Riflessioni sul barocco




Enzo Panareo



Fu posto l'accento nei decenni scorsi, e dopo l'intuizione è stata ripresa, sul tendenziale panteismo del barocco (1). Infatti, quell'insieme di figurazioni apparentemente accatastate in rigide linee ed in curve sinuose ed elaborate, come fluenti allo stato magmatico attraverso la metafora, la parabola e l'iperbole, la natura espressa nella sua funerea sovrabbondanza e l'animalità mitologica espressa nella vigile vivezza dell'orrido, il senso sfatto dell'eccesso tradotto in norma di vita, il valore del demoniaco come stimolo alla riflessione, anzi alla macerazione interiore, testimoniano della volontà, da parte dell'uomo, anzi dell'epoca nella quale il barocco esplose prepotentemente, di comprendere Iddio nell'infinità delle sue oscure manifestazioni.
Una volontà che, d'altro canto, traspare dalle più lucide ed ardite pagine del Bruno e dello Spinoza, laddove sembra che da un pensiero rigoroso nella sua ricorrente implacabilità si levino guglie di concetti che, arditamente e in parallelo con un'architettura ed una plastica che tentano l'impossibile, tentano, a loro volta, di andare oltre la volta del cielo con l'intenzione di sceverarne gli sconfinati misteri.
Il barocco architettonico e quello plastico, ma anche quello figurativo rivelato da una pittura interessata alla seduzione, avanzano coraggiosamente, sul filo di una storia civile e religiosa che ha finalmente trovato nell'identità delle due posizioni i suoi precisi referenti ideologici, verso il recupero, estremamente interessato nella prospettiva di una normativa filosofica, di tutte le forme e di tutte le figurazioni che il Rinascimento, nella sua pensosa e severa linearità, aveva, in forza della sua ricerca sull'uomo, censurato.
Ad un certo momento, come per una esplosione di amara gaiezza, con il barocco tutto, e magari anche il contrario di tutto, avanza sulla scena del mondo: questo, infatti, diventa una enorme,
sterminata ribalta sulla quale, sostenuti da un cupo salmodiare, mostri, fiere, centauri, sileni, colossi mitologici, uomini con attributi animaleschi, animali con attributi umani, teschi come ammonimento sulla ineluttabilità della morte, fiori, frutta festonata, tutto si muove secondo un ritmo che, in chiave d'ironia, è quello della vita che affannosamente si protende verso l'infinito di sentimenti inattingibili.
E' come una forma di titanismo che tenta, con l'abbagliante farragine dei suoi oggetti, la scalata al cielo. Una scalata che, comunque, deve inevitabilmente passare, per un necessario processo di purificazione, attraverso la discesa agli inferi. Dunque, è anche una forma di disperato romanticismo a farsi strada, che concede all'uomo del Seicento di cercare soluzioni esistenziali che nell'operare architettonico e plastico diventano, in chiave di paradigma, forme di spontanea originalità nella quale l'ardito e l'inedito, ma più il clamoroso, hanno la funzione di reinventare la vita nelle manifestazioni, immaginate, che la realtà può anche non consentire e, senz'altro, non consente.
Sotto questo aspetto, barocco e romanticismo si trovano accomunati da un carattere, che è come un destino, di universale nostalgia.
Nostalgia di che? Di ciò che poteva essere nella vita e che nell'espressione artistica può essere come recupero di tutto quel che all'interno dell'animo esaltato dal misticismo deve tuttavia fermentare come ipotesi. Ciò che conta, allora, nella traduzione in termini architettonici e figurativi, in termini di plastica mediante la quale sembra che l'uomo intenda modellare, con forsennata urgenza, il proprio destino, è una grande capacità simulatoria nella quale, naturalmente, assume importanza il dettaglio, il particolare curioso, capriccioso, abnorme, che resta vivificato da una illusoria regia la quale, a sua volta, s'incarica di determinare, sia pure nella dinamica di una fantasia senza remore, in ogni caso assolutoria, i movimenti della pietra, le pantomime concettuali suggestivamente persuadenti, vertiginosamente monologanti, nel corso delle quali; in sostanza, breve è il passo dalla vita alla morte.
Il barocco come ideologia architettonica ebbe, nei contesti culturali nei quali fiorì, alcuni caratteri comuni i quali, nell'identità dei motivi, tradiscono il tormentato processo del pensiero lungo il quale quell'ideologia si esplicò ed assunse le sue caratteristiche connotazioni. Che, a loro volta, rappresentano, alla luce del sole, quella commossa congerie di fatti e di dati ideologici, antropologici e culturali nel cui vario e mosso intrecciarsi una corrente di pensiero come il barocco diventa fase determinante di un momento storico e, di conseguenza, culturale.
Ci fu chi, accennando alla Chiesa delle Scalze a Lecce, sostenne che "... L'interno di questa chiesetta, come l'interno di quasi tutte le chiese di Lecce, ha lussureggianti altari che irresistibilmente rimandano, pel gusto farraginoso e dorato, a quelli delle chiese dell'America Latina" (2): e, per scongiurare ogni possibile e prevedibile obiezione di latitudini, e, quindi, di diversità anche concettuale, aggiunse "... Una pretesa comune derivazione dal plateresco spagnolo non è la chiave dell'enigma di questo cosiddetto barocco leccese, diverso da quello di ogni altra parte d'Italia".
A Lecce, infatti, più che altrove, il barocco, sul piano architettonico e su quello plastico ha, nell'ambito dell'architettura religiosa soprattutto, motivi che lo apparentano a quello latino-americano (3) dove, in realtà, la valenza architettonica e quella decorativa scaturiscono da un'aspirazione plastica e cromatica che è l'espressione di una civiltà e di un gusto i cui caratteri non sono dissimili da quelli che, sul piano del costume e su quello della cultura, caratterizzarono la vita fastosa e miserabile della città salentina nel tardo Cinquecento e nel Seicento.
Certo, si tratta di due poli culturali, ma soprattutto politici e d'informazione religiosa, quello leccese da una parte e quello latino-americano dall'altra, che traggono linfe vitali da un ceppo comune, che è quello spagnolo, di una Spagna colonizzatrice ed evangelizzatrice la cui letteratura, la letteratura del siglo de oro, fornisce uno dei più fantasmagorici spettacoli della convergenza, mirabile, del pullulare di forme originalissime: Lope de Vega, Cervantes, Gongora, gli aneliti mistici di Santa Teresa e Quevedo. Solo la letteratura inglese, negli stessi anni, può esibire una tale varietà ed originalità di forme! Ma il siglo de oro è anche il secolo dell'oro e, naturalmente, del sangue, che brillano alla luce del sole mediterraneo come brillano alla luce folgorante del sole che invade ed inaridisce le terre dell'America centrale. Un sole che a Lecce come laggiù, nelle lontane terre dei meticci conquistate dagli spagnoli, s'incarica di esaltare i momenti più drammaticamente divertiti incisi sulla pietra tenera e sul legno da artigiani che operavano timorosi dell'inferno e delle sue pene.
C'è una vastissima gamma di rapporti che possono essere individuati tra questo barocco leccese - dal gusto detestabile, come apparve ad alcuni stranieri venuti in visita nel Mezzogiorno dell'Italia nell'Ottocento - e quello latino-americano. Rapporti che rappresentano, sul piano del pensiero, quella identità ideologica che si concretizzò in un comune destino.
Uno di questi rapporti può essere riconosciuto nell'ordine cosiddetto "moltiplicato" nel quale, all'interno del dato strutturale di natura decorativa e plastica, il dettaglio si rinnova su se stesso, generando un incantevole rincorrersi di ritmi plastici. Ne risente, relativamente alla vivezza dei motivi posti in essere, lo spazio urbano che, sull'onda del ritmo rinnovantesi su se stesso, si presenta mosso e come sfumato. Se ne hanno esempi in certi portali di chiese nel Venezuela, nel Perù, in Argentina, nel Messico ed in certi portali bugnati nel l'architettura civile di Lecce. Caratteristico è, altresì, l'ordine "sospeso" nel quale il dato architettonico sulla facciata dell'edificio, quasi sempre di natura religiosa, si evidenzia, per contrasto, con un vuoto sottostante. Il risultato è un senso di levità, nel quale sembra che l'insieme si stacchi dalla terra per intraprendere un suo aereo viaggio. In tal senso si pone la facciata di S. Giovanni Evangelista a Lecce che si raccorda con la severa facciata del Convento dei Tejar a Quito nell'Equador.
Un rapporto ad "architrave greca" è possibile istituire tra la facciata della Cattedrale di S. Agata a Gallipoli, (ma molte altre chiese di Lecce e della provincia risentono di questa caratteristica decorativa), ed il coronamento della facciata di S. Augustin ad Arequipa nel Perù. Ne viene un senso di fasto perché seguendo il ritmo mosso dall'architrave, i motivi decorativi, inevitabili ed estremamente sovrabbondanti, assumono una loro personalità, di sottolineatura del momento architettonico vero e proprio.
Suggestivo nella sua ardita concezione di indispensabile pleonasmo l'ordine "ingabbiato" nel quale il pilastro e la colonna si pongono in un suggestivo rapporto di complementarietà, laddove la colonna, ma può essere anche un dato antropomorfo assunto perse stesso - un reliquiario, per fare un caso, che poi è un caso frequente - si trova ad essere ingabbiata nel pilastro, che assume, in un tal contesto, in una dimensione di tale irrealtà, l'aspetto di struggente retoricità. Esempi di un tale ordine sono presenti a Squinzano, sulla facciata della cattedrale, ma soprattutto a Lecce, nell'angolo della chiesa di S. Croce e negli angoli del delizioso Sedile. In America latina tali dati decorativi sono presenti nel Perù, ad Arequipa, nel Messico, ad AtIatlauhcan, in un convento agostiniano, in Bolivia a Potosi.
Si tratta, evidentemente, di motivi conduttori di un discorso architettonico i cui esponenti fondamentali, in virtù della loro dimensione storica, della collocazione socio-religiosa e della soluzione antropologica, si rivelano come echi portatori di quell'ideologia dell'esasperazione della quale il barocco leccese,
in Italia, ha assunto il significato di paradigma. Si potrebbe fare a questo punto, anche il discorso di un certo virtuosismo, di una certa volontà, cioè, di penetrare a freddo, per la sola strada di una inventiva esercitata, nella duttilità della pietra che agevolmente si presta ad essere modellata, ma pur legittimo, il discorso potrebbe far perdere di vista quella che è la sostanza ideologica dalla quale tali espressioni scaturiscono.
In fondo, che questi dati architettonico-decorativi siano comuni a due mondi tanto lontani, e pur tanto vicini per spirito informatore, quello leccese e quello latino americano - con funzione mediatrice si pone, al centro, la cultura spagnola, con i suoi fasti e con le sue contraddizioni - significa che la civiltà del barocco ebbe, nell'apertura del momento storico oggettivamente considerato, percorsi obbligati lungo i quali realizzò una visione della vita nella quale, quasi programmaticamente, il senso della realtà doveva andare al di là delle verità, false o autentiche che fossero, che all'uomo erano imposte dall'alto, dalla forza di una ideologia nei cui meandri - la situazione culturale in senso pieno - si trovava a serpeggiare il senso di un lussurioso assurdo.


NOTE
1) - L. GIUSSO, Frammenti sul barocco in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 9 Maggio 1954.
2) - M. PRAZ, Il giardino dei sensi. Milano, Mondadori, 1975, al cap. Barocco leccese pagg. 367-375.
3) - E' stato impostato nell'ambito della mostra sul Barocco latino americano anche il discorso del rapporti tra il barocco leccese e quello dei paesi latino-americani. La mostra è stata tenuta nei mesi di Giugno-Luglio 1980 nella sede dell'Istituto italo-latino americano a Roma all'EUR. Successivamente la mostra è stata trasferita a Lecce, nei locali del Museo Provinciale, dal 21 Marzo al 19 Aprile 1981.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000