Dallo scontro di classe alle ingiustizie di Stato




Giuseppe De Rosa



George Bernanos, nel suo Diario di un parroco di campagna, fece rievocare dal curato di Torcy l'enciclica "Rerum novarum" con queste parole: "La famosa enciclica di Leone XIII, 'Rerum novarum', voi la leggete tranquillamente con l'orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca ci è parso di sentir tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo! ( ... ). Questa idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposta alla legge dell'offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero e il caffè, metteva sottosopra le coscienze".
Leone XIII aveva allora 82 anni e come ricordò il giovane Luigi Sturzo, uno dei grandi protagonisti delle lotte sociali a cavallo dei due secoli, parve allora, nell'agitarsi delle dottrine sulla condizione operaia, che l'enciclica fosse quasi "socialistica, e persino i governi ancora liberali nell'anima loro borghese, temettero; temettero molti, anche ecclesiastici, di questa nuova forza unita al popolo".
Per la prima volta con la "Rerum novarum" la Chiesa faceva sentire in maniera specifica, nell'età dei trionfi del capitalismo industriale, dei forti conflitti di classe di fine secolo, della formazione dell'organizzazione del lavoro, la sua voce di condanna di ogni forma di sfruttamento e di ogni concezione puramente economicistica del lavoro. Il linguaggio dell'enciclica non era però sociologico, non concedeva nulla alla moda ideologica corrente, aveva la struttura e l'ispirazione del messaggio biblico che conferiva ad essa quello spessore profetico, che tanto colpì l'opinione pubblica del tempo: classi, ceti e governi.
La "Rerum novarum" fu una sorpresa, in un certo senso anche per tanta parte dello stesso mondo cattolico ed ecclesiastico che continuava a cullarsi in una visione paternalistica dei problemi del lavoro: si parlava ancora dell'economie charitable della scuola del cattolicesimo sociale francese, caratterizzata dagli indirizzi del cosiddetto corporativismo cristiano.
Tutte le altre encicliche sociali dei Papi derivarono in qualche modo dalla "Rerum novarum", ne hanno costituito spesso un ampliamento in una sorta di continuità ideale. Anche questa nuova enciclica di Giovanni Paolo II si richiama alla "Rerum novarum" nell'analisi della natura prevalentemente soggettiva del lavoro, che è legata alla parola della Bibbia "in forza della quale l'uomo deve soggiogare la terra"; nella contrapposizione della concezione cristiana del lavoro alle varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico; nella denuncia del pericolo di trattare il lavoro come "una merce sui generis", nel franco riconoscimento che dal punto di vista morale-sociale fu giustificata la reazione del mondo operaio contro le forme prevaricanti dello sfruttamento capitalistico.
Ma la lettura della "Laborem exercens", i suoi contenuti, il cerchio culturale entro cui si iscrive, sono diversi, perché profondamente diversa è la situazione storica a cui si richiama; i problemi non appartengono più soltanto all'ambito della classe, come era stato per la "Rerum novarum", ma a quello mondiale delle diseguaglianze e delle ingiustizie, che coinvolgono Paesi, Nazioni e Continenti.
Il mutamento della dimensione dei problemi era stato già avvertito e sottolineato dall'enciclica "Mater et magistra" di Giovanni XXIII, dalla costituzione pastorale "Gaudium et Spes" del Concilio Vaticano II e dalla "Populorum progressio" di Paolo VI, ma qui, nella "Laborem exercens", i ceti, le classi, le nazioni, sono richiamati non come enti, figure generali, ma nella concretezza umana, come insieme di soggetti che esigono nuove forme di solidarietà tra i vari Paesi e nei rapporti tra loro.
Nell'enciclica di Giovanni Paolo II si parla anche della povertà, ma la povertà non si esaurisce nel concetto di scarsezza o mancanza di mezzi: "I poveri - dice il testo dell'enciclica - compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano".
L'enciclica batte e ribatte sul tema della difesa della soggettività del lavoro e dei diritti civili sacrosanti legati alla persona umana, diritti che possono essere minacciati dalla globalità di certi processi di pianificazione statalistica. Il lavoro non è ridotto all'ambito, pur importante, della classe, ma si allarga all'ambito delle famiglie e delle particolarità nazionali, si allarga cioè agli originali legami culturali e storici della società in cui il lavoratore agisce e per la quale opera per incrementare il bene comune.
Nell'enciclica si misurano gli effetti negativi di quella contrapposizione rigida fra capitale e lavoro, quasi due forze anonime, che hanno caratterizzato tanta parte della storia dei processi di industrializzazione della prima fase dello sviluppo capitalistico, e che il Papa non esita a indicare come errore da superare sulla base della "decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione". E' uno dei passi più delicati dell'enciclica, che può essere forzato in una direzione sbagliata, ideologicamente parziale, se non si tiene a mente che la chiave interpretativa è nell'affermazione del primato della persona e del lavoro dell'uomo sul capitale, inteso quest'ultimo come insieme dei mezzi di produzione.
Nuova ci sembra quella parte dell'enciclica dedicata alla definizione del datore di lavoro "indiretto", nel quale è da configurarsi soprattutto lo Stato imprenditore che può condizionare la massa del lavoro e dell'occupazione. Non sono misconosciuti il ruolo dello Stato nell'economia e le responsabilità che gravano sulle sue spalle, ma l'enciclica mette in guardia dalla centralizzazione unilaterale che può essere operata dai pubblici poteri.
Altro esempio di datore di lavoro "indiretto" è costituito dalle imprese che dirigono su grande scala i mezzi di produzione industriale (le cosiddette società multinazionali ). Come già Paolo VI, Giovanni Paolo II vede nell'aumentata distanza tra la maggior parte dei Paesi ricchi e i Paesi più poveri un pericolo per la stabilità della pace.
La chiave di lettura dell'enciclica non è, dunque, la condizione del lavoro presa a sé, ma nel suo rapporto ormai indissolubile con il problema generale della pace, che a sua volta sia quello del rispetto e della salvaguardia dell'insieme dei diritti dell'uomo: "Il rispetto di questo vasto insieme dei diritti dell'uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace del mondo contemporaneo; per la pace sia all'interno dei singoli Paesi e società, sia nell'ambito dei rapporti internazionali".
I capi di Stato parlano con la forza della politica, degli eserciti, delle armi, è il loro mestiere da quando mondo è mondo; il Papa si appella alla coscienza dei popoli, parla dei diritti civili dell'uomo alla luce della verità cristiana, sollecita questa coscienza a non lasciarsi assorbire o deviare o conculcare dalle ideologie materialistiche, dalle radicalizzazioni fanatiche delle opposizioni di classe e ideologiche. La società che emerge dall'enciclica non è quella certo del benessere, della fiducia incondizionata nei processi dell'accumulazione capitalistica o delle antinomie radicali, ma è la società della ragionevolezza cristiana, dei buoni costumi civili, della moderazione e del rispetto della dignità dell'uomo.

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