Comunità a dieci




Lucio tartaro



Proprio in un momento in cui i rapporti internazionali attraversano una fase particolarmente difficile e incerta, con nuove sfide che si riversano sull'Occidente dalle aree instabili del Terzo Mondo, una nuova fase si è aperta nel lungo processo di integrazione politica ed economica dei Paesi europei.
In effetti, il passaggio dall'Europa dei Nove a quella dei Dieci assume un'importanza primaria non solo per il ricongiungimento del Paese che il presidente uscente della Cee, Jenkins, ha definito "il nostro membro ad un tempo più antico (per cultura e tradizione) e più recente (per istituzioni democratiche e per volontà di sviluppo)"; ma anche perché, oltre alla Grecia, nel corso del decennio dovrebbero aggiungersi al nucleo europeo anche la Spagna e il Portogallo.
La prospettiva di un'Europa a Dodici verso la fine degli anni Ottanta, con un salto di qualità in parte comparabile al passaggio nel 1973 dall'Europa del Sei a quella del Nove, ci conduce inevitabilmente ad alcune riflessioni di fondo. L'immagine attuale della Comunità e del suo ormai imponente stuolo di "eurocrati" spesso più incline a discutere e regolamentare problemi tecnici che politici, ha condotto ad un certo scetticismo, paradossalmente proprio al suo interno. La frase "la CEE di Bruxelles in questi anni ha prodotto di tutto, dal latte alle barbabietole, ma non ha prodotto europei" ne è forse la sintesi più suggestiva.
D'altra parte, negli Anni Settanta, la CEE può vantare almeno tre successi fondamentali: la costituzione del Sistema Monetario Europeo, l'avvio di un serio coordinamento nella politica estera del Nove, e infine le elezioni a suffragio diretto del Parlamento Europeo, di cui si iniziano già a sentire gli effetti politici e istituzionali sulla struttura emersa dal Trattato di Roma.
Ma quale sarà allora l'effetto probabile dell'aggiunta della Grecia e di altri due nuovi Stati su ognuno di questi tre pilastri portanti della costruzione europea, e che ne simboleggiano rispettivamente la solidità economica e finanziaria interna, la proiezione internazionale e il volto politico-istituzionale?
Mentre del primo aspetto, cioè l'allargamento della base economica CEE a dimensioni da vera superpotenza mondiale, ma con rilevanti problemi interni, tratteremo fra poco, vorremmo invece soffermarci subito e più a lungo sulla politica estera della Comunità.
Qui, il compito sarà più arduo, poiché problemi tra i più spinosi come quello di Cipro o dello sfruttamento del Mare Egeo diverranno d'ora in poi questioni interne comunitarie, così come lo saranno i rapporti con l'America Latina, quando entreranno anche i due Stati iberici. A fronte di tali rischi, stanno però notevoli opportunità per la CEE di contare diplomaticamente molto di più, e non solo, com'è quasi luogo comune, nei rapporti con gli altri Paesi Mediterranei, del Medio Oriente e dell'Africa, cioè del dialogo Nord-Sud, dove l'Italia ha le sue buone carte da giocare. La nuova CEE dovrebbe resistere infatti assai meglio anche nel tormentato dialogoconfronto Est-Ovest, e in entrambe le direzioni.
Nei confronti del grande alleato americano, soprattutto, l'Europa dei Dodici verrà quasi a coincidere con l'area europea della Nato. Le implicazioni politico-militari, specie se la CEE inizierà ad affrontare il problema ormai maturo di una difesa europea integrata ed autonoma, sono già oggi di tutto rilievo.
Di conseguenza, la Comunità sarà un interlocutore ancora più credibile dal punto di vista politico ed economico per l'Unione Sovietica e per i Paesi dell'Est. Per chi ricorda il ruolo già esercitato dai Nove nel costruire la distensione, dalla Conferenza di Helsinki del '75 ai grandi accordi di cooperazione economica con l'Est, alla funzione moderatrice e "di ponte" verso l'URSS svolta l'anno scorso nei momenti peggiori del dopo-Afghanistan e della rottura tra Mosca e Washington, questo è un futuro perfettamente possibile.
Non a caso, già nel 1972, alla vigilia dell'ingresso di Londra nella CEE, l'accademico sovietico Inozemtsev presentava al governo del suo Paese gli "scenari" dei rapporti internazionali, nei quali configurava come ipotesi realistica un'Europa "né antisovietica, né antiamericana". Però proprio per questo la CEE degli Anni Ottanta non dovrà attendersi alcun favore dalle due superpotenze, e dovrà scegliere una stretta via tra le prevedibili e contrastanti pressioni di "riamericanizzazione" da una parte e di "finlandizzazione" dall'altra.
Per concludere questa parte del discorso sul futuro assetto istituzionale della Comunità, rimane dubbio in qual misura una rappresentatività politica e un peso incomparabilmente maggiori dovranno essere pagati con un annacquamento più o meno definitivo dell'idea di un'Europa federale, e con un'evoluzione forse più realistica verso una struttura di tipo confederale. Non si può infatti scontare la permanenza in ogni caso sia di ampie prerogative di sovranità nazionale dei singoli Stati, sia di forti riserve contro la CEE all'interno dei medesimi, di una parte dell'opinione pubblica e di alcuni partiti politici.
Il potere di attrazione e il successo della Comunità nell'armonizzare le esigenze più diverse dei suoi Stati membri stanno così per affrontare una prova decisiva, dalla quale potrà dipendere il futuro del vecchio continente.
Dunque, senza troppo clamore, né cerimonie di particolare risonanza, dal primo gennaio di quest'anno la CEE ha cambiato volto: così i Nove sono diventati Dieci con l'ingresso del Paese di più antica civiltà dell'area del Mediterraneo: la Grecia, patria degli Dei e ponte tra Occidente e Oriente da età remota. In termini moderni si può ben dire che, con l'allargamento alla Grecia, la CEE sposta un pò più a sud un baricentro finora fortemente sbilanciato verso gli Stati del Nord, rinforza quella che è già la più estesa alleanza di Stati oggi esistente e nello stesso tempo la indebolisce, inserendovi una serie di problemi di non facile né tantomeno immediata soluzione.
La Grecia fa parte a pieno titolo della CEE, dopo una trattativa durata cinque anni e conclusasi alla fine dei 1979. Peraltro, per non aggravare di colpo i problemi già gravi degli altri Paesi, è previsto un periodo di transizione di sette anni per la libera circolazione dei prodotti agricoli e della manodopera nel resto della Comunità; ma, d'altra parte, è anche programmato un periodo di transizione di cinque anni per la riduzione delle barriere tariffarie dietro alle quali sono sopravvissute per anni le malcerte industrie elleniche.
L'ingresso della Grecia nella CEE non è stato certo un processo indolore, né compiuto senza resistenze. I problemi che si porranno a livello economico, con l'introduzione di un Paese che ha più le caratteristiche delle deboli economie mediterranee che dei forti sistemi nordici, sono stati accettati, in fin dei conti, più per un motivo politico che per altre ragioni. L'ingresso della Grecia è stato caldeggiato da più parti come l'unica garanzia per minimizzare, se non annullare, potenziali rischi di un ritorno all'autoritarismo che il Paese ha dolorosamente sperimentato fino al 1974.
Nello stesso tempo, ci si è ovviamente resi conto dei costi da sopportare con l'inserimento di un Paese economicamente arretrato, con una struttura industriale in divenire, con un'agricoltura che tuttora assorbe il 28 per cento della popolazione attiva e che sforna beni già prodotti da altre aree della Comunità, con un reddito pro-capite che è meno della metà di quello medio comunitario (4.189 dollari contro 9.190) e con un deficit estero irriducibile.
Certo, un calcolo puramente economico da parte CEE avrebbe bocciato l'affare, non potendo un mercato addizionale di 9,3 milioni di abitanti neppure lontanamente rappresentare un'attrattiva di fronte ai problemi che dovranno essere risolti per adeguare la struttura economica greca a quella comunitaria, per omogeneizzare e coordinare le produzioni industriale e agricola e per inserire la debole dracma nel già sbilanciato sistema monetario europeo.
Ma, per amor del vero, è necessario dire che le resistenze all'ingresso della Grecia non sono venute solo da parte di alcuni Paesi comunitari: nello stesso Paese aspirante molte perplessità erano e sono diffuse. Innanzitutto, per quanto siano stati opportunamente previsti periodi di transizione, è chiaro che l'impatto di una struttura moderna e industrialmente all'avanguardia, come è quella di molti Paesi CEE, sulla debole economia greca potrebbe avere effetti dirompenti. Il 95 per cento delle industrie greche conta meno di dieci addetti e il livello generale di efficienza è quello che può essere, dopo anni di eterno arrabattarsi dietro all'illusoria sicurezza delle barriere protezionistiche; ciò che succederà quando le tariffe d'importazione per i prodotti industriali saranno completamente abolite sarà direttamente proporzionale a quanto verrà fatto nel periodo di transizione per rendere competitive le aziende elleniche.
Ad Atene non si è mai fatto gran conto dei disoccupati; ma è chiaro che il primo effetto dell'allargamento non sarà particolarmente benefico su quello che resta, in ogni caso, un grave problema del Paese, soprattutto se si considera che, analogamente a quanto capita a noi, lavoro nero e secondo lavoro sono particolarmente diffusi: ad un punto che se ne valuta l'importanza ad un 25 per cento ulteriore di quello che è il prodotto interno lordo ufficiale.
La Grecia marcia con un un'inflazione che si aggira attualmente intorno al 25 per cento in ragione d'anno. Registrava nei primi dieci mesi dell'80 un deficit corrente di 2,5 miliardi di dollari e prevede per l'81 una crescita dell'1,5 per cento dopo una quasi-stagnazione nell'80. Le sue "performances" economiche la pongono dunque molto vicina all'Italia (e alla Spagna e al Portogallo, quando anche questi Paesi accederanno alla Comunità), rinnovando i timori di un'Europa "a due velocità", che vedrebbe distinte le potenti economie industriali e post-industriali del Nord da quelle arretrate e confusionarie del Sud, i Paesi ad elevato tasso d'inflazione da quelli con inflazione medio-bassa, i popoli latini da quelli anglosassoni e mitteleuropei.
A livello comunitario, si rinfocolano invece le apprensioni che già turbano i sonni dei Paesi che oggi traggono grandi benefici dall'attuale struttura del bilancio comunitario che privilegia, con il 70 per cento degli stanziamenti, le spese per il settore agricolo e lattiero-caseario, ossia i già ricchi Olanda, Germania Federale, Francia e Danimarca. Con la Grecia si acutizzano gli squilibri regionali e viene a rafforzarsi la richiesta di devolvere una maggiore quota dei fondi regionale e sociale alla correzione delle ineguaglianze.
Resta infine anche per i Paesi meno ricchi della CEE, come l'Italia, la preoccupazione per gli effetti di un'accresciuta concorrenza in campo agricolo, e soprattutto in settori (vino, frutta, agrumi) sui quali finora abbiamo potuto contare, per mantenere nel loro precario equilibrio i nostri conti con l'estero.
Ma se problemi e difficoltà sono numerosi, anche gli aspetti positivi dell'allargamento della Comunità non sono da sottovalutare: soprattutto quando anche Spagna e Portogallo entreranno nella CEE, si verrà a creare un mercato di 315 milioni di persone, contro le 260 attuali, con un prodotto lordo superiore a quello statunitense e con una capacità di incidenza a livello mondiale di enorme rilevanza.
Con l'ingresso della Spagna e del Portogallo, anche i legami con i Paesi associati alla CEE (oggi quelli dei Caraibi, Africa e Pacifico aderenti alla Convenzione di Lomé) potranno essere ampliati e approfonditi, e, soprattutto estesi ai Paesi di lingua iberica dell'America Latina, con i quali i rapporti finora non sono stati particolarmente intensi.
La Comunità a Dodici rappresenterebbe la metà dei membri dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (l'Ocse), e amplierebbe la propria autorevolezza in ogni assise internazionale, potendo di fatto costituire un fattore di stabilità e di sicurezza a livello planetario.
L'entrata della Grecia nella CEE è un avvenimento di estrema rilevanza per il mondo agricolo meridionale e italiano. La Repubblica ellenica, con il 28 per cento della popolazione dedita al settore primario (una percentuale molto più alta della media europea) e con le sue coltivazioni tipicamente mediterranee, è, fra i Dieci, lo Stato che più si avvicina, almeno in questo aspetto della sua vita economica, al nostro Mezzogiorno e all'Italia.
Quella greca, comunque, è ancora un'agricoltura di tipo tradizionale, con uno scarso sviluppo della meccanizzazione; contrassegnata, inoltre, da una esasperata polverizzazione della produzione, con ben 810 mila aziende, di cui solo il 10 per cento supera i dieci ettari di terreno coltivabile (il 70 per cento da 1 a 5 ettari, e il 20 per cento da 5 a 10).
A parte queste differenze di tipo strutturale, restano comunque le affinità sul tipo di coltivazione, che creano non poche perplessità ai nostri agricoltori. Soprattutto per quei settori che, sia per motivi congiunturali di mercato che per fattori organizzativi e strutturali, legati anche alla passata politica agricola CEE, sono da tempo travagliati da una pesante crisi.
E' questo il caso della produzione e della commercializzazione dei tabacchi. L'Italia è infatti il maggior produttore comunitario di questo prodotto, contribuendo con circa due terzi all'intera produzione della CEE, ma la situazione di mercato è già da alcuni anni appesantita da una preoccupante crisi. Due le cause prevalenti di questa situazione: la prima riguarda l'andamento della produzione degli ultimi due anni. Infatti, a un eccezionale 1979, con un conseguente problema di sovraproduzione, ha fatto seguito una campagna 1980 caratterizzata da scadenti requisiti qualitativi, che hanno tolto competitività al nostro prodotto.
Per contro, e questa è l'altra causa, i provvedimenti comunitari hanno praticamente ridotto a zero i dazi doganali per l'importazione di tabacco dai Paesi in via di sviluppo. Si è assistito così a una vera e propria invasione di prodotto estero, ceduto a prezzi molto più bassi, consentiti anche dal minor peso dei costi di produzione in quei Paesi. Il tutto ha portato a una situazione di eccedenza che, a sua volta, ha determinato la riduzione del prezzo d'intervento. La mancata valorizzazione della tabacchicoltura è ancor più inspiegabile, se si considera che la produzione comunitaria copre appena il 30 per cento del proprio fabbisogno.
Tra i grossi produttori di tabacco figura anche la Grecia, con una produzione annua di circa 1.250.000 quintali. Anch'essa, però, reca con sé grossi problemi di stoccaggio (le stime attuali parlano di 1.200.000 quintali di invenduto), nonostante la politica delle vendite sotto costo in precedenza attuata, favorita dal massiccio intervento governativo.
Comprensibili quindi le preoccupazioni dei tabacchicoltori meridionali e italiani, i quali, almeno a breve termine, vedono complicato il superamento dello stato di crisi. Il disagio è particolarmente avvertito nella Penisola Salentina, una delle zone più ricche di questo tipo di coltura, dove le varietà coltivate hanno caratteristiche molto simili ai "levantini" greci.
Insieme con quello del tabacco, altri problemi. L'ombra della concorrenza greca si allunga su molti altri settori dell'agricoltura del Mezzogiorno. Ad esempio, per gli olii e per i vini. Pur essendo la produzione greca di gran lunga inferiore a quella italiana (noi produciamo circa nove milioni di quintali di olio d'oliva contro i due milioni e mezzo della Grecia, e per il vino la differenza è ancora maggiore), i nostri produttori ritengono che la presenza ellenica si farà comunque sentire pesantemente. Ciò soprattutto a causa della maggiore competitività dei prezzi (mediamente, una giornata lavorativa di un contadino greco, ad esempio, costa 1.500 lire, contro le 15-18 mila lire di un contadino meridionale e le 20-22 mila lire di uno centrosettentrionale, contributi a parte). Nonostante che il tasso di inflazione viaggi in Grecia con una media vicina a quella italiana, quella dei costi, e quindi dei prezzi più bassi è una carta che non gioca a nostro favore.
Il riscontro pratico di quanto affermiamo si è avuto l'estate dell'anno scorso quando, sui mercati tedeschi, le pesche greche hanno sopraffatto quelle italiane in virtù di un prezzo di mercato di gran lunga più ridotto. E lo stesso discorso vale per gli agrumi e per gli ortaggi. Quella degli ortofrutticoli costituisce la voce più importante dell'esportazione greca. Nel 1978, quando cioè la Repubblica ellenica era solo un'associata alla CEE, essa ha esportato nell'ambito della Comunità ortofrutta per 339 milioni di dollari, tabacco per 63 milioni e olio d'oliva per 53 milioni.
Legittimo, quindi, il disappunto degli agricoltori meridionali, i quali vedono il reale pericolo di perdere una fetta del loro mercati tradizionali, anche se non sarebbe giusto limitare la valutazione dell'entrata della Grecia esclusivamente al criterio della contrapposizione. Una considerazione si impone. Essa è rappresentata dal fatto che la politica agricola comune si estenderà gradualmente all'agricoltura greca per evitare passaggi traumatici. La complessa normativa comunitaria, che proprio nel campo agricolo ha avuto la sua maggiore attività, troverà piena applicazione solo dopo cinque anni (per alcuni settori si arriva a sette anni), con il progressivo abbattimento dei dazi doganali. C'è quindi tempo per i nostri rappresentanti a Bruxelles per evitare e modificare provvedimenti pregiudizievoli per l'agricoltura del Mezzogiorno e, in generale, per l'intera agricoltura italiana.

Grecia in cifre

Il Paese
Si estende su una superficie di 132 mila Kmq (di cui 38.900 di terre coltivate e l. 138 di acque interne).

La popolazione
9.450.000 unità, con una densità di 72 abitanti per Kmq. La popolazione attiva occupata è di 3.189.000 persone (di cui il 28% in agricoltura, il 30,7% nell'industria e nelle costruzioni, il 42% in altre attività, soprattutto servizi).

Le regioni
Sono dieci: Grande Atene, Grecia Centrale ed Eubea, Tessaglia, Isole Ionie, Peloponneso, Tracia, Macedonia, Epiro, Creta, Isole dell'Egeo.

La produzione
In base ai dati dell'Ocse, il prodotto nazionale lordo è stato di 1.464,8 miliardi di dracme (in media, 4.200 dollari per abitante).
Alla formazione del PIL hanno contribuito per il 15,9% l'agricoltura, per il 20,7% le industrie estrattive e manifatturiere, per il 1O% Ie costruzioni e per il 53,4% i servizi. L'indice generale della produzione industriale (1970 = 100) ha toccato quota 194, con un incremento di 11 punti rispetto all'anno precedente. Questi i dati dei vari settori (fra parentesi la cifra dell'anno precedente): industrie estrattive 155 (145); industrie manifatturiere 193 (182); alimentazione 162 (156); tabacchi 154 (148); tessili 224 (208); chimiche 206 (207); minerali non metallici 219 (205); metallurgia di base 184 (177); trasformazione dei metalli 183 (175); industrie produttrici di beni di consumo 198 (186).

Livello di vita
I dati Ocse rilevano, per l'anno scorso, circa 2.200 dollari di consumi privati per abitante (contro i 2.810 dell'Italia), 66 vetture da turismo ogni mille abitanti (in Italia 289), 250 telefoni e 127 televisori (in Italia rispettivamente 285 e 224).

Prezzi e salari
L'indice dei prezzi all'ingrosso (base 1970 = 100) ha raggiunto i 333,3 punti. Per quanto riguarda i salari orari dei lavoratori delle industrie manifatturiere, l'indice (1970 = 100) è stato nel '79 di 503 punti, mentre negli anni immediatamente precedenti era stato di 419, 338, 279 e 217.

Eximport
Export (fob) - In totale, 3.888,1 milioni di dollari così ripartiti: 1.908,7 verso la CEE (di cui 380,1 verso l'Italia); 395,7 verso i paesi ad economia pianificata.
Import (cif) - Merci e beni per 9.618,6 milioni di dollari. La cifra è costituita, fra l'altro, dai 3.805,6 milioni dai Paesi CEE (dei quali 890,9 dall'Italia) e dai 551,7 dagli Stati a economia pianificata.

Imposte e tasse
Le cifre Ocse stimano per lo scorso anno entrate tributarie per un totale di 668 miliardi di dracme, frutto di 254,780 miliardi di imposte dirette e di 413,700 miliardi di imposte indirette.


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