§ Nostra decadenza quotidiana

La civiltą del buio




Giovanni Arpino



Cosa è venuto a dirci quel sorriso terribile, ferino e divino, degli eroi greci usciti dal mar Jonio ed esposti a Firenze?
Quale mistero si nasconde nei denti d'argento, nelle capigliature, nei riccioli delle barbe, nelle forme che avrebbero messo in ginocchio Donatello o Michelangelo? O sono forse risaliti dalle acque di Capo Riace per scegliere, da noi, una seconda morte, dettata da inquinamenti, corrosioni, furti d'opere d'arte, degrado urbano e murale?
Il Duomo di Milano è chiuso per cinque anni, all'interno del Duomo di Firenze v'è un'armatura per restauri che pare un'officina da "Guerre stellari". La statua equestre di Marc'Aurelio ha lasciato dopo secoli il Campidoglio romano. Il famoso "Testa di ferro" che cavalca l'altrettanto famoso "Caval 'd brons" torinese, dopo il restauro pare un colossale giandujotto. Ovunque i marmi vengono mangiati dallo smog, i palazzi veneziani si sgretolano come vecchi biscotti, l'Acropoli di Atene che ha attraversato millenni di civiltà è ora un corpo butterato e stampellato.
Questo siamo. Al di là di conflitti, di disastri ideologici ed ecologici, oltre le guerriglie e le mostruosità della vita quotidiana, questo siamo: gli affossatori, i becchini immondi di ciò che è stato, e che l'uomo, pur battagliando e scannando, creò. La fenomenale ignoranza del nostro secolo impedisce ad intere moltitudini di gustare un oggetto, un muro, un quadro, un portale, oppure si riversa (accade anche oggi, proprio di fronte ai due eroi greci del V secolo a.C., a Firenze) solo per stimoli immotivati, mondani, sciocchi, incolti. Quando la moda comanda, tutti accorrono, ignorando le ragioni profonde che non dovrebbero derivare solo dalla cultura, ma dalla semplicità dello sguardo, da una umanità che non abita più in noi. E così il gigante di Capo Riace, con il suo gemello, è visto come se fosse un protagonista di concerti "punk", un luogo deputato per Carnevali, musica in piazza, accademie poetiche da spiaggia romana. La torre di Pisa diventa un simbolo carnascialesco. La piazza del Duomo milanese, anziché vestire il lutto, svende risotti domenicali, la basilica di Galla Placidia a Ravenna e il Campo dei miracoli a Pisa vengono "protetti" dagli studi della Nato. Le lunghe decadenze degli imperi furono struggenti, ma anche dotte, anche dolci. La lunga decadenza dell'Europa non è dotta e non risulta addolcita da alcuno zuccherino. Dei grandi monumenti che ci furono padri si è persa la funzione: al massimo sono luoghi dove i cani da salotto alzano la zampa. Nessuno solleva lo sguardo per ammirare e compatire un elmo sbreccato, una spada levata, la groppa di un cavallo vincente. Alle statue vengono rubate sciabole e targhe, ed è emblematico che in una piazza torinese, alla Giustizia, abbiano sottratto la bilancia.
Se l'arte non conserva, non si conserva, non sa conservare, non è arte, ma tentativo di creare piccole novità astruse, passettini di danza più o meno futuribili. Ogni patrimonio abbisogna di un "conservatore del museo". Noi, quello che riusciamo a salvare è perché lo rinchiudiamo in qualche scantinato. Marc'Aurelio non vedrà mai più Roma dall'alto del Campidoglio, e solo copie di cavalli sogguarderanno dall'alto di San Marco la piazza veneziana. Li abbiamo mangiati in pochi anni, li abbiamo avvelenati come topi di fogna, li abbiamo rosicati come criste di formaggio. L'uomo di oggi è certamente padrone del suo mondo, come mai fu, anche se non ha raggiunto e difficilmente raggiungerà quella che Jacques Monod, ne "Il caso e la necessità", definiva etica della conoscenza, un traguardo indispensabile per sopravvivere, non una "idea" ma una morale.
Per queste ragioni, così dolorose e nient'affatto astratte, guardiamo al sorriso d'argento degli eroi greci risaliti dal mare. Forse è l'ultimo ammonimento che ci viene da Paradisi ed Olimpi. Forse costituiscono l'ultimo messaggio delle civiltà che ci partorirono, incaute. Dovremmo sentirci miseri e lebbrosi davanti a loro, e non estasiati da una bellezza che è irraggiungibile, lieta e naturale. A noi lietezza e naturalità sembrano ormai vietate ad ogni semaforo dei nostri scontri.
Un dubbio infernale ci rode nel cuore: l'odio e l'indifferenza che portiamo ai grandi dettati dell'arte antica, le manomissioni che perpetriamo ai suoi danni, le stesse sgangherate festività che le dedichiamo nei nostri assurdi mausolei a scopo di consumo visivo, costituiscono un castigo che la Bellezza ci infligge. Perché un uomo del Ventesimo Secolo dovrebbe poter godere, impunemente, di Piazza San Marco, delle Piramidi, di un Foro romano, delle stesse acque d'Omero, quando non sa costruire che case destinate a sbriciolarsi, asfalti subito marci, macchine che non funzionano mai, ascensori impacciati, grattacieli vivi solo negli incendi, grondaie che non sanno contenere due dita d'acqua?
Noi figli della cosiddetta e straordinaria alta tecnologia, abbiamo perduto la conoscenza e il gusto della piccola tecnologia, quella che inventò e fece il mondo, l'universo intero. Abbiamo allora il diritto di guardare in faccia sia Monna Lisa sia gli eroi del Mar Jonio? E se costoro, prima o poi, e senz'altro prima di disgregarsi, ci fulminassero come la Medusa?

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