più incognite che equazioni, per dirla in termini matematici. La comunità internazionale non ha potere sufficiente, le istituzioni che dovrebbero regolare la creazione e l'equilibrata distribuzione della liquidità non sono operanti, l'Europa monetaria è terribilmente indietro rispetto al calendario. Mai come oggi sarebbe necessario uno sforzo di fantasia e di volontà politica. Mai come oggi esso sembra relegato nelle incerte nebbie d'un lontano futuro.

Banca Popolare Pugliese
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