§ Il corsivo

Serve pił dividere in sillabe?




Donato Moro



In una società dove tutto è segno e semantizzazione, scrivere, sillabando, che essa è plu-ra-li-sta o plu-ra-lis-ta è perfettamente uguale, anzi è perfettamente democratico. In tempi così avanzati le regole della grammatica, occorre convenirne, vanno controcorrente, uno degli ultimi retaggi di epoche autoritarie ed oppressive da cancellare dalla mente e dal cuore senza nostalgie. E vero, non siamo ancora perfettamente maturi per la soluzione finale, ma presto ci arriveremo. Occorre eliminare ancora qualche interesse corporativo, come, ad esempio, quello che a tutt'oggi divide in due, ed insanabilmente, l'Italia, fra i ventotto milioni di cittadini che preferiscono vedere stampato il segno dell'elisione a fine di rigo, del tipo "l' /amore" o "l' /Europa", egli altri ventotto, reazionari per eccellenza, che vogliono leggere "lo/ amore" o "della/ Europa"; perfida disputa, neocapitalistica e borghese, che spacca le masse e le distrae da aspirazioni più nobili ed omogenee come quella di poter usare l'auto senza oneri di benzina. Ma si sa che la dialettica della storia ha un cammino illuminato. Per una superiore sintesi il tipografo è già pronto ad alternare "l' / uscio" a "lo/ architrave", "l' /asino" a "Io/ ornitorinco". Del resto, che senso avrebbe oggi, che la vita si è allungata e c'è sempre rimedio ad ogni raffreddore, se inducessimo gli Italiani a lacerarsi fra loro, facendo pretendere, dagli uni, cappelli con falda munita di canaletto di scolo e dagli altri, invece, cappelli con sola falda? Ben altre sono le mete cui bisogna tendere. Cosa volete che interessi al telespettatore se il 23 novembre 1980 il meridione d'Italia sia stato devastato da un "sismo" o se quella devastazione sia stata generata da un "sisma"? Tanto il terremoto c'è stato comunque ed ha apportato i lutti e i disastri che tutti conosciamo. L'essenziale è che i cittadini di questo Stato così illuminato e progressivo sappiano distinguere fra l'evento e la parola, fra l'evento e il segno. L'evento, si sa, non è mai perfettamente democratico ed umano, non si verifica mai dietro espressa volontà di una qualificata maggioranza e neppure di un unico individuo. La parola, invece (ed ancor meglio il segno, si capisce), te la puoi comporre, scomporre, aggregare e fraseggiare a piacimento. Essa è sempre un prodotto sociale - di maggioranza o minoranza o di singolo che sia, non importa e perciò è sempre in sé pregnante di nuovi avanzamenti civili; lasciata vivere in piena libertà, può affermarsi, trascinare, modificare. Non per nulla qualche filosofo asserisce che oggi mai la parola ed il messaggio ci plasmano e ci conducono. A noi sta l'accettare questo destino felice ed egalitario nel novello paese delle meraviglie segni che, senza bene né male, senza merito né colpa. Il segno ci vive, quale che sia e come che si presenti. Dal momento che si manifesta, esso è un dato, imponente e indiscutibile come le piramidi d'Egitto. Ed esso ci deve vivere, per più beati avanzamenti civili.
Oggi son solitari il telecronista ed il telegiornale che parlano di "sismo"; ma chi ci dice che domani o dopodomani non possano moltiplicarsi geneticamente nel cranio degli utenti, affermandosi in questa società, aperta alle avventure dello spirito? Già è una realtà che linotipisti e dattilografi, a falangi, rompano le barriere scolastiche per frantumare la parola secondo l'armonia che li governa.
Di fronte a tali tensioni avveniristiche, la scuola, dunque, non regge più, è passatista, nostalgica e reazionaria, con le sue norme, i suoi schemi e i suoi programmi. Non vale nemmeno la pena di prenderla in considerazione. Se sopravvive è ancora un "evento", un "accidente", come il terremoto, contrasta col "segno" dinamico. Non per nulla i legislatori, avendo in animo, come gli adulti odierni seppero fin da' bambini, di compierne una riforma, decisero di lavorare e costruire su trame semiologiche, ed è solo colpa di queste ultime, del loro intrinseco vitale dinamismo, se la riforma, anno per anno, divorò se stessa.
E forse è giunto il momento di dire "basta" ad un problema insolubile e fuorviante, che giova solo a distrarre preziose energie legislative, meglio sfruttabili in altri campi. In una società perennemente in via di sviluppo e libertà come la nostra è ora di proclamare (articolo unico) che l'uomo, dal momento che nasce e in quanto nasce, è già segno e parola in sé perfetti e che, per le interrelazioni necessarie, da sé solo si educa: alle fonti del gatto e del cane, del plurilinguismo familiare, del tic-tac linotipistico, del teleschermo in bianco e nero o a colori, del calcolatore elettronico, che non occorre sapere come funziona, dato che basta solo toccare un tasto. E' uomo contemporaneo, insomma, deve nascere, crescere e morire alla luce di un universo semico, oralvisualtipografico, senza regole e norme (lo psicanalista, infatti, le direbbe frustranti e alienanti). Al cospetto di un tale universo, fargli apprendere quell'altro delineato da Dante sarebbe come ingannarlo, sradicandolo dal proprio tempo e ricacciandolo in un passato di violenza, barbarie e sfruttamento.
In definitiva, dal momento che oggigiorno ognuno di noi ha degni e rispettabili "codici" (non il "postale" né il "fiscale", si intende), e in sempre degne e rispettabili forme, scambiamoci alla pari forme e codici: val più della gram-ma-ti-ca (e perché non gra-mma-ti-ca? ).
La comunicazione in anomia è flusso continuo, è pluridimensionale, è il punto di coagulo per la solidarietà nazionale, è la vita reale; la scuola è intermittente, curriculare (ohimé!), sillabante, è la morte di ogni impulso libero. Oggi ha valore i gesto. Il messaggio, anche se schizofrenico o scazontico, è sacro ed ha valenze insospettabili. Vivere, dunque, e lasciarsi vivere bisogna, non compitare. Aboliamo la scuola.

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