Un messaggio per l'uomo nell'era della tecnologia




Giuseppe De Rita



Il lavoro è una cosa antica, è un "actus personae", è un "bonum arduum". Seguendo queste tre affermazioni della nuova enciclica, se ne può capire e spiegare anche il senso culturale, oltre che quello pastorale e spirituale.
"Il lavoro è cosa antica, tanto antica quanto l'uomo e la sua vita sulla Terra": si tratta non solo di una bella frase, ma anche della chiave di volta del documento. La storia del pensiero sociale della Chiesa mostra, dalla "Rerum novarum" alla "Populorum progressio", una tendenza ad occuparsi sempre più della configurazione e della qualità dei processi di sviluppo e sempre meno della soluzione dei diritti e dei problemi dei singoli lavoratori o della classe operaia. Il Concilio e Paolo VI (specialmente sulla spinta del padre domenicano J. L. Lebret, in assoluto uno dei migliori studiosi dei problemi dello sviluppo negli anni '50) avevano cercato di partecipare al travaglio culturale del nostro tempo, entrando coraggiosamente nel dibattito sulla qualità umana dei processi e dei sistemi economici e sociali.
La nuova enciclica non si occupa di processi e di sistemi, ritorna un po' indietro (alla "Rerum novarum" e alla "Quadragesimo anno" di Pio XI), ricolloca la questione sociale sulla centralità del lavoro e del valore soggettivo del lavoro. Il lavoro è cosa antica, ed è giusto concentrare l'attenzione su di esso, anche a rischio di apparire deboli (e l'enciclica lo appare) nelle parti maggiormente legate all'evoluzione storica di questi decenni. Non bastano riferimenti concettuali e terminologici di attualità (dai microprocessori alla telematica), non bastano le durezze sulle multinazionali, non bastano i richiami a tematiche correnti nella letteratura sociopolitica (la disoccupazione giovanile, la pianificazione, la proletarizzazione dei tecnici e degli intellettuali, la dimensione metacontrattuale del sindacato, ecc.), non basta una carica anticapitalista ed in parte antioccidentale, per nascondere una sostanziale nonvolontà di occuparsi della storia di questo periodo, una sostanziale volontà di restare sul valore eterno del lavoro.
Il lavoro è non solo cosa antica, ma anche "actus personae", valido essenzialmente perché "colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso". La soggettività del lavoro è il fondamento quindi del suo valore ed ogni distorsione sociale che oggi viviamo è legata alla negazione o sovversione di questo basilare principio, alla riduzione del lavoro ad oggetto: alla riduzione a merce, a forza-lavoro, a fattore di produzione, a pura tecnica, a strumento del capitale.
L'enciclica sottolinea fortemente la priorità del lavoro come "actus personae"; che occorre battere l'economicismo e il materialismo; che è stata ed è giusta la solidarietà dei lavoratori nel riaffermare la propria centralità; che c'è un primato dell'uomo (specie dell'uomo del lavoro) sulle cose; che lo stesso capitale non è fonte, ma strumento e frutto del lavoro dell'uomo di generazione in generazione; che la proprietà non è possesso per possedere, ma si giustifica solo in quanto serve al lavoro. Il lavoro fatto dall'uomo è centrale in ogni tipo di società, e la Chiesa non può che "assicurare il primato del lavoro e, per ciò stesso, dell'uomo nella vita sociale e nella struttura dinamica di tutto il processo economico".
Naturalmente, l'eleganza un po' arcaica di richiamare il carattere antico e tutto soggettivo del lavoro non può coprire la complessa collocazione del lavoro nei diversi sistemi economici contemporanei. Non a caso il documento si trova a un certo punto ad inventare un termine: il datore di lavoro indiretto. E' l'accorgimento per superare il primato della soggettività e riconoscere che esiste anche il "sistema", cioè le istituzioni, le politiche, i contratti, i principi di comportamento. Il valore soggettivo del lavoro diretto (il padrone, cui specialmente spetta dare il salario come giusta remunerazione e come strumento di accesso ai beni), ma anche e specialmente con il sistema nel suo complesso inteso come "datore indiretto".
Ma non è questo un giro troppo lungo e artificioso (ed anche un po' stravagante, almeno terminologicamente) per parlare di processi e sistemi? Non sarebbe stato meglio non esasperare il taglio tutto soggettivo e personalistico del documento e accettare di misurarsi direttamente con la realtà e il travaglio dei processi e dei sistemi economici e sociali di questo periodo?
Questa riflessione critica non toglie comunque che il richiamo alla soggettività del lavoro sia non solo forte, ma anche molto bello, specie quando si dice che "il lavoro è un bene dell'uomo - perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura ma realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo". In questo senso il lavoro è un bene faticoso, è un "bonum arduum", come diceva San Tommaso. E' un bene infatti in cui convergono da un lato la responsabilità umana di attuare di generazione in generazione la benedizione iniziale del libro della Genesi di dominare la terra; dall'altro lato il dovere di "non essere peso ad alcuno" dell'insegnamento paolino; dall'altro ancora l'accettazione della fatica (il dolore e il sudore) come possibilità di condividere la sofferenza e la redenzione portate dal Cristo.
La parte finale e più riuscita dell'enciclica, è tutta dedicata ad esprimere la grande fiducia del Papa nelle possibilità di dare al "bonum arduum", al lavoro dell'uomo concreto il "significato che esso ha agli occhi di Dio". E' un richiamo a una spiritualità del lavoro che finisce per ulteriormente personalizzare il messaggio papale, quasi che esso sia rivolto ad ogni uomo, nel profondo dei suoi pensieri, e non al dibattito delle idee degli specialisti. Un messaggio etico e religioso più che sociale, senza quell'ansia di dialogare con il mondo che rendeva nobili, ma anche un po' generici, precedenti documenti del magistero sociale della Chiesa.

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