LA "LABOREM EXERCENS" DI GIOVANNI PAOLO II




Aldo Bello



La "Laborem exercens" è la quinta grande enciclica sociale della Chiesa moderna. L'hanno preceduta la "Rerum novarum" di Leone XIII nel 1891, la "Quadragesimo anno" di Pio XI nel 1931, la "Mater et magistra" di Giovanni XXIII nel 1961 e la "Populorum progressio" di Paolo VI nel 1967.
La "Rerum novarum" nacque dalla preoccupazione per lo sfruttamento della classe operaia e, insieme, per il diffondersi del socialismo. L'analisi si può considerare - per l'epoca - coraggiosa. Si parla delle condizioni dei proletari. "Avvenne - vi si legge - che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza (..). Un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile ... ". Netta la condanna delle dottrine materialiste: "A rimedio di questi disordini - scrive Leone XIII - i socialisti, attizzando nei poveri l'odio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà". La proprietà privata, dunque, era riaffermata come diritto di natura. Si condannava la lotta di classe e, nello stesso tempo, si indicavano i diritti inalienabili dei lavoratori: al salario, a una giornata lavorativa umana, alla libera associazione. Si denunciavano gli eccessi del capitalismo, senza condannarlo; si respingeva il socialismo, recependone però le istanze di giustizia sociale. Si prefigurava così una società armonica, solidale, dove i contrasti fossero superati senza ricorsi alla violenza: un'ipotesi che prenderà poi il nome di "terza via" (tra capitalismo e marxismo), cui il pensiero cattolico - nonostante tutti gli aggiornamenti - rimarrà sempre legato.
Quattro decenni dopo, Pio XI promulgò la "Quadragesimo anno", nella quale era ribadita la dottrina della "Rerum novarum". In parte, la aggiornò. Risentì - anche se limitatamente - delle suggestioni corporative del tempo. D'altro canto, economisti, giuristi e intellettuali cattolici hanno talvolta visto nella corporazione il realizzarsi di quell'ipotesi di armonia fra le parti sociali proposta dalla dottrina della Chiesa. Pio XI ribadì la condanna del marxismo e di ogni dottrina che fondi l'umano consorzio puramente su mete di produzione e di benessere materiale: messaggio, questo, che lo stesso Pontefice affiderà, nel 1937, ad un altro documento, la "Divini Redemptoris", a difesa di una civiltà libera e operosa. Ma il magistero della Chiesa denunciava anche le Insufficienze del libero sistema di mercato nel risolvere i problemi della vita economica dei popoli. Scrisse il Pontefice: "E' necessario che l'economia torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio direttivo (...). E' necessario che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli, anzi di tutta la vita della società; e più ancora è necessario che questa giustizia sia davvero efficace, ossia costituisca un ordine giuridico e sociale a cui l'economia tutta si conformi".
Con la "Mater et magistra", il problema della giustizia sociale è visto nelle sue dimensioni planetarie. "Alle comunità politiche che dispongono di mezzi di sussistenza in esuberanza - scrisse Giovanni XXIII - s'impone il dovere di non restare indifferenti di fronte alle comunità che si dibattono nelle difficoltà dell'indigenza (...). Non è possibile che regni (tra i popoli) una pace duratura e feconda, quando sia troppo accentuato lo squilibrio nelle condizioni economico-sociali". Siamo già al Concilio Vaticano Secondo. Nel dicembre '65 i vescovi di tutto il mondo approveranno la costituzione "Gaudium et Spes" con 2111 voti favorevoli, 251 contrari e 11 nulli. "Mentre folle immense si legge nel documento conciliare - mancano dello stretto necessario, alcuni, nei Paesi meno sviluppati, vivono nell'opulenza e sperperano i beni. Il lusso si accompagna alla miseria. E mentre pochi uomini dispongono di un assai ampio potere di decisione, molti mancano quasi totalmente della possibilità di agire di propria iniziativa o sotto la propria responsabilità, spesso permanendo in condizioni di vita e di lavoro indegne di una persona umana".
La dimensione mondiale del problema della giustizia sociale fu poi ampliata da Paolo VI con la "Populorum progressio", il cui senso è emblematicamente sintetizzato nell'espressione, ormai famosa: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace". Vi era, in Papa Montini, la consapevolezza del dissidio storico tra religione e lavoro, del cosiddetto "divorzio" tra Chiesa e classe operaia. Ancora Arcivescovo di Milano, aveva detto: "Religione e lavoro: vi è qualcosa che non solo distingue, ma separa queste due espressioni della vita umana: talvolta esse si ignorano, talvolta si sospettano, talvolta si oppongono l'una all'altra. Spesso convivono senza aiutarsi. Quando sono spinte ad avvicinarsi, si temono". Questa consapevolezza non viene meno in Giovanni Paolo II, è per così dire - stemperata nella certezza che la fede non ha solo le risposte ultime, ma anche le soluzioni di ciascun problema. Diversità di toni tra l'epoca conciliare e quella di Papa Wojtyla? La risposta si può cogliere, con ogni probabilità, negli interventi di quattro "interpreti": monsignor Franco Biffi, Rettore della Pontificia Università Lateranense; Giuseppe De Rosa, Ordinario di Storia Contemporanea all'Università di Roma; Giuseppe De Rita, economista, Segretario Generale del Censis; lo storico Giuseppe Galasso, già noto ai nostri lettori. La "Rassegna", attenta ai problemi del lavoro e dell'economia, quanto a quelli etici, sociali e umani che investono il mondo contemporaneo, li ringrazia per l'alto valore dei contributi che danno al nostro dibattito.

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