§ Itinerari salentini

Otranto come




Romana Turchini



Poco lontano da Otranto, dalla parte di tramontana, scrive Giuseppe Castiglione (Al rinnegato salentino, ossia I martiri d'Otranto, racconto storico del secolo XV", edito recentemente a cura di Antonio Mangione), "la natura ha scavato il bacino del Lago Lìmini, che vien considerato dagli Otrantini qual fonte perenne di ricchezza per l'abbondante pesca delle anguille, che vivono nelle sue acque. Le sue rive sono folte di vepri, di spinosi macchioni e di impenetrabili roveti, e qualche quercia secolare sorge solitaria in quella sterile landa, ricovero di lupi, di volpi e dell'irsuto cinghiale. Il suolo è frastagliato in tutti i sensi da stretti e tortuosi canali, che versano nel gran bacino le piogge autunnali, e da parecchi ristagni profondi quanto basta per contenere una acqua fetida e limacciosa a dispetto de' calori estivi. I soli cacciatori turbano il silenzio di quel luogo selvaggio, o tendendo insidie ai numerosi augelli palustri che svolazzano sulle superficie di quelle acque, o snidando la timida lepre, o slanciando il robusto ed intrepido molosso contro il fiero cinghiale, che spesso per salvarsi fugge dai tentati triboli, (1) e sprofonda nella melma di quel suolo ingannatore".
Nessun sentiero battuto, aggiunge Castiglione, schiude il passaggio da un luogo all'altro, ma solo si vedono alcuni viottoli, cui i folti macchioni servono di volta impenetrabile alla luce, noti solo ai cacciatori e ai pescatori del paese. Qui, l'invasore turco dispone le sue truppe in agguato: le spalle difese dal lago, e la fronte dagli alberi e dalle fratte. "Ed incoraggia i suoi colle rapide curve, che descrive in aria colla nuda scimitarra, quasi volesse rinvigorire il suo braccio. Egli era certo d'essere stato scoperto da qualche banda di scorridori, che battevano le campagne vicine ad Otranto nel sospetto in cui vivevasi del prossimo arrivo de' Turchi".
Stava per cadere Otranto. Avrebbero vissuto una storia irripetibile, le sue pietre, "pietre provenienti dall'entroterra", che furono come le tende di un popolo nomade, che si alzano e si ripiegano a ogni spostamento. Otranto è rimasta, però, una città lagunare mancata. Non come si può intendere Venezia, con le vene nei canali e nelle calli. Come Chioggia, ecco: o come Burano, Torcello: anche queste tormentate dalle incursioni barbaresche, di barbari provenienti da terre germaniche e panslave. L'espansione urbanistica Otranto ha preferito svilupparla senza la "direttrice" d'obbligo che ha cambiato il volto di tante altre città-gioiello negli ultimi trent'anni. Così è rimasta lontana dagli specchi di acqua dolce (quelli dei "laghi" Alimini, appunto) che protessero, alle spalle, i suoi invasori. Né maggior fortuna poté avere come città fluviale: un piccolo corso d'acqua la sfiora presso la torre litoranea si Sant'Andrea (dalla quale prende il nome); un altro è in corrispondenza della costa della masseria Specchiulla: le sue sorgenti sgorgano quasi a livello del mare, sul litorale sabbioso; il "vero" fiume, l'Idro, che dà il nome a una valle e che si calcola abbia una portata media di seicento litri al secondo, ha anch'esso breve vita: catturato dal mare, confonde le sue acque con quelle adriatiche, rotte anche queste da decine di polle naturali.
Le origini fisiche dell'Idro si hanno nelle colline di Giurdignano e di Uggiano Ia Chiesa. Quelle leggendarie risalgono al Sacro Romano Impero. Si narra che Carlo Magno (che in realtà non mise mai piede nella Penisola Salentina) esasperato per l'aridità di questa terra, inferse alla roccia un colpo di spada e come per miracolo l'acqua sgorgò, limpida e abbondante. Tre chilometri di percorso: la valle, scriveva Raffaele Congedo, è una formazione dell'estensione di alcune centinaia di ettari che "a guisa di anfiteatro" circondano, abbracciandolo, l'intero abitato. "Raggiunge in alcuni tratti la larghezza di un chilometro; per uno sviluppo di cinque chilometri, appare profondamente incisa alla base, tanto da assumere l'aspetto di una gola appenninica. E' evidente che, dal punto di vista geologico, essa rappresenta l'antico alveo di un fiume sprofondato nel carsismo sottostante".
Tra i primi a visitarla scientificamente, Cosimo De Giorgi, che rimase "colpito dall'aspetto particolarmente rigoglioso e lussureggiante della vegetazione". Era il 1879. Infuriava la malaria che, come scrisse lo stesso De Giorgi, "distruggeva quella popolazione, la rendeva inerte, poco resistente al lavoro ed alle intemperie, amica più del becchino che del medico e del farmacista". Eppure, malgrado l'epidemia, nella valle dell'Idro "la flora spontanea e quella coltivata erano oltre ogni credere lussureggianti per la fertilità immensa del terreno, e i prodotti agrari ad esuberanza remunerativi ( ... ). Le patate rendevano settanta volte il loro peso, i cereali più che in ogni altro posto della Provincia; i noci, i fichi, gli albicocchi, i ciliegi e le viti crescevano rigogliosi, mentre l'ulivo coronava il dorso delle colline" (2).
E dentro la valle, quasi scavati in serie, pozzi e pozzi, antichi e recenti: due colonne di tufi, la trozzella pencolante, l'acqua a soli tre o quattro metri di profondità: polle a centinaia, quasi a punteggiare il gran lago sotterraneo formato dallo sprofondamento del fiume vero e proprio, di cui l'attuale Idro è solo una pallida immagine, soffocata dalle erbe spontanee che quasi la nascondono alla gente. Va a morire, l'Idro, nel porto otrantino; nel cuore della città, alla quale non ha potuto dare un'impronta: né un canale, né un'ansa, né un riflesso ritagliato dal cielo.
Il mare di fronte a Otranto è un Adriatico diverso dal resto dell'Adriatico. Repentinamente, i fondali che più su digradavano dolcemente, mostrano dei tagli netti a trenta metri di profondità, e formano un enorme gradino, una specie di "ripa" quadrata, poi rettangolare, priva di appigli, che porta a una base sabbiosa: è lo sperone che, partendo dalla Torre del Serpe, attraversa tutto intero il golfo dell'Orte e culmina alla "Palascia" o Capo d'Otranto. Il verde smeraldo delle acque di riva si trasforma, muta intensità fino a diventare blu di Prussia. Le tempeste, qui, sono improvvise e micidiali. Lungo il litorale, sferzato d'inverno dalle violentissime "bore" provenienti dall'Istria, un tempo si rendeva difficile anche l'attracco delle navi. Alcuni naufragi sono rimasti memorabili nelle memorie storiche. Secondo il Coniger, il 20 gennaio del 1505, "foi tanta tempesta in mare che dallo porto di Manfredonia fino allo porto di Otranto se ruppero cento tra navi et navili". E nelle Cronache del Panettera, (del 1638), citate dal Cota (3), si legge: "A causa di un temporale fu una strage grandissima".
Eppure, malgrado i pericoli, i traffici furono intensissimi. Furono i Veneziani, grandi navigatori, a dare nuovo impulso alle rotte lungo l'Adriatico, con teste
di ponte a Brindisi, a San Cataldo, a Otranto, dove scaricavano legnami, ferro, vetri, zucchero e caricavano vino, olio, botti sulle loro piccole "mezzane" e sulle grandi "marciliane", alcune delle quali raggiungevano una lunghezza di diciassette metri. Testimone della frequenza dei traffici veneziani, nel cuore di Lecce, il "Sedile", adiacente alla Chiesa adorna del Leone di San Marco, luogo anche di convegno dei commercianti veneziani sbarcati a San Cataldo che, nella storica piazza, trattavano i loro scambi commerciali" (4).
Da Strabone apprendiamo che "il viaggio per mare da Taranto a Brindisi è di seicento stadi; da Taranto alla piccola città di Vereto di ottanta stadi; da Leuca alla città di Otranto di centocinquanta; da Otranto a Brindisi di quattrocento ... Altrettanti stadi sono da Otranto all'Isola di Sasona, la quale è posta quasi alla metà del cammino dall'Epiro a Brindisi. Perciò quelli che non possono seguire la via diretta per andare dall'Epiro a Brindisi, volgendo a sinistra dell'Isola di Sasona, approdano ad Otranto, donde poi, ottenendo il vento favorevole, arrivano al porto di Brindisi, e, sbarcati, a piedi vanno a Rudiae, città greca" (5).
L'Isola di Sasona è l'isola di Saseno, prossima alle coste albanesi. Un'isola dirimpettaia, com'è stato scritto. Tant'è che Strabone mette in rilievo la sua importanza nelle rotte degli antichi navigatori e sottolinea la facilità e la frequenza dei rapporti tra popolazioni" rivierasche, poste a così breve distanza. E noto scrive il Congedo (6), che anche oggi gli abitanti di Saseno, dopo giorni di foschia che preludono al vento di scirocco, scorgono a occhio nudo le nostre sponde del basso Adriatico, come noi vediamo le loro. In tali giornate limpide è possibile scorgere da qualsiasi località dell'Adriatico, nel tratto da Brindisi al Capo d'Otranto, il profilo, nettamente stagliato, dei Monti Albanesi, d'inverno ammantati di neve, che raggiungono altezze notevoli con il monte Cika (2.025 metri) e con il monte Kiore (2.018 metri), per degradare verso il mare con il monte San Basilio (839 metri). E' una catena che "si slancia ardita al cielo irta di pinnacoli, tramezzata da valli profonde con pendici scoscese, solcata da burroni, tinta di un colore opalino leggermente traente al violetto" (7). Poi, è possibile scorgere, a destra e a sinistra di questi massicci, altri gruppi orografici: i monti della Chimera e i remoti Acrocerauni, che si spingono verso il mare, in direzione della Puglia, sulla direttrice Capo LinguettaCapo d'Otranto, e sono altrettanto visibili i Monti di Valona, di Butrinco e dell'isola greca di Corfù. Leggermente più a nord, si delinea il profilo di Saseno. Tra le sponde dirimpettaie dell'Adriatico, fino a pochi anni fa, e comunque prima che cortine ideologico-politiche calassero sulla frontiera d'acqua, ininterrotte correnti di traffici: pescatori di Otranto, di Tricase, di Leuca, di San Cataldo, in sole otto ore di navigazione a vela, raggiungevano la riva di Saseno e i banchi pescosissimi di quest'isola, dove si praticava la pesca con il "parangale" a ridosso di baie riparate dai venti. Per contrapposto, i sasinesi accostavano agevolmente alle nostre coste per la pesca delle spugne (mestiere ereditato dai Greci), di cui i fondali adriatici e quelli ionici offrivano una grande abbondanza.
Gli scambi, dunque, furono sempre attivissimi, risalivano a prima del quinto secolo a.C., nella libertà che le vie del mare offrivano agli uomini, allo scambio di civiltà, alla comune prosperità. In epoca medioevale nei porti di Brindisi, di Otranto e di San Cataldo venivano sbarcate merci di ogni sorta: cera, pelli di lepre, semi di lino. Provenivano da Scutari, da Durazzo, da Saseno. La costanza del venti favoriva i collegamenti: lungo le costiere di Castro, di Tricase, di Leuca quando, a mezzogiorno, spira da Sud-Est il vento stagionale (soprattutto d'estate), i pescatori lo accolgono familiarmente. E' un ospite abituale e ha un nome inconfondibile: "E' la Vulona", dicono, riferendosi al vento che giunge dall'Albania ad alleviare la pesantezza dell'aria nei pomeriggi agostani.
Saseno, oggi, è una fortezza militare; grandi radar la spiano, dalla parte della nostra sponda. Il sospetto è subentrato, per ragioni politiche, all'antica amicizia. Le acque adriatiche non uniscono più: semplicemente dividono due popoli che si possono guardare a vista.
Quel che colpisce è la lindura delle case e delle strade. Mi riferisco a Otranto "vecchia", che è poi la più splendida Otranto: quella che si percorre al di là dei potenti muraglioni di difesa. Case e case incastonate l'una nell'altra, sovrapposte, addossate; piccole botteghe artigiane tra una casa e l'altra; strette scale che si inerpicano all'interno di corti, che si aprono con un arco a tutto tondo (e dentro, altre case, altri usci, per uno di quei miracoli dell'urbanistica spontanea che solo nel Salento e nella Puglia si sono verificati senza soluzione di continuità). Chi ha scritto che solo in via Giulia, la prima "rettilinea" in Roma, si cammina come in un "ambiente unico", un interminabile salotto, nel quale strada, case, finestre sono tutta una cosa, una struttura armonica, quale non esiste in alcun'altra parte dei mondo? E allora, che cosa vuoi dire camminare per queste stradine (sembrano tutte in salita; come ad Ostuni, ad esempio, dove si sale anche quando si deve scendere e la città sembra poggiare soltanto su migliaia di gradini: librata, così, nel cielo), e passare da un vicolo all'altro, con uno "svolgimento" che si ripete rinnovandosi, senza sentire fratture o modificazioni? E che significa percepire una specie di vibrante carnalità che la pietra promana, come la gente dalla pelle color del rame, come le parole di una lingua non cantilenata ma densa e corposa, tutta nomi di cose, quasi priva di nomi astratti, com'è nella lingua dei "grichi" di Calimera e di Martano, di Castrignano, di Corigliano, degli altri paesi di Grecìa che vivono alle spalle di Otranto? Sotto una luce luminosa, anche la campagna è un "ambiente unico": ordinati uliveti e vigneti, tra antiche geometrie di pozzi e di palme svettanti. Superstiti palme anche nei "rettifili" contrappuntati di giardini e di rotonde, con il mare a vista. Ultimo ospite, il pino laricio, imbrigliatore di sabbie, muro antivento, emblematico di bonifiche indiscriminate. Dicevamo della malaria che, secondo il De Giorgi, e per nostra memoria, infestava alcune di queste aree.
La si è sconfitta, certamente. Ma a quale prezzo! Prosciugati i grandi pantani costieri, drenate le acque delle paludi, totalmente. Vi atterravano i grandi trampolieri in transito, i migratori non .ancora insidiati da decine di migliaia di doppiette. Da qui all'Acquatina e, su su, verso il territorio di Brindisi, una serie di specchi d'acqua punteggiavano la costa: spesso alimentati da fresche polle che emergevano dal ventre carsico di questa terra. Per distruggere l'anofele, hanno cancellato una geografia di acquitrini, di marane, di paludi, creando al loro posto fasce di terre incolte (cos'altro poteva produrre uno "squilibrio ecologico"?) oggi invase dagli speculatori edili.
Oggi Alimini nasconde altri agguati. Il "ritorno alla campagna", determinato dalla saturazione da stress metropolitano o cittadino o paesano, e dalla necessità di trascorrere le vacanze in ambienti sereni, lontani dalla convulsa
vita che si svolge ormai anche nelle città di mare nel periodo estivo, sta contribuendo alla nascita di un'edilizia sparsa e irregolare, a un'occupazione "abusiva" degli spazi agricoli da parte di troppa gente. Aggirare le leggi sulla edificabilità in aree di campagna è facile. Basta costruire, il resto verrà! Così, l'accerchiamento delle coste (anche se distanziato, a norma di regolamenti) e di acque interne si sta completando. E' cambiata una geografia costiera, sono sorti paesi che neanche le mappe militari (le più dettagliate) contengono. Un coacervo di stili, di forme, di habitat: la promiscuità più sfrenata, frutto di approssimazione culturale, ha preso il posto dell'autenticità architettonico-urbanistica dello "spontaneismo" mediterraneo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: città chiuse da orribili cinture, fasce marine segnate da caotici agglomerati. E il "monstrum" si allarga, irrimediabilmente.


NOTE
1) - E''espressione è manzoniana, ricordata con l'intero motivo della caccia (Adelchi, IV, Coro, w. 43-48: "E dietro a lui la furia/ De' corridor fumanti;/ E lo sbandarsi, e il rapido/ Redir del veltri ansanti;/ E dai tentati triboli/ E''irto cinghiale uscir").
2) - Cosimo De Giorgi, "La provincia di Lecce", Lecce 1882, pag. 278.
3) - G. Cota, E''antico porto di San Cataldo, Lecce 1936.
4) - R. Congedo, Salento scrigno d'acqua, Manduria 1964.
5) - Strabone, De situ Orbis, libro VI.
6) - R. Congedo, cit., pag. 66.
7) - C. De Giorgi, Puglie ed Albania, Firenze 1886.


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