§ I FATTI E LE OPINIONI

Rileggendo la storia del sud




E.S., C.M.V.



Coloro che hanno cercato di localizzare un "asse del mondo", e di tenerne conto ai fini dello sviluppo della storia, lo hanno individuato così: quattromila anni or sono passava sulla riva del Mar Rosso e sul Golfo Persico; tremila anni fa, sulle coste meridionali del Mediterraneo; duemila anni or sono, e fino al Mille della nostra Era, passava al centro del Mediterraneo; nel 1400 si spostò sulla linea di Firenze, e dal 1600 al 1800 si spostò ancora più a nord, nell'Europa Centro-Settentrionale; oggi attraversa l'Atlantico Settentrionale, con corrispondenza nella stessa fascia del Pacifico.
Dunque, dopo il regno di Federico II di Svevia e di Sicilia, nel XIII secolo, e dopo la caduta di Costantinopoli, ai primi dell'Evo Moderno, il Mediterraneo, che per millenni era stato l'"asse del mondo", divenne un mare senza riva opposta per intensità di traffici commerciali e di scambi culturali. L'espansione dell'Islam sul territorio dell'Africa Settentrionale e sull'Oriente mediterraneo aveva già prodotto nei secoli IX X e XI una lacerazione dell'unità mediterranea avviata dai Fenici, proseguita dai Greci e completata dai Romani. L'Italia del Sud si trovò ai confini del mondo occidentale in progresso, mentre la Sicilia era al centro dell'espansionismo arabo. Più tardi, Ruggero primo e i suoi successori, soprattutto Federico, il Puer Apuliae, mantennero stretti rapporti culturali e commerciali con l'Islam, associando nei loro interessi l'intera Italia Meridionale e, in maniera indiretta, l'Occidente. Quali sviluppi abbiano avuto filosofia e medicina, fisica e scienze matematiche e geometriche, alchimia, scienze occulte, metafisica, letteratura, proprio per la presenza araba, e fino a quando una progressiva narcosi non fossilizzò tutto il sapere portato dall'Islam, è noto. Dopo la calata in Italia di Carlo d'Angiò e la morte di Manfredi, ultimo re di Sicilia, il Mediterraneo divenne ancora una volta confine tra due mondi, valicato soltanto da pisani, genovesi e veneziani. Le genti dell'Italia Meridionale erano diventate, con gli Angioini, nemiche dell'Islam. Cominciò da allora, e non ebbe che rari momenti di ripresa, la lunga decadenza del Sud.
Quella greca nell'Italia Meridionale non fu una conquista. Fu una trasmigrazione, avviata tra l'ottavo e il settimo secolo prima di Cristo. I Greci fondarono città, si associarono ai popoli rivieraschi dell'Italia Meridionale, cercarono di penetrare all'interno: in alcuni casi ebbero buona accoglienza. Li osteggiarono i Siculi, i Lucani, i Bruzi, i Campani, i Messapi. Si può affermare che le popolazioni stanziate sulle fasce appenniniche, dall'Aspromonte al Sannio, dall'Umbria all'Irpinia, non conobbero convivenza con i Greci. L'immigrazione greca fu prevalentemente maschile: tra la seconda e la terza generazione, la fusione con alcuni popoli autoctoni fu naturale. Nacquero così siculi greci, bruzi greci, messapi greci, campani greci.
Dopo la battaglia di Maleventum (Benevento, nel 275 a.C.), Roma fu padrona dell'Italia peninsulare, dalla Toscana alla Calabria. La Gallia Cisalpina fu conquistata dopo la seconda guerra punica (133 a. C.). L'unione alla penisola della Sicilia, Sardegna e Corsica si ebbe sotto Diocleziano, nel 286 dopo Cristo, con l'allargamento degli ordinamenti economici, giuridici e politici.
La calata dei barbari (nel 476 d.C.) diede il primo, forte scossone alla composizione etnica della Penisola. Particolare influenza ebbe la discesa dei Longobardi, guidati da Alboino (569 d.C.), che cacciarono i Goti di Teodorico, che a loro volta avevano cacciato gli Eruli di Odoacre. L'invasione longobarda fu massiccia: non del solo esercito, ma di un intero popolo, più di trecentomila anime. Per oltre due secoli non si fusero con le popolazioni locali, salvo che nel ducato di Benevento, ove erano in pochi e si sentivano isolati ed esposti. Si può ragionevolmente calcolare che l'apporto etnico nella Valle Padana, che allora era abitata da poco più di due milioni di persone, fu di un longobardo ogni venti-trenta italici; di uno a cinquanta il rapporto in Toscana e in Emilia. L'osmosi etnica si completò solo intorno all'undicesimo secolo, quando "lombardo" significava già "uomo del Nord". Anche gli Arabi, come i Longobardi, si portarono dietro uomini e donne (ma solo in Sicilia): solo che poi furono cacciati fino all'ultimo uomo, e spediti nelle terre d'origine, e in Spagna. Federico II li eradicò, trasferendo l'ultimo contingente a Lucera (Luceria Saracenorum). Dall'Italia continentale vennero cancellati da Carlo d'Angiò. Rimasero solo poche migliaia di unità: coloro, cioè che si erano convertiti al cattolicesimo.
Secondo alcuni, le espressioni "invasione normanna", "conquista normanna dell'Italia Meridionale e della Sicilia", "discesa dei normanni in Italia" e "arte normanna" non dovrebbero avere il pieno significato letterale che generalmente si attribuisce loro. I Normanni, affermano, giunsero in Italia come emigrati e senza Armi, così come alle fine dello scorso e nel corso di questo secolo gli italiani sono arrivati in vari Paesi delle due Americhe. Vennero per ragioni di lavoro, per esercitare il loro mestiere, che era quello delle armi. Datori di lavoro e degli attrezzi (armi, cavalli, marchingegni bellici) furono i governi delle città della Campania e della Puglia. Si racconta che i primi Normanni, più o meno una trentina, entrarono in Italia come romei, in pellegrinaggio a Roma e a Monte Sant'Angelo, sul Gargano. Proprio sulla via del ritorno dal Gargano, sostarono in una città di mare nell'area del salernitano. In quello stesso momento, pirati saraceni (1019) sbarcarono nei pressi di quella città e, come era nel costume di predatori e scorridori turcheschi ed europei (siciliani, calabresi, provenzali, genovesi, pisani, spagnoli in particolare), chiesero viveri e denari, con la minaccia di distruggere le messi e di raccogliere schiavi. I cittadini, impauriti, si apprestavano a pagare il pesante tributo, allorché i normanni, meravigliati dal fatto che poche centinaia di uomini si imponessero a migliaia di cittadini, chieseri armi e seguaci: armati di tutto punto e seguiti dalle schiere dei soldati-cittadini, assaltarono di sorpresa l'accampamento dei musulmani, facendone strage e costringendo i superstiti a riprendere il mare. Per questo furono subito assoldati a ottime condizioni. Altre città e alcuni prìncipi vollero i loro normanni: i primi, dunque, chiamarono parenti e amici, che scesero nella Penisola alla spicciolata e disarmati, formarono delle compagnie e degli squadroni, secondo le loro istituzioni militari. Un fatto curioso: le compagnie erano né più né meno che cooperative, in cui ogni socio, compreso H comandante, aveva diritto alla stessa quantità di soldo e di bottino. Essi combatterono così per conto d'altri, contro i locali, i saraceni scorridori, e i bizantini. Si verificò che qualche intraprendente normanno chiedesse nel contratto d'ingaggio di essere feudalmente insignito di una parte delle terre strappate per conquista all'avversario. Nacquero i primi nuclei territoriali. Poi, l'arrivo di dieci degli undici figli del Signore d'Altavilla, modesto nobile di Normandia, ricco di prole e povero di terre, condusse all'inserimento dei Normanni nel caos politico dell'Italia Meridionale, soggetta a Bisanzio, influenzata dall'Imperatore romanotedesco, in parte soggetta o influenzata dal Papa, per altra parte governata da Comuni sostanzialmente liberi o da feudatari che traevano la possibilità del loro dominio dal gioco d'equilibrio fra i contrasti, che avevano per protagonisti il Papato e l'Impero di Occidente, i Bizantini e l'Islam.
Quanti furono i Normanni in Italia: alcuni storici accreditano un numero abbastanza preciso: nel corso di un secolo e mezzo, sostengono, non superarono i diecimila uomini. I primi vennero nel 1017 e furono assoldati dal duca di Salerno, Melo; il Duca di Puglia ne assoldò altri (1017-1019), ma furono sconfitti in battaglia da quelli del Duca di Salerno quando i due gruppi di mercenari si trovarono al servizio dei due Signori in guerra. I Normanni dell'uno e dell'altro esercito erano in tutto, secondo le fonti, tremila. Ne rimasero in Italia Meridionale cinquecento, allo stipendio del Principe di Capua e dell'Abate di Montecassino. Vissero venti anni da soldati di ventura, rinforzati da altri Normanni calati a piccoli gruppi in cerca di fortuna e da uomini delle regioni meridionali che prendevano però il nome, il costume e (per quanto riguardava il vocabolario militare) la lingua normanna, il francese dell'epoca, e seguivano particolarmente le regole militari che descriveremo fra poco. Il Duca di Napoli, che con l'aiuto di una compagnia militare normanna aveva esteso il proprio territorio, diede in feudo ai Normanni nel 1029 una terra nella quale essi fondarono Aversa: il comandante della compagnia, Rainolfo, fu chiamato dapprima Console, poi Conte per concessione dell'Imperatore Corrado il Salico (1038). Nello stesso anno, si trovarono in Italia Meridionale due compagnie di "Normanni", una di autentici Normanni e di qualche autoctono meridionale - quella di Aversa, comandata dal Conte Rainolfo - e l'altra composta da giovani Normanni e da un maggior numero di meridionali, ma comandata dal milanese Ardoino, che era agli ordini del Principe di Salerno e che poi passò in Sicilia agli ordini dei Bizantini nella guerra contro gli Arabi.
Offeso dai Bizantini, Ardoino si ribellò e diede una mano agli insorti pugliesi contro Bisanzio, stabilendosi a Melfi. Dopo di che, si accordò con Rainolfo di Aversa, al quale fece capire che, carenti e deboli i Bizantini, persistendo il caos politico nell'Italia Meridionale (ove i Bizantini mantenevano un esercito di mercenari, che non avevano alcuna voglia di combattere), entrambi potevano diventare - alleandosi - gran Signori. L'alleanza si fece. Aversa fornì trecento uomini sotto dodici capitani (12 compagnie): non pochi erano meridionali. Ardoino raccolse alcune migliaia di uomini di Terra d'Otranto e di Terra di Bari e altri dell'area melfitana, comandati da Normanni e "lombardi". I Bizantini furono vinti. Dieci anni dopo un Normanno era già Duca di Puglia, quasi un sovrano, fra il riconoscimento dell'Imperatore d'Oriente, di quello d'Occidente e del Papa.
La "compagnia" normanna, nella sua prima composizione, era uno squadrone di cavalli, forte da venti a ottanta uomini, condotta da un Capitano che aveva assoldato gli uomini o che era stato eletto da essi, (nel primo caso era manager, impresario della compagnia; nel secondo era amministratore di una vera e propria cooperativa guerrafondaia). I soldati avevano diritti e doveri comuni. Il bottino era rigorosamente ed equamente diviso. I membri della compagnia erano prestatori d'opera e non erano sfruttati da nessuno, mentre i soldati bizantini erano un'accozzaglia di truppe malandate, generalmente escluse dalla divisione delle prede.
Dragone, Duca di Puglia, allorché giunse in Italia suo fratello, Roberto il Guiscardo, lo accompagnò sul confine della Calabria, in territorio bizantino, e là lo lasciò con trenta uomini (molto verosimilmente non tutti Normanni), dopo avergli fatto costruire in un'altura un ridotto di legname e dopo avergli ordinato di prendere, se poteva, tutto quanto vedeva intorno.
Roberto avviò la sua carriera di conquistatore depredando i pastori e gli agricoltori, finché si fece riconoscere loro Signore. Assoldò briganti e avventurieri calabri, formò con essi altre compagnie, allargò il suo dominio a distretto in tutta la Calabria. Quando nel 1056 Ruggero, ultimo figlio di Tancredi, venticinquenne, arrivò in Italia, il Duca Roberto lo mandò a Reggio Calabria con sessanta cavalieri e con l'incarico di conquistare l'intera Provincia, reclutando i più audaci del luogo, per conseguire, in un secondo momento, la conquista della Sicilia.
L'esercito che invase l'isola e scacciò i Saraceni era normanno di nome, di comando, di metodo e di tecnica militare, ma in grandissima parte era formato da pugliesi, da calabresi, da campani, da lucani e da "lombardi", cioè di uomini del nord della penisola, scesi all'avventura.
I Normanni sapevano combattere, conoscevano cioè i metodi originali dell'arte della guerra; sapevano comandare; sapevano amministrare la giustizia (anche se talvolta la giustizia faceva ricorso alla ferocia). Il loro regno passò per successione, alla casa Sveva. Successivamente, Carlo d'Angiò, che vantava qualche diritto dinastico sul Regno, fu consacrato re dal Papa e sconfisse Manfredi "nepote di Costanza Imperadrice", quindi nipote dell'ultima donna del sangue reale di Ruggero primo il Normanno.
La decadenza politica ed economico-sociale dell'Italia Meridionale e dei suoi grandi poli (Puglia, Napoli, Sicilia) comincia con Carlo d'Angiò, prosegue con la dinastia angioina, ha un'ulteriore accentuazione con gli Aragonesi e raggiunge quasi il collasso con i Viceré spagnoli. I Vespri Siciliani, regnando appunto Carlo d'Angiò, lacerarono l'unità territoriale e politico-amministrativa che gli Altavilla avevano creato col valore delle armi e con la saggezza politicodiplomatica: e questo fu il primo, grave colpo.
L'autorità papale, che investì Carlo d'Angiò del titolo di re di Sicilia, non poteva non sommuovere i baroni, peraltro aizzati dai Vescovi e prelati alla ribellione a Manfredi, come non poteva disarmare la fedeltà di altri baroni: dunque, guerra fra potenti e potenti, fra terre e terre, fra popoli e popoli delle stesse regioni. In seguito, le discordie e i moti per la successione del trono degli Angioini, resa complicatissima negli ultimi tempi dalle due regine Giovanne, portò ad altre sollevazioni, con nuovi lutti e più gravi rovine.
In ogni caso, anche ai tempi degli Aragonesi l'Italia Meridionale non differiva molto per economia e cultura da quella Settentrionale. E nel 1500 il Regno non era stato colpito dalla depressione che lamentò in seguito. Camillo Porzio, storico nato a Napoli e vissuto a Firenze, alla scuola dei Machiavelli e dei Guicciardini, in una relazione stilata tra il 1577 e il 1579, dedicava al nuovo Viceré di Napoli, Marchese di Montescior, scriveva:

"Il Regno, paragonato ai Regni di Francia e di Spagna, è di piccolo paese, ma per altra qualità non inferiore ad alcuno di essi: anzi, s'egli è lecito di far paragone delle cose minori alle maggiori, è più abbondante e più armato e più ricco di loro. E della sua ricchezza ne fa certissimo giudizio il gran danaro che ne cava il Re, e quello che vi portano ogni anno i forestieri per comprare diverse robbe. Del qual danaro che vi entra, non esce la decima parte: imperò che dai panni fini ai ferri fini infuori i regnicoli non sentano d'altro se non poco mancamento: e quelle due cose ancora in maggior parte le cavano da provincia assai vicina, qual è la Toscana".

Occorre interpretare bene questa ottimistica rappresentazione del Porzio. Nel sedicesimo secolo, e, fino a tutto il secolo decimottavo, l'industria manifatturiera dell'Italia Meridionale non era di molto inferiore a quella dell'Italia Settentrionale e della Toscana; l'agricoltura, più povera di terra fertile nel Sud, era inferiore, ma non in gran misura. Peraltro, la popolazione meridionale era meno intensa nel territorio rispetto a quella settentrionale. Nel 1570, i "fuochi", cioè le famiglie di tutto il Regno, assommavano a 481.521 nel registro della Real Corte, ma di fatto dovevano aggirarsi intorno ai seicentomila. Allora le famiglie erano più numerose, e quelle signorili includevano anche i servi, per cui si può stabilire che la popolazione del Regno di Napoli (esclusa la Sicilia) era formata da circa cinque milioni di abitanti. Abitanti che, però, in massima parte erano più plebe che popolo, per cui i regnicoli "non sentono d'altro se non poco ammancamento". Il "gran danaro che ne cava il Re" andava a finire in Spagna, e questo fiume dai mille rivoli continuò a scorrere per più di due secoli.
A questo dissanguamento, alla pessima amministrazione che angariava e non amministrava, va aggiunto un fenomeno rilevante: quello dell'accentrarsi di tutti i grandi baroni nella capitale. Fu questo un principio politico dei sovrani aragonesi, che mirava a trasformare i piccoli "re territoriali", quali erano i feudatari, in uomini di Corte. Naturalmente, tutte le entrate dei baroni che avevano casa e corte a Napoli erano bruciate nella capitale, e non venivano reinvestite nelle terre d'origine, che restavano sempre più impoverite.
Dagli Aragonesi in poi, Napoli crebbe come città fino a trovare nel 1700 paragone solo con Parigi e con Londra. Quando perderà il ruolo di capitale del Regno, Napoli comincerà a percorrere la china del regresso economico e sociale. Ma ancora nel primo decennio si questo secolo era la città italiana più popolata.
Nel 1700 la rinascita del Regno con Carlo III di Borbone, che in pochi anni fece molto bene il mestiere di re e di amministratore, lasciò sperare qualche cosa di meglio per l'avvenire; ma le guerre napoleoniche e, successivamente, i moti rivoluzionari per l'Unità tennero il Regno su un terreno di provvisorietà, di precarietà, fino a che il saluto del re di Piemonte e di Garibaldi sul ponte di Teano congiunse le due Italie, divise da quattordici secoli.
Ha scritto il Florita, in un saggio per altri versi discutibile, che nel 1860 il Meridione aveva le sue industrie e i suoi commerci non molto inferiori, salvo qualche rara eccezione, a quelli dell'Italia Settentrionale. Industria e commercio decaddero quando furono abbattute le barriere doganali protettive e quando si scontrarono due differenti tipi d'imprenditorialità: quella a contatto con popoli progrediti dell'Europa, e l'altra, che distava di più dai poli di consumo e di produzione europea e che aveva di fronte un mare con Paesi rivieraschi in continua decadenza. E' bene ricordare, però, che molte iniziative industriali e artigianali del Regno di Napoli vanno ascritte non all'intrapresa dei sudditi, ma dei sovrani: basti ricordare la ceramica di Capodimonte, istituita da Carlo II, o le manifatture a sistema comunitario, fondate a San Leucio da Ferdinando II.
I centri industriali del Sud erano sorti nelle valli del Liri, dell'Irno e del Sabato. Nel circondario di Sora sorgevano quattro cartiere. Cantieri navali a Napoli e in Puglia. Commercio di prodotti manifatturieri, e poi di vino, olio, frutta, frumento da tutti i porti, in particolare da quelli campani, siciliani e pugliesi. Nella prima metà dell'Ottocento, la Borsa di Napoli era una delle più attive e importanti d'Europa. La conquista piemontese non mise però fine a tutto questo: diede una spallata a un sistema che già presentava profonde crepe, e il cui ciclo regressivo era già da tempo iniziato. Con l'Unità, incominciò la nuova fase, protrattasi fino ai giorni nostri. E questa è storia, è cronaca sotto gli occhi di tutti.


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