§ Dossier terremoto

NIENTE. E COSI' SIA.




Aldo Bello



quegli orologi

Quando saltano gli aghi
dei sismografi,
alle 19,34 di
domenica 23 novembre,
si è oltre il decimo grado
della scala Mercalli.
Si interrompono le linee
elettriche e telefoniche,
si bloccano i treni.

Si fermano gli orologi
dei campanili e delle torri:
alle 19,35.
Il minuto più lungo
della storia del Sud
devasta una geografia e decima
una moltitudine di superstiti
scampati già alle sciagure
tradizionali dei popoli arretrati,
dalla mortalità infantile
alla brucellosi,
dall'emigrazione alla senilità precoce.
Per un interminabile minuto la morte
corre dalla cima delle calanche
ai fondovalle, rompe i muri mastri
di paesi svevi
angioini aragonesi borbonici,
frantuma le case di cartone
dei palazzinari di oggi
(tondini da 8 mm., là dove
ne occorrevano da 12 mm.).
Ho visto più morti nei condomini
degli anni '70 e '80
che in interi quartieri messi su
in secoli di architettura spontanea.
La morte corre e cancella,
fa il suo mestiere con accanita
determinazione, e il segnale
del suo passaggio va lontano,
fa barcollare anche le strade
di Roma, di Torino, di Milano.
Qui, paesi aboliti, tremila persone
sotto le macerie,
poco meno di diecimila feriti.
Fortuna che le case
si erano costruite con i tufi
e con la pietra tenera, dicono.
Se le avessero fatte con la roccia,
poniamo, (come in Friuli),
almeno metà di quei feriti
sarebbero semplicemente morti.
Tufo e argilla,
la pietra serena del Sud,
la malta elastica del Sud:
fragili rifugi mai abbandonati,
solo in Calabria
ci sono i doppioni di paesi,
"le marine" che riprendono i nomi
dei borghi montani.
In alta Basilicata
e in alta Campania la gente
è rimasta dov'era,
e c'è chi dice che era morta
prima ancora del terremoto,
dentro gli scialli neri, come
nei film di Rosi,
dietro le finestre con le imposte
socchiuse, nelle stanze semibuie,
come nei paesaggi di Carlo Levi.
La condanna si era scritta
giorno dopo giorno.
Prima che quegli orologi
si fermassero, altri orologi
(sotterranei tortuosi penetranti,
eppure a modo loro significativi)
avevano interrotto il loro corso.
Abbiamo saputo in seguito
che le vene d'acqua, i capillari
carsici, i fiumastri ipogei
si erano improvvisamente disseccati,
erano scomparsi, avevano
deviato il letto. Pozzi
si erano prosciugati, polle
di superficie non zampillavano più,
fonti erano inaridite.
Mille segni di malessere
aveva dato l'acqua, e nessuno
aveva interpretato il messaggio,
coordinato gli inquietanti indizi.
Così, giunto il momento,
il sisma ha mietuto a piene mani
tra gente senza sospetto,
in paesi senza tempo.


il fronte del rifiuto

Non vogliono usare
la parola "evacuazione".
Sa di guerra, dicono.
Psicologicamente più persuasiva
l'altra parola, "arretramento".
Dà l'idea della provvisorietà:
farsi un poco indietro, in attesa
dello sgombero delle macerie
e della ricostruzione, poi
avanzare e riprender possesso
delle proprie cose.
In Friuli questo discorso
non faceva una grinza. Ma qui
la gente che cos'ha da perdere?
La patria è la casa.
La terra, la mucca, la capra.
La patria sono le "creature".
Chi ha potuto,
i figli li ha mandati a Torino
o a Milano; in Svizzera,
in Germania, in Belgio.
Casa, terra, bestia e figli
sono tutto,
status symbol del clan tribale;
arretrare significa abbandonarli,
forse anche dividersi:
un tradimento.
Studiando il comportamento
di una comunità meridionale,
Banfield ha parlato
di "amoral familism",
attribuendogli tutti gli errori,
tutte le distorsioni, tutte
le regressioni della società
meridionale. Ed è proprio qui
l'abbaglio:
perché non di società si tratta,
ma di comunità cresciute
nell'ambito della "corte"
o del vicolo,
sul principio della comune difesa
e della comune solidarietà,
sul tronco dei vincoli del sangue
e dell'amicizia.
E neanche dopo la decimazione
queste comunità si sono fuse.
Tutt'al più,
sono temporaneamente federate,
e comunque unite
sul fronte del rifiuto: le radici
non si tagliano.
E le radici,
contrariamente a quanto hanno
scritto quelli venuti da fuori,
non sono i beni materiali.
Sono i beni dello spirito:
il culto dei morti e il culto
della tradizione,
il culto della lingua e il culto
dei figli.
C'è una religiosità intensa,
ostinata e impermeabile,
nei comportamenti antropologici
di questa gente; e c'è l'influenza
di una cultura che è antica,
non "vecchia".
Ma - dicono - emigrate le forze
migliori, qui sono rimasti
solo pochi giovani, e molti vecchi.
Proprio costoro - dicono ancora -
rifiutano l'arretramento
e determinano il caos.
E mi viene in mente che l'immagine
della vecchiaia come un male
connesso al peccato
è presente nel mondo greco
e in quello cristiano:
il vaso di Pandora contiene
anche la vecchiezza, e Pandora
fu inviata fra gli uomini per punire
l'empietà di Prometeo.
Che il corpo
"sia abbandonato alla vecchiezza
e alla morte" è, per San Tommaso
(e per gli autori cristiani),
una conseguenza della colpa di Adamo.
Gli opposti temi della rassegnazione
e della ribellione alla vecchiaia
si collegano strettamente.
Il buddhismo insegna ad accettarla.
Il taoismo può essere definito
come una grandiosa tecnica
per il prolungamento
della giovinezza e della vita.
Per Avicenna,
la medicina non è l'arte
di assicurare la longevità.
Rimanere giovani è una delle promesse
dell'alchimia e della magia.
E la promessa viene spesso presentata
(fino al "Faust" di Goethe
e al "Dorian Gray" di Oscar Wilde)
come legata a un patto con il demonio
o con le forze del male.
Solo con l'età moderna si ha
una rivalutazione.
La vecchiezza del mondo,
scrive Francis Bacon, è cosa
da attribuire ai nostri tempi.
"Allo stesso modo che da un vecchio
ci aspettiamo
maggior conoscenza delle cose umane
e maggior maturità di giudizio
che da un giovane,
a causa della sua esperienza
e del maggior numero di cose
che ha visto, così dalla nostra età
dovremmo sperare cose molto
maggiori che dai tempi antichi".
Come Descartes, Bacon colloca
la longevità tra i fini
della filosofia naturale.
E dirà Pascal in una pagina famosa:
gli uomini compiono
un continuo progresso nella misura
in cui l'universo invecchia.
Le pagine sulla longevità
di Condorcet, di Franklin,
di William Godwin, di Arwin,
dei pionieri dei positivismo
della gerontologia,
hanno alle spalle alcuni grandi temi
della cultura moderna. Nascono
su un terreno accidentato
e complicato
nel quale i temi della speranza
si contrappongono e si intrecciano
a quelli (sempre rimasti vivi,
e basti ricordare fra tutti "la vita
più semplice, ma anche priva
di senso" attribuita ai vecchi
da Ippolito Nievo) della decadenza
del singolo e dei gruppi,
di una storia naturale e umana
che fluisce inesorabilmente
verso la consunzione totale.
Come l'olio che brucia
nella lampada.
Che cosa dire, allora,
di fronte alla cultura tramandata
dai vecchi di qui?
Che hanno salvato una civiltà?
Che hanno contribuito a ossificarla,
rendendola inerte?
Che è una speranza
se muore insieme con loro?
Che, al contrario, è una speranza
se la consegneranno, intatta,
ai giovani?
Stanno inchiodati per terra,
attaccati alle loro radici.
Non li smuove il freddo;
mantelli a ruota sotto la neve;
gli sguardi tenacemente fissi
nel breve giro d'orizzonte
delle "loro" cose. Ma infine,
che cosa ha salvato dalla diaspora
intere comunità:
il grande piano "programmato"
(abolizione della civiltà e cultura
contadina e sviluppo della civiltà
e cultura industriale,
in un'ottica progressista che era,
in partenza,
il moderno progetto neocoloniale
basato sull'assistenzialismo
e sul clientelismo); oppure
le infinite, rudimentali tecnologie
del lavoro e dello spirito,
le molteplici risorse
dell'ingegno artigianale
e del mestiere di vivere prodotte
dall'esperienza umana?
E chi vincerà sul terremoto:
uno Stato lontano e intempestivo
o le braccia di questi uomini?
Li chiamano vecchi, questi tronchi
di quercia, nodosi e asciutti,
terragni,
con le mani immense come le mani
dei contadini di Cantatore.
Li chiamano vecchi: e non sanno
che sono solo, e per fortuna,
"antichi".

l'altro terremoto

Una sta affacciata alla finestra.
La sua casa (e tutte le case
che si affacciano sulla strada,
una "calle major" dell'Irpinia)
è tanto inclinata che la finestra
pencola all'altezza di quello
che era stato un primo piano.
La chiamiamo, e temiamo che basti
l'eco a spianare l'intero quartiere,
seppellendo anche noi.
Lei scende per le scale sghembate
e si chiude dietro il portoncino.
Con cura.
- Ma lo sa che può crollare tutto
da un momento all'altro?
- Figlio mio ...
(Avrà avuto ottanta anni, forse più.
Dal volto d'ulivo vengono parole
tenere, cammina tenendomi per mano,
come a voler difendere me
da un pericolo).
- Volevo stare una mezz'ora
affacciata alla finestra.
- La casa cade ...
- Tutto quello che ho è là, mia figlia
è sposata, sta lontana,
non può pensare a me.
Scendiamo lungo la strada,
equidistanti dalle case in bilico.
in piazza, a ridosso
delle mura di un casteIlo-piazzaforte,
una trentina di tende. Uomini e donne
fuori, al bivacco, accanto ai fuochi.
Dentro le tende solo i bambini
e il pane distribuito dai soldati.
Alle tre di notte.
- Quelli mi tengono con loro.
Ci avviciniamo.
- Ma io ogni tanto torno alla finestra,
non ho altro. Se mi danno un pagliaio
sono contenta.
Un'ora dopo,
la radio fa un altro piccolo miracolo.
Quella donna ha una tenda,
un tavolo, una sedia, un fornello,
un bugliolo. Per mettere al sicuro
la sua miseria e la sua solitudine.

Anche l'altra donna sembra
un ulivo secolare. L'ospedale
è crollato, e i medici
si sono portati a spalla malati
e attrezzature, riparandoli in un asilo
infantile. Lei sta in un angolo
con mezza pagnotta in mano
e il cappotto sulle gambe. Abitava
al secondo piano. Una stanza, cucina,
il bagno in uno stanzino. Dopo
"quel minuto", il suo "appartamento"
abbassato all'altezza
di quello che era stato il primo piano,
in bilico sulle macerie, con la gente
che urlava sotto le pietre.
Mi guarda impaurita. Un largo ematoma
sulla fronte e sulla guancia sinistra
che il "vancale" (lo scialle)
non riesce a nascondere.
- Sto bene, sono viva.
Mi traduce il medico, che è del luogo.
Incomprensibili parole per me,
nell'asciutto linguaggio che sembra
riecheggiare il lessico osco-sannita.
Schiva, e quasi infastidita, chiusa
nelle sue verità (e dogmi)
esistenziali:
- Non è vero.
- Non è vero che tua figlia
ti ha buttata giù dalla finestra?
- Mi sono ferita cadendo dalla sedia.
- Non è vero che tua figlia, dopo,
ha dato fuoco alla casa?
- La luce (la lampadina elettrica)
fece una fiamma e si bruciò tutto.
-E dov'è ora tua figlia?
- Dai parenti. Non è vero niente.
La casa è caduta,
e la casa è dei figli.
La ragazza è in osservazione
presso un ospedale psichiatrico,
vittima dell'"altro terremoto",
quello che porta le macerie
dentro l'anima e dentro la testa.
Queste macerie della figlia
e quelle della casa difende
- mentendo - quella donna-ulivo.
E col suo linguaggio millenario,
di graffiti più che suoni,
alza un muro; e scava una tana,
predispone un riparo
alla sua ferina umanità.
Mento agli uomini di legge
che mi chiedono il nome della ragazza.
Dico d'averlo scordato. E giuro
che non lo ricordo più.

Giovane, col bacino schiacciato,
appena strappata alle macerie (era
sotto quattro o cinque metri
di pietre, aveva respirato
a due centimetri da una trave
che "scricchiolava" sempre di più),
sa anche che il suo bambino è salvo.
Sul lettino dell'ospedale gesticola
con gli occhi, li posa su tutto
e su tutti. "Tocca" ogni cosa
con quegli occhi neri neri,
come per impossessarsi di nuovo
delle forme dei colori delle parole
dei gesti. Ride con gli occhi,
battendo le ciglia si riappropria
la vita.
Chiamano il suo pallore
"sindrome da terremoto".
Le vene, compresse dal terriccio
e dai massi, avevano rallentato
il flusso dei sangue. il cuore
aveva pompato a fatica. Ora il sangue
corre libero, e occorre frenarlo un pò,
può sconvolgere valvole e aorte.
Lei non sa, e non chiede perché
tanti lacci emostatici
intorno al petto e alle braccia.
S'incupisce solo quando ricorda.
- Per cinque giorni sotto,
con mio marito accanto.
La morte ha Colpito
solo qualche centimetro più in là.

Aveva detto al marito
di correre correre correre di più.
E quello sfrecciava sull'Autosole
con la "500" che era ormai
casa e tetto, in attesa di una tenda
o di un prefabbricato.
Il Vulture a vista, con le selve
di castagni e, più in alto,
con i faggeti a vista, e poi ancora
i cespugli bassi e torvi delle cime
striate dì neve.
Correre, diceva. E lui correva
e non sapeva perché, pigiava il piede
e volava in discesa, fino a quando
lo investì una lama di vento,
sentì il gelo nel cuore e frenò
disperatamente.
Vent'anni, un bambino appena nato,
raccolta nella lettiga,
appena lasciato il pronto soccorso.
Mio marito deve lavorare - dice -
e va a ottanta chilometri da casa
(ora la casa non c'è più,
abbiamo solo la macchina,
serve a lui e al bambino;
ho pensato: sono di troppo, meglio
lasciar vivere loro).
Dice ancora: non so che ho fatto,
"mi è venuta una cosa in testa"
e gli ho detto: corri, e quando
c'era la discesa
ho aperto io sportello
e mi sono buttata.
Non sono riuscita a morire.
E' così piccola che sembra una bambina.
Che dire a una bambina generosa
e crudele?
"Provatevi a dire agli umili
che questa vita non conta
che il sepolcro avrà la sua Pasqua,
che il meglio non sta nella nostra voglia
e nel nostro diritto di esistere".
Per chi è vissuto fuori del tempo,
escluso dalla storia,
nei suoi dolori muti,
mai chiamato per amore,
forse mai persuaso di sé
e perciò mai incline a una certezza,
cos'è la morte se non il panno nero
che strappa un uomo
all'unica società cui appartiene,
cioè da quella comunione
dei disperati
che i terroni hanno inventato
per essere almeno la comunità
del dolore?
Perciò la morte povera non può avere,
se non in particolari,
accese, coscienze, alcuna privatezza.
E un fatto pubblico, appartiene
a tutti. E' teatro drammatico
per una vita
che è già stata un sepolcro,
che non ha mai potuto fare i conti
con ciò che non si è avverato,
con il vuoto patito,
con l'identità negata.
La morte povera
chiede che sia notata, finalmente:
non foss'altro per i figli.
Perché ereditino almeno una ribellione.

i "napoli"

I vigili del fuoco
arrivati senza nemmeno le corde
("Al ministero
non ce le hanno assegnate");
i soldati, con le vanghe
e i picconi d'ordinanza,
che si rompono e si spuntano
all'impatto con le travi di cemento
(disarmato)
sotto le quali ci sono vivi e morti.
Dunque si scava con le mani.
Il sindaco di un paesino dell'Irpinia
ha ruspato per ore con le unghie:
sotto tonnellate di macerie,
i suoi due figli gemelli.
Ha parlato con essi,
li ha consigliati,
ne ha sentito i gemiti
sempre più fiochi.
Poi, il silenzio.
Allora si è gettato
su quella montagna omicida di detriti,
con le braccia aperte, come in croce.
Lo abbiamo lasciato piangere, solo,
nell'ultimo riverbero del tramonto,
con il vento teso che fa,
straordinariamente,
limpido il paesaggio
e chiaro l'orizzonte.
Più in là, il corpo appena recuperato
di una persona (un uomo? una donna?),
ancora rannicchiato,
una patina di terra grigia
impasta la pelle e i capelli,
e sugli occhi serrati per sempre
due grumi più scuri, e nei pugni
disperatamente chiusi
stringe argilla renosa:
come i morti di Pompei o di Ercolano,
come quei corpi fissati dalla lava
nell'ultimo gesto,
nell'atteggiamento istintivo di chi,
nell'estrema difesa,
cerca di occupare uno spazio vitale,
il minimo di superficie,
quasi piegandosi su se stesso,
nella posizione che ebbe
nel grembo materno e che ritrova
naturalmente nell'attimo in cui
la morte lo coglie,
chiudendolo, nel grembo della terra.
Chi scava?
A Sant'Angelo dei Lombardi
tutti i giovani erano riuniti
dentro un club:
solo quattro i superstiti.
Chi scava?
A Lioni sono rimaste in piedi
solo otto o nove case. Gli abitanti
sono sotto le macerie
e i pochi superstiti lavorano da giorni,
poi cadono sfiniti su letti di pietra.
Chi scava?
A Conza hanno allineato i morti
di fronte alla chiesa
(a quella che era una chiesa)
e i feriti sono raccolti in periferia,
sotto tende per modo di dire,
ricavate da assi di legno,
conficcati per terra, che reggono
larghe fasce di plastica srotolata.
Il paese è accartocciato,
gli aiuti non arrivano e le donne
lavorano di zappa e giurano,
mentre si detergono sudore di sangue,
che là sotto si sente un respiro.
Chi scava?
Chi scava a
Lioni, a San Mango,
a Teora, a Balvano,
paesi che non esistono più;
a Grottaminarda, a Solofra,
a Senerchia, a Calitri, a Laviano,
alle due Montoro, a Calabritto,
che mettono insieme
più di mille morti e di tremila feriti?
Chi scava,
mentre si susseguono le scosse,
e alcuni si suicidano,
e nelle carceri gli agenti
devono sparare in aria
per fermare i detenuti impazziti
dal terrore
(e i regolamenti di conti
fanno tre morti a Poggioreale
e un moribondo a Benevento),
e a Napoli un milione di persone
si precipita per le strade
ad ogni scossa,
le auto cariche di persone
e di masserizie
vanno persino sui marciapiedi
e sembra di essere tornati ai giorni
dei bombardamenti dell'ultima guerra:
chi scava?
L'immagine che una certa stampa
ha dato
di questo Sud "profondo chilometri"
è questa:
i morti e i feriti
sono sotto montagne di macerie,
e nessuno dà mano agli attrezzi
per tirarli fuori.
Tutti aspettano l'aiuto esterno,
i soccorsi degli altri.
E' così che lo slancio generoso
(e tumultuoso)
dell'altra Italia si è scontrato
con il presunto immobilismo
dei terroni:
o come li chiamano adesso,
i "napoli".
I "napoli", hanno detto e scritto,
non muovono un dito.
I gruppi di giovani organizzati
che hanno messo su baracche e tende,
pronti soccorsi, cucine da campo,
squadre di sgombero delle macerie
e di trasporto dei feriti,
non li ha visti nessuno.
Hanno visto, fermi sotto il freddo
inebetiti dall'immane sciagura,
immobili perché svuotati dal dolore,
i figli dell'assistenzialismo
dello Stato,
gli schiavi dell'invalidità permanente,
i pensionati a ventuno anni
per grazia ricevuta,
i prodotti
dei micidiale intervento straordinario,
i profughi dell'impiego pubblico,
i sinistrati
della sottocultura partitica,
i residuati dell'emigrazione.
La camorra intasa i suoi magazzini,
dicono,
e fra qualche mese ritroveremo
tutto quel che mandiamo giù
nei mercati di Forcella
e di Pignasecca.
E' vero.
In una terra
nella quale si sono mantenute
classi verticalizzate,
con feudatari a pieno titolo
e con vassalli senza altro titolo;
dove da decenni è stata distrutta
l'idea stessa
dell'iniziativa autonoma, individuale;
in cui i sistemi di vita
e i comportamenti sono ormai
omologati a un'agricoltura che
è ridotta alla rapina e a un'industria
che è appena un artigianato
semimeccanizzato;
nella quale, chi resta,
resta per rabbia e scommette sul futuro
come si gioca al lotto;
e nella quale
l'organizzazione civile
consiste nei mezzi elementari
della sopravvivenza
e della sussistenza:
in questa terra, chi deve,
chi può scavare?
Almeno uno ha scavato.
Si chiamava Marcello Torre,
quarant'anni, avvocato penalista,
sindaco democristiano di Pagani.
Si chiamava:
perché stava scavando nel milieu
camorristico, bloccando i canali
di infiltrazione e di speculazione.
Niente mani sul terremoto, aveva detto.
Lo hanno assassinato in due,
mascherati, sparando con un fucile
a canne mozze e con una pistola
calibro 38. Tradizionalmente,
il primo firma delitti di mafia
e di camorra, la seconda
delitti eversivi.

Morra Irpina è un villaggio montano
con pochi abitanti.
Alto sull'alta Irpinia,
sembra una crisalide vuota:
il terremoto ne ha fatto
una città morta.
Fuggiti anche quelli
che abitavano le baracche
assegnate dopo il terremoto del '62.
Diciotto anni, e ancora baraccati,
qui e a Sturno, ad Ariano Irpino,
a Grottaminarda. Un poco di Belice
anche da queste parti. A valle,
tendopoli improvvisate:
la pioggia ha creato un mare mobile
di fanghiglia rossa che si riversa
sui tornanti,
precipita per le scarpate,
entra nei centri abitati
e assedia case strade piazze.
In mezzo alle campagne e sui bordi
delle strade,
carogne di pecore e di buoi.
Hanno dato l'ordine di sparare a vista
ai cani randagi, sono già portatori
di rabbia.
L'aria è greve, dolciastra.
Se cade il freddo c'è pericolo
di epidemie.
Occultati sotto le grandi tende
dei vigili del fuoco, i camion
con la calce pronti a intervenire.
Chi ricordava più questo paese,
Morra?
Ci è venuto in mente d'improvviso,
emerso da ricordi giovanili.
Qui, tra questa gente,
tra queste montagne butterate,
tra i fulvi macchioni di quercioli
e di lecci nani,
nacque Francesco De Sanctis,
"che con la sua vasta e complessa
opera di maestro, di storico,
di critico militante, conclude
e insieme supera la fase eroica
del Risorgimento".
Con lui, scrive un altro
nostro maestro, il Sapegno,
la generazione che fondato l'unità
e l'indipendenza della nazione
si ripiega a considerare
l'eredità del passato, ne mette a nudo
le tare e i vizi segreti,
ne illumina le glorie e le virtù
tuttora feconde, e dà l'avvio
ad un severo esame di coscienza
che è ben lungi anche oggi
dal potersi ritenere compiuto ...
Il segno sotto cui si svolge
la battaglia desanctisiana è quello
dell'esigenza e della ricerca
di un moderno realismo nel contenuto
e nelle forme ...
Questo realismo dei "napoli",
dal nolano Giordano Bruno
al napoletano Vico, dal Ranieri
al Mastriani, e, alla rinfusa,
e sulla scorta del pensiero dei Doria,
del Genovesi, dei Galanti,
dei Caracciolo, dei Filangieri,
i quali illuminarono il mondo,
i Lauria e i Bracco,
fino ai contemporanei Marotta
e Bernari, Rea e Prisco, Compagnone
e De Filippo;
questo realismo come scienza
anticipatrice nelle lettere
e nelle arti e come amara scienza
nella vita quotidiana; questo realismo
che ha portato gli uomini a piegarsi
al vento, agli accidenti venuti
dall'esterno, e a sopraffarli
- subito dopo - con subdoli
aggiustamenti e accomodamenti
in forma di tregue per la convivenza
e in non dichiarato
stato di necessità: fatalismo,
così lo definiscono gli altri,
gli "esterni", questo comportamento,
ed è invece antico mestiere di vivere
(di sopravvivere) di un popolo
che sa di avere avuto in sorte
una storia
assai più tragica che grande.

Hanno abbandonato la vecchia Eboli,
quella dove si fermò,
migratore stupefatto,
il Cristo di Levi.
"... E d'ognintorno altra argilla
bianca, senz'alberi e senz'erba,
scavata dalle acque in buche,
coni, piagge di aspetto maligno,
come un paesaggio lunare ...
E da ogni parte non c'erano
che precipizi di argilla bianca,
su cui le case stavano come librate
nell'aria..." Da qui a Laviano
(il mitico "Gagliano"
dello scrittore piemontese),
valli senza eco, gobbe calve,
case inforrate sui costoni.
(Decenni di meridionalismo sigillati
nella memoria storica. Chi ha spento
le voci di Ciccotti, di Fortunato,
di Nitti, di Dorso?
Chi ha esiliato i contadini del Sud
di Scotellaro?
Chi batte le monete rosse
di Sinisgalli?)
La casa che accolse Levi
sta per crollare e il sindaco
(una donna) si dispera.
Non ci daranno una lira, dice,
e noi non abbiamo una lira.
"Noi non siamo cristiani, non siamo
uomini, non siamo considerati
come uomini, ma bestie, bestie da soma
e ancora meno che le bestie,
i fruschi,
i frusculicchi, che vivono
la loro libera vita diabolica
o angelica, perché noi dobbiamo invece
subire il mondo dei cristiani,
che sono di là dall'orizzonte,
e sopportarne il peso e il confronto
Cristo non è mai arrivato qui,
né vi è arrivato il tempo,
né l'anima individuale, né la speranza,
né il legame tra le cause
e gli effetti,
la ragione e la Storia.
Cristo non è arrivato,
come non erano arrivati i romani,
che presidiavano le grandi strade
e non entravano fra i monti
e nelle foreste, né i greci,
che fiorivano sul mare di Metaponto
e di Sibari: nessuno
degli arditi uomini di occidente
ha portato quaggiù il suo senso
del tempo che si muove,
né la sua teocrazia statale,
né la sua perenne attività che cresce
su se stessa. Nessuno ha toccato
questa terra
se non come un conquistatore
o un nemico o un visitatore
incomprensivo. Le stagioni scorrono
sulla fatica contadina, oggi
come tremila anni prima di Cristo:
nessun messaggio umano o divino
si è rivolto a questa povertà
refrattaria In questa terra oscura,
senza peccato e senza redenzione,
dove il male non è morale,
ma è un dolore terrestre,
che sta per sempre nelle cose,
Cristo non è disceso,
Cristo si è fermato a Eboli".
Non c'è neanche un Cristo laico,
in tanto clamore di "privato
come politico" e di "sociale"
tirato in ballo anche dall'ultimo
imbecille del paese.
Noi, mi dice un giovane,
non abbiamo il dubbio, ma la certezza
che saremo dimenticati:
lasci passare questi giorni,
qualche settimana, poi vedrà:
tutto come prima, con le case a terra
e con i morti sottoterra.
"Siamo abituati", mi dice un altro,
che dorme in macchina con sua madre.
E notte e l'ho svegliato,
abbassa il vetro, riesco appena
a distinguere i contorni del volto.
Siamo abituati. A che cosa?
A far finta di vivere.
La voce roca, floscia, rotta dal sonno.
L'idea che tutto passerà,
morto più morto meno, qualche
decennio per ottenere gli aiuti
pubblici, e tutto in regola, nella
vecchia regola del mestiere
di sopravvivere.
Un altro terremoto
sembra esser passato "dentro" uomini
come questo: un sisma che nessun ago
rileverà mai, impercettibile e costante
come un flusso di radiazioni
da stelle fredde.
Che dura da millenni. Aveva scritto
Rocco Scotellaro:
"Sradicarmi? la terra mi tiene
e la tempesta se viene
mi trova pronto.
Indietro
ch'è tardi,
ritorno
a quelle strade rotte in trivi oscuri".

A Salerno il terremoto ha colpito
i quartieri operai. Altrove,
funerali frettolosi, riti
ridotti all'osso. Qui, messe al campo,
energici preti organizzano tendopoli
e soccorsi,
la Chiesa è in trincea
e in prima linea.
Non c'è l'irresolutezza contadina:
sacerdoti in tuta parlano sicuri,
coordinano, chiamano in causa
perentoriamente,
colmano le piazze di fedeli
e danno del "tu" al terremoto.
Salerno è città ricca,
ha un'area industriale di prim'ordine,
sfrutta il mare, non ha un passato
da rimpiangere o da rinnegare.
Ha un'altra lingua.
Groviglio di agglomerati urbani
e di bidonvilles,
Napoli è messa a nudo: sfasciati
gli ignobili quartieri spagnoli,
stravolti i bassi, picconate
le tane-stanze per ogni uso
(pranzo-letto-bagno
in un unico ambiente). Un popolo
di straccioni in Alfa-Sud
(cambiali firmate per decenni),
impazzito ad ogni scossa, affamato,
disorientato, nelle piazze, poi
negli edifici scolastici.
Quanti siano realmente i senza-tetto
impossibile dire. E poi: che cosa
significava per una moltitudine
"avere un tetto"? Bivaccare nei tuguri
delle truppe di Carlo quinto,
affitti pagati a peso d'oro,
promiscuità totale,
prostituzione dilagante,
contiguità ai mercati del contrabbando
e della ricettazione,
precarietà assurta a sistema. Secoli
di decadenza alla resa dei conti;
secoli di dominio esterno e interno,
di trasformismo, di clientelismo,
di arretratezza, di infingardia,
di sottocultura, emersi
in quel tragico minuto.
Napoli si mangerà tutto, dicono. Napoli
assorbirà i soldi che ci daranno
per ricostruire.
Come quando era capitale del Regno,
e anche come dopo, al tempo
delle "leggi speciali".
Il Regno non c'è più,
ma sono rimasti i meccanismi;
anzi, si sono in qualche modo
accresciuti e perfezionati.
Mentre si moltiplica, Napoli si divora,
e divora gli altri.
Come metropoli, comincia a Cuma
e finisce a Castellammare.
Ai contadini ha tolto le campagne,
ha inurbato altre decine di migliaia
di uomini che, rimasti senza terra,
sono diventati i nuovi disoccupati:
erano, i disoccupati, 300 mila
ai tempi dell'inchiesta dei Tanucci,
due secoli fa.
Sono altrettanti adesso.
Sono i sottocittadini della sottocittà,
quelli che vivono dell'economia
da vicolo, il cui itinerario è lungo
e tortuoso, e non conduce
in alcun luogo. l problemi di Napoli
sono anche queste isole chiuse,
inespugnabili, queste società fisse,
che il terremoto ha scosso per poco,
e che torneranno ad essere
quel che erano, che sono sempre state,
"masse dipendenti da aiuti esterni":
dalla monarchia spagnola nella lotta
contro i particolarismi baronali
alla fine del secolo XV;
dalla potenza francese durante
la Repubblica del '99 e nel periodo
muratiano; dall'intervento
garibaldino-piemontese
alle soglie dell'Unità;
dalla corte dei Savoia, in asse
con Caserta; dalle "leggi"
particolaristiche durante il fascismo
e con la Repubblica.
Sintesi delle contraddizioni del Sud,
sacca anarchica e servile, Napoli.
E quel minuto ha segnato il triste,
forse definitivo epilogo
di una capitale che ha covato
troppo a lungo, nel suo seno,
la speranza del privilegio politico,
geografico, storico,
con le sue classi verticalizzate,
con i suoi padroni intoccabili,
con le sue cosche inattaccabili,
con i suoi vizi capitali
inalienabili.
Neapolis, la nuova città, è un vecchio
groviglio di cimiteri,
con ombre postulanti che cantano
nere sventure, dominazioni,
schiavitù, il sangue e l'amore,
la forca e l'alcova. Come
se gli orologi si fossero fermati.
Alle 19.35 di molti secoli fa.

 


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000