Il Sud nella narrativa




Anita Chemin Palma



Alla fine della guerra iniziò, densa di sollecitazioni culturali e di promesse, l'intensa ed entusiasta stagione letteraria che si sviluppò poi fino alla metà circa degli anni '50. Definirla "la" stagione del neorealismo sarebbe riduttivo; anche se tanta parte il neorealismo ebbe nel determinare i caratteri dell'attività letteraria di quegli anni, diverso fu per i diversi autori l'approccio a tematiche che pure in un modo o nell'altro potevano ricondursi nell'alveo realista: dalla trasfigurazione lirica, più surrealista che realista, della prosa di Vittorini, al realismo tanto crudo quanto ambiguo di Pavese, dalle distaccate "cronache d'imbrogli" di Moravia, all'epica, lontana nel tempo ma così sofferta nella narrazione, di Jovine. Ancora più riduttivo sarebbe limitare l'importanza del neorealismo al solo ambito culturale: il neorealismo fu qualcosa di più, e qualcosa di meno, probabilmente, di un movimento culturale, fu un'ansia di verità, una tensione collettiva e al tempo stesso disorganica verso un rinnovamento che non poteva non avvenire, e per creare il quale era necessario ripartire da quell'identità nazionale che troppo a lungo era stata stravolta dalla retorica del mito di Roma. Questa pulsione, ingenua, ma certo appassionante, si espresse nella cultura come movimento neorealista parallelamente a come si espresse con il fiorire di moderne forme di organizzazione nell'ambito del sociale e del politico.
Già dopo il 1930 alcuni autori si erano spinti oltre la consuetudine letteraria corrente della prosa d'arte e della figurazione atemporale e astorica della condizione umana sospesa nell'aura poetica lirica e trasfigurante, per avventurarsi nel terreno minato dell'attenzione per l'individuo reale storicamente e socialmente determinato. Anche se il dover necessariamente tenere conto della censura smorzava di per sé le potenzialità sovversive di una tale letteratura, già il non uniformarsi alle verità precostituite dal fascismo e all'edificante oleografia che di sé il regime voleva dare costituiva una seria minaccia per la credibilità dei valori della stirpe italica: è appena il caso di immaginare quanto contrastasse con la sbandierata sanità morale della borghesia italiana la tarlata immagine che ne rifletteva un'opera come "Gli indifferenti" di Moravia.
Con il disfacimento della dittatura si andavano evidenziando le mistificazioni non solo politiche ma anche culturali, che il fascismo aveva costruito, si scopriva l'arretratezza sociale, la miseria nelle regioni meridionali, il provincialismo culturale della stessa nazione che aveva vagheggiato l'impero, e si facevano inevitabilmente i conti con una cultura che di tutto questo non aveva saputo o potuto essere testimone critico. La polemica non si accanì solo, come era prevedibile e doveroso, contro gli intellettuali più profondamente compromessi con il regime, ma anche contro quegli intellettuali che avevano trovato rifugio dal totalitarismo nell'esclusiva ed incontaminata cura delle lettere, e che di questa non collaborazione avevano fatto, più o meno coscientemente e volontariamente, una via di disimpegno e forse anche di opposizione rispetto al regime. Si pensi al movimento che si era raccolto attorno alla rivista "La Ronda", vero cenacolo di cultori del rigore formale e della raffinatezza linguistica, o al mensile "Solaria", certo più aggiornato e più aperto alle sollecitazioni provenienti dalla cultura internazionale, ma pur sempre e solo rivista letteraria. Questa "assenza come sopravvivenza culturale", considerata polemicamente anche rispetto al contesto storico in cui si era sviluppata, sembrava del tutto insufficiente, come paradigma cui attenersi per il presente, alla generazione intellettuale passata attraverso il trauma bellico. L'urgenza di una cultura "diversa", scevra delle omertà o semplicemente dei silenzi che sembravano aver trascinato nella sconfitta assieme al fascismo tutt' intera una concezione dell'essere intellettuale, è espressa con parole appassionate e lucide da Elio Vittorini nelle pagine del primo numero di "Politecnico", la rivista che fu prestigioso e vivacissimo centro di dibattito in quegli anni.
"Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.
La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell'impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? lo mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?" (POLITECNICO, anno I, numero 1).
La poetica del neorealismo sembrò fornire una risposta adeguata e come "padri fondatori" si guardò a quegli scrittori che già sotto il fascismo avevano usato degli spazi di libertà concessi per addentrarsi nella rappresentazione disincantata della realtà. Mentre si scoprivano gli oppositori politici, esiliati, o morti, o assassinati dai fascisti, attraverso le loro opere che via via rivedevano la luce, similmente si ritornò ai realisti degli anni '30, alcuni dei quali ancora attivi e operanti nell'ambito del movimento neorealista: Alvaro, Bernari, Moravia il primo Vittorini.
Si ripartiva dalla situazione diretta, per analizzarla in modo quanto più possibile aderente alla struttura stessa del reale, servendosi di un linguaggio altrettanto immediato e aderente al lessico corrente del potenziale, vasto pubblico della nuova letteratura. Con un tentativo estremamente generoso, ma forse troppo fondato sulla mera volontà e troppo poco meditato, si cercava di annullare il divario secolare tra cultura e masse e di fare dell'umbratile figura dell'intellettuale italiano un intellettuale sensibile agli stimoli provenienti dal corpo sociale e come tale capace di intervenire nei conflitti che nel corpo sociale stesso si producevano. Se è indubbia l'importanza che una simile posizione ha avuto, ed ha tuttora, nello svolgersi dell'attività letteraria italiana per la chiarezza con cui pone la questione del valore di una cultura in quanto partecipe, e coscientemente partecipe, della vita del popolo di cui deve essere espressione attraverso la mediazione irrinunciabile dell'artista, un grosso limite del movimento neorealista fu tuttavia nel suo essere un incontro dei diversi retroterra culturali e personali dei diversi autori senza che in questa convergenza si fosse esercitata a sufficienza l'analisi critica delle diverse posizioni. In altri termini, se il neorealismo fu programmaticamente in rottura con il passato, non lo fu sempre altrettanto rispetto alla pratica degli autori che in concreto furono identificati come neorealisti, e che pur nel contesto della nuova poetica non potevano liberarsi di una formazione culturale ed estetica avvenuta sotto canoni ben diversi: si pensi all'urgente autobiografismo esistenziale di Pavese, o al memorialismo delle prime prove di Jovine. L'aver sottovalutato la necessità di affrontare e di rapportarsi anche a questi aspetti dell'attività letteraria e l'avervi sovrapposto semplicemente una serie di esigenze ben identificate ma scarsamente approfondite ha forse determinato, insieme con la mutata situazione ambientale, il successivo e troppo rapido involversi della poetica neorealista nelle varie forme del bozzetto cronachistico, del ritorno di fiamma intimista, o della dissoluzione del linguaggio. Quanto peso abbiano gli antecedenti culturali di ciascuno, si vedrà dopo l'esaurirsi della parabola neorealista, quando più marcate risulteranno le differenze tra le sensibilità dei singoli autori al di là delle molte somiglianze formali. Tra i risultati migliori dell'attività di scrittori neorealisti, copiosa è la produzione di autori meridionali o di autori non meridionali ma in opere di ambiente o di argomento attinente alla realtà meridionale, ed è facile immaginarne le ragioni: da un lato, il divario persistente, e anzi accresciuto, tra le due Italie emerge nel dopoguerra come ennesima vistosa offesa alle genti del Sud oltre alla più grande offesa al Paese tutto da parte del fascismo, dall'altro lo stretto legame che anche durante la dittatura gli autori meridionali avevano mantenuto con la propria realtà d'origine consente di trovare nelle loro opere dei punti di riferimento per la nuova letteratura. Esempi pregnanti sono Corrado Alvaro, Ignazio Silone, e Carlo Bernari. Comune ad Alvaro e a Silone è l'interesse specifico per la società rurale del Sud, ma diversa tra i due è la messa a fuoco, come appare evidente dal confronto tra due opere, "Gente in Aspromonte" di Alvaro e "Fontamara" di Silone, uscite quasi contemporaneamente. Per il calabrese Alvaro, cresciuto nell'humus letterario del realismo magico teorizzato da Bontempelli, la terra d'origine è immersa in una lontananza lirico-evocativa e i suoi pastori hanno la dimensione sculturale e mitica delle montagne senza tempo: "Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati a una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte con il siero verdastro rinforzato d'erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande dei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso e, buttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal siero, fumanti screziate di bianco purissimo come è il latte sul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d'ulivo la figurina da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all'albero dolce della pianura." (C. ALVARO, GENTE IN ASPROMONTE, 1930).
Altra è l'ispirazione di Silone, maturata attraverso le sue sofferte esperienze politiche ed esistenziali: la simpatia, la risonanza si potrebbe dire, tra autore e soggetti è più piena, carica di un risentimento molto politico per l'ingiustizia sociale, e di una partecipazione molto umana alle sofferenze dei diseredati del Sud:
"In quell'epoca, in maggioranza, noi andavamo a lavorare a giornata a Fucino per la mietitura. Dovevamo alzarci la mattina prima dell'alba e trovarci a Fossa, sulla piazza del mercato, prima che nascesse il sole, ad attendervi che qualcuno ci chiamasse. Non è a dire quanta fosse la nostra mortificazione. Un tempo, solo i cafoni più poveri erano costretti a offrirsi in quel modo, sulla piazza; ma erano sopravvenuti brutti tempi per tutti. La poca terra di noi piccoli proprietari era vincolata da ipoteche e rendeva appena per pagare gli interessi dei debiti: per tirare innanzi dovevamo anche noi andare a giornata. La maggiore offerta di braccia sulla piazza era stata subito sfruttata dai proprietari e dai grossi fittavoli per diminuire i salari, ma, per quanto bassi, vi erano sempre dei cafoni costretti ad accettarli per fame; e taluni arrivavano al punto di offrirsi senza chiedere che fosse fissato il salario in anticipo, disposti ad accettare qualunque miseria. Dalla piazza di Fossa a Fucino, secondo gli appezzamenti, noi dovevamo percorrere ancora da dieci a quindici chilometri, che si aggiungevano ai quattro chilometri già fatti per arrivare a Fossa. E lo stesso tragitto dovevamo ripetere ogni sera per tornare a casa. Alla sera mi sentivo percíò stanco e avvilito come una bestia. "Domani non mi alzo", dicevo a mia moglie. "Matalè, non mi reggo più in piedi, lasciami morire."
Ma, alle tre del mattino, appena cantava il gallo, svegliavo mio figlio, bevevamo un bicchiere di vino e ci mettevamo per strada dietro l'asino." (I. SILONE, FONTAMARA, 1933).
Radicalmente diverso l'ambiente di "Tre operai" del napoletano Carlo Bernari, com'è evidente dal titolo stesso. "Tre operai" fu un tentativo coraggioso di affrontare la tematica inedita della condizione operaia attraverso una soluzione linguistica talora approssimata ma, anch'essa, conforme ad esigenze di obiettività e di attualità:
"Il cielo si oscura dietro la fabbrica, che appare ancora più triste per le mura annerite dal fumo. Il vociare ora più lento, col calar della sera si spegne come nell'acqua e sopravviene il silenzio. I pochi rimasti si sono seduti a terra; e sotto il cielo lucido d'estate paion distesi sulla spiaggia a prendere il fresco davanti al ponte con le sue luci gialle che ballano nel mare, vinti da un senso di sfinita pace. Anche Marco resta tra quella gente fino a sera inoltrata, nella speranza che i carabinieri, col sopraggiungere della notte, allentino la sorveglianza. Ma quando vede che le ore passano e la guardia non si riduce, capisce che ogni attesa è vana; e, stordito com'è, decide di tornare a casa." (C. BERNARI, TRE OPERAI, 1934).
Su un piano diverso, di ironia urticante sorretta da una prospettiva di moralismo laico, si svolge l'opera di Vitaliano Brancati: nella satira del provincialismo comportamentale dei suoi personaggi, e innanzitutto del gallismo come esistenza immaginaria e miliantata anziché vissuta realmente, vi è soprattutto la smitizzazione non priva di risentimento di uno stile di vita vacuo e parolaio che non era stato estraneo ai modelli culturali del fascismo e al fondo del quale appaiono, a sprazzi, la miseria e il niente morale:
"Ora egli aveva una grande stanza tutta per sé, nella quale poteva dormire in qualsivoglia positura ... ( )... Qui venivano gli amici, e anch'essi si buttavano, o, come diceva Muscarà, s'abbiavanu e sdavacàvunu, sui pagliericci e le ciambelle di cuoio, riempiendo presto la camera di un tale fumo di sigaretta che, dal balcone socchiuso, i passanti vedevano uscire una sorta di lenzuolo grigio palpitante nell'aria. Fumo, caffè e liquori. Le sorelle di Giovanni, tenute lontane dalla camera, credevano che i tre amici parlassero di affari ... Invece mugolavano sul piacere che dà la donna." (V. BRANCATI, DON GIOVANNI IN SICILIA, 1943).
Del '41 è "Conversazione in Sicilia" di Elio Vittorini. L'importanza di questa opera nel panorama letterario italiano fu compresa subito sia dal pubblico, presso il quale suscitò vasta impressione, sia dal regime, che ne osteggiò la pubblicazione a puntate su "Letteratura": intrisa degli umori e delle inquietudini che attraversavano le coscienze più vive in quello scorcio di tempo tra la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale, è forse l'esempio più eclatante di quel realismo ambiguo di cui si è già parlato, in bilico tra la penetrazione in quelle inquietudini, molto concrete e storicamente determinate, per la definizione degli "altri doveri" che si sentivano come una necessità, e il retroterra solariano che porta a trasferire la narrazione in un ambito allusivo, come emblema di una condizione esistenziale definita in sé al di là delle circostanze e del tempo. Un equilibrio che Vittorini raggiunge, spesso, con risultati avvincenti:
"Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch'erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza.
Poi il Gran Lombardo raccontò di sé, veniva da Messina dove si era fatto visitare da uno specialista per una sua speciale malattia dei reni, e tornava a casa, a Leonforte, era di Leonforte, su nella Vai Demona tra Enna e Nicosia, era un padrone di terre con tre belle figlie femmine, così disse, tre belle figlie femmine, e aveva un cavallo sul quale andava perle sue terre, e allora credeva, tanto quel cavallo era alto e fiero, allora credeva di essere un re, ma non gli pareva che tutto fosse lì, credersi un re quando montava a cavallo, e avrebbe voluto acquistare un'altra cognizione, così disse, acquistare un'altra cognizione, e sentirsi diverso, con qualcosa di nuovo nell'anima, avrebbe dato tutto quello che possedeva, e il cavallo anche, le terre, pur di sentirsi più in pace con gli uomini come uno, così disse, come uno che non ha nulla da rimproverarsi.
- "Non perché io abbia qualcosa di particolare da rimproverarmi" disse. "Nient'affatto. E nemmeno parlo in senso di sacrestia ... Ma non mi sembra di essere in pace con gli uomini" -. Avrebbe voluto avere una coscienza fresca, così disse, fresca, e che gli si chiedesse di compiere altri doveri, non i soliti, altri, dei nuovi doveri e più alti, verso gli uomini, perché a compiere i soliti non c'era soddisfazione e si restava come se non si fosse fatto nulla, scontenti di sé, delusi.
- "Credo che l'uomo sia maturo per altro", disse. "Non soltanto per non rubare, non uccidere, eccetera, e per essere buon cittadino ... Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri. E' questo che si sente, io credo, la mancanza di altri doveri, altre cose da compiere ... Cose da fare per la nostra coscienza in senso nuovo." -.
(E. VITTORINI, CONVERSAZIONE IN SICILIA, 1941).
Notevole successo ebbe fin dal suo primo apparire il famosissimo "Cristo si e fermato ad Eboli" di Carlo Levi, che contribuì non poco al rinnovarsi dell'attenzione per il Sud cui si assisté nel dopoguerra. Lo si può definire il racconto sul filo della memoria di un confinato politico in un paesino del Sud, intercalato da riflessioni politiche, storiche o più genericamente sociologiche su una civiltà e una cultura scoperte durante quella esperienza. L'immagine che ne esce è quella molto inafferrabile di un mondo arcaico, chiuso nella sua immobilità, del tutto altro rispetto al Nord immerso nel procedere della storia. Se da una lato questa analisi trova un limite nella mitizzazione, piuttosto astratta, di una tale arcaicità e dei suoi valori, dall'altro l'importanza del libro sta nel suo essere un documento "di prima mano" su una realtà umana e culturale assai complessa al di là delle sue forme primitive e rozze.
"... - "Noi non siamo cristiani" essi dicono "Cristo si è fermato ad Eboli" ... ( ) ... Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. ( ) ... Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.
Perciò essi, com'è giusto, non si rendono affatto conto di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma. Non importa ad essi di sapere quali siano le opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiù: ma li guardano benigni, e li considerano come propri fratelli, perché sono anch'essi, per motivi misteriosi, vittime del loro stesso destino. ... ( )...Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l'uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa." (C. LEVI, CRISTO SI E' FERMATO AD EBOLI, 1945).
Il tema del Sud non è frequente nella narrazione di Cesare Pavese: un'altra campagna, le Langhe, e altri contadini occupano il centro della sua poetica. Pavese si rapporta all'ambiente meridionale in uno dei due racconti lunghi che costituiscono il libro "Prima che il gallo canti", "II carcere", nato dall'esperienza del suo confino politico a Brancaleone Calabro. Il titolo non si riferisce tanto alla pena del condannato, quanto più emblematicamente alla condizione del protagonista, un intellettuale chiuso nella propria "mania di solitudine", nella propria sostanziale incapacità di comunicazione, nel proprio disadattamento esistenziale, attorno al quale ruotano, familiari e impenetrabili come i miti che accompagnano la vita dell'uomo, le figure dei paesani. Il richiamo del sesso, ancora lanciata da un'incomunicabilità ad un'altra, si colora qui di una sfumatura terrigna e selvaggia, suggerita dall'ambiente meridionale, ma non molto diversa, in realtà, dalla sensibilità rancorosa con cui Pavese ha affrontato altrove la medesima tematica. In sostanza anche qui Pavese esprime innanzitutto se stesso e la propria drammatica autobiografia interiore, anche se in modi chiaramente influenzati dal realismo. L'essenzialità e la scioltezza dei dialoghi e della prosa risentono, come e più che in Vittorini, dell'interesse per la vitale letteratura americana contemporanea:
"Stefano era stupito di tanta uniformità in quell'esistenza così strana. L'immobile estate era trascorsa in un lento silenzio, come un solo pomeriggio trasognato. Di tanti visi, di tanti pensieri, di tanta angoscia e tanta pace, non restavano che vaghi increspamenti, come i riflessi di un catino d'acqua contro il soffitto. E anche l'attutita campagna, dai pochi cespugli carnosi, dai tronchi e dalle rocce scabre, scolorita dal mare come una parete rosa, era stata breve e irreale come quel viso d'Elena sbarrato dai vetri. L'illusione e il sentore di tutta l'estate erano entrati quietamente nel sangue e nella stanza di Stefano, come vi era entrata Concia senza che i suoi piedi bruni varcassero la soglia.
Nemmeno Giannino era tra i carcerieri, ma piuttosto un compagno, che sapeva tacere, e Stefano amava restare solo a contemplare le cose non dette tra loro. La presenza di Giannino aveva di singolare che faceva ogni volta trasalire come una pacata fantasticheria. In questo somigliava agii incontri che si fanno per strada e che un'immobile atmosfera poi suggella nel ricordo.
…( ) ... Stefano da dietro il ventaglio delle carte studiava le facce dei giovani, che avevano smesso di parlare. Qualcuno di loro era nato lassù. Le famiglie di tutti scendevano di lassù. Quegli occhi vividi e cigliati, la fosca magrezza di qualcuno, parevano rianimarsi in tutte le brame sofferte in quella tana e in quel carcere solitario e isolato nel cielo. Il loro sguardo e il sorriso sollecito pareva io slargo di una finestretta.
- "Mi è piaciuto il paese" disse Stefano, giocando una carta. "Somiglia ai castelli che sovrastano ai nostri"
- "Ci abitereste, ingegnere?" disse il giovane bruno sorridendo.
- "Si vive dappertutto, anche in prigione" osservò Fenoaltea.
- "Lì starei bene con le capre" disse Stefano.
Ecco la pena che aveva nel cuore. La sua ragazza era Concia, l'amante di un sudicio vecchio e la libidine dei ragazzini. Ma l'avrebbe voluta diversa? Concia veniva da luoghi anche più rintanati e solitari che il paese superiore. Ieri, contemplando un balcone dalle latte di gerani, Stefano gliel'aveva dedicato respirando voluttuosamente l'aria lucida e forte che gli ricordava quell'elastico passo danzante. Persino le sudicie stanze basse dalle madie secolari festonate di carta rossa o verde, e dagli scrocchiolii del tarlo, giuncate di pannocchie e ramulivi come stalle, supponevano il suo viso caprino e la sua fronte bassa, e una torva e secolare intimità."
(C. PAVESE, PRIMA CHE IL GALLO CANTI, 1949).

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