Il problema-chiave della questione sociale




Mons. Franco Biffi



"La concezione moderna di cui voi siete gli araldi e i difensori - affermava Paolo VI il 10 giugno 1969 a Ginevra, dinanzi ai delegati dei Paesi membri dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro - è fondata su un principio fondamentale che il Cristianesimo ha singolarmente messo in luce: nel lavoro è l'uomo che è il primo. Che sia artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, manovale o intellettuale, è l'uomo che lavora, è per l'uomo che egli lavora. E' dunque finita la priorità del lavoro sui lavoratori, la supremazia delle esigenze tecniche ed economiche sui bisogni umani. Mai più il lavoro al di sopra del lavoratore; mai più il lavoro contro il lavoratore: ma sempre il lavoro per il lavoratore, il lavoro al servizio dell'uomo, di ogni uomo e di tutto l'uomo".
Idealmente, forse, l'enciclica di Giovanni Paolo II trae le sue origini dal discorso avviato da Papa Montini a Ginevra: nessuno e niente c'impedisce di pensare che papa Wojtyla avesse in animo di fare la presentazione ufficiale della sua terza enciclica proprio dinanzi allo stesso qualificato uditorio, in occasione della visita (prevista per il 4 giugno '81) all'organismo delle Nazioni Unite che tratta ex professo del lavoro nei suoi mille aspetti.
L'uomo e il suo lavoro è dunque il tema della lettera che, alle soglie del terzo millennio, il Papa venuto dall'esperienza personale del lavoro manuale, venuto da una società dove il lavoro è vissuto in un preciso contesto ideologico, politico e sociale, indirizza all'intera famiglia umana, al di là della pur vasta cerchia dei credenti cristiani. Come alle soglie dell'era industriale Adam Smith aveva annunciato, nella Ricchezza delle Nazioni, il "vangelo liberale" esaltante nel lavoro l'unica fonte della ricchezza; come alle soglie dell'era democratica Carlo Marx aveva proclamato, nel Manifesto e nel Capitale, il "vangelo socialista" esaltante nel lavoro proletario la forza rivoluzionaria e vittoriosa che doveva culminare nella riappropriazione dei non possidenti, così all'ingresso dell'umanità nell'era spaziale, Giovanni Paolo II annunzia il "vangelo del lavoro" accostando le travagliate ricerche e le dolorose esperienze attraverso cui il lavoro nei secoli è stato crogiolato alla vivificante luce del messaggio di Cristo.
Il nuovo documento sociale della Chiesa, infatti, ha per scopo di mettere in risalto -forse più di quanto sia stato compiuto finora - il fatto che il lavoro è una chiave, e probabilmente la chiave, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell'uomo: nella direzione, cioè, della graduale soluzione della questione stessa che consiste nel "rendere la vita umana più umana". E subito s'intravede che la chiave lavoro ne esige e presuppone un'altra: la chiave-uomo. Il nucleo costitutivo del "vangelo del lavoro" è questo: il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non va cercato nel genere di lavoro che si compie o nelle modalità con cui esso si realizza (è quello che l'enciclica definisce "lavoro oggettivo") ma nel fatto che colui che esegue il lavoro è una persona ("lavoro soggettivo").
"Resta chiaro - afferma il documento - che ogni uomo che partecipa al processo di produzione, anche nel caso che esegua solo quel tipo di lavoro per il quale non sono necessari una particolare istruzione e speciali qualificazioni, è tuttavia in questo processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l'insieme degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso, è solo ed esclusivamente strumento subordinato al lavoro dell'uomo. Questa verità, che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve essere sempre sottolineata in relazione al sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell'uomo nel processo di produzione, il primato dell'uomo di fronte alle cose. L'uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l'uomo, egli solo, è una persona".
E' a partire da questa enunciazione che Giovanni Paolo II affronta, nei due capitoli centrali dell'enciclica, i due nodi cruciali costituiti dai conflitti e dai diritti degli uomini del lavoro. Nella lettura dei conflitti, fatta sempre sullo sfondo del "vangelo" summenzionato, l'enciclica indugia soprattutto sulle contrapposizioni lavoro-capitale e lavoro-proprietà. Soprattutto negli ultimi secoli e nella scia delle impostazioni classiste e ideologiche, il lavoro è stato violentemente separato dal capitale e contrapposto ad esso: questo tragico errore, nella sua duplice versione dell'economismo e del materialismo, ha portato all'asservimento dell'uomo tanto al lavoro-idolo quanto al capitale-idolo. Il superamento dell'antinomia tra capitale e lavoro è la chiave di soluzione di gran parte dei conflitti: ma la "chiave della chiave" è il riconoscimento del primato della persona.
Per quel che riguarda l'altro conflitto - la contrapposizione tra lavoro e proprietà - l'errore è stato quello di considerare i mezzi di produzione isolatamente, come un insieme di proprietà a parte, al fine di contrapporlo nella forma di "capitale" al lavoro e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro: il che è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. L'eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione e la loro collettivizzazione non costituisce ipso facto la loro socializzazione", cioè la loro destinazione al bene comune. Tale destinazione, infatti, ha come chiave il primato del lavoro. Il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato nel sistema collettivistico non è equivalente alla socializzazione di questa proprietà: si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la "soggettività della società", quando cioè ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il "comproprietario" di quel gigantesco banco del lavoro cui si può paragonare l'impostazione dell'economia moderna: un banco al quale tutti hanno diritto di avere un posto (e qui si profilano i diritti inerenti all'occupazione, l'emigrazione, eccetera) e di essere al proprio posto (con tutti i diritti personali e sociali, e rispettivi doveri).
Emerge limpida ed esigente, al di sopra di tutto il discorso attorno agli accennati nodi dei conflitti e dei diritti, la caratteristica dell'enciclica: il suo "vitalistico" impulso al superamento di vecchi schemi di dicotomie, di contrapposizioni, di campanilismi. Affrontare la moderna questione sociale con la chiave personalistica, sembra dire Giovanni Paolo, comporta l'accantonamento della rigida suddivisione in classi contrapposte; l'allargamento del concetto di lavoro; l'abbandono della zavorra delle ideologie contrapposte; la scelta di atteggiamenti "per" in luogo di irrigidimenti "contro", (interessante, in tal senso, il discorso sulla politica sindacale e sulla strategia dello sciopero); il sacrificio dei regionalismi, per aprirsi ai veri problemi a respiro planetario, facendo leva su una nuova immagine e una più sincera pratica della solidarietà, anche operaia.
Un breve, ma illuminante capitolo conclusivo evidenzia l'apporto specifico del Cristianesimo: il "vangelo personalistico", ricorda il Papa, se non vuol correre il rischio di costruire castelli di sabbia, deve poggiare sulla roccia del Vangelo di Cristo. Solo la concezione recata dal Cristianesimo dell'uomo creato a immagine di Dio e come lui "sempre all'opera per costruire nuovi cieli e nuova terra" offre la chiave d'oro, di cui l'umanità ha imperioso bisogno.

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