§ Sud e terremoto

Dopo l'apocalisse




Gigi De Mitri, Diario Giustizieri, Luigi Belli



Il quadrilatero più colpito è fra due regioni che travalicano i confini segnati dal dito dei Savoia: i nomi delle cittadine e dei centri abitati sono nuovi per molti: Sant'Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, San Mango, Pescopagano, Balvano. Case, strade, piazze distrutte mediamente al novanta per cento. Tutto qui è alto: Alta Irpinia, Alto Sele, Alto Ofanto, Vulture. L'altitudine media è di ottocento metri, e a ottocento metri le colture mediterranee rinunciano all'albero. Dove non c'è una vegetazione bassa e torva, la montagna è calva, argillosa; compatta nei giorni di siccità, si trasforma, d'inverno, in una gran ragnatela di torrenti fangosi che scendono dalle calanche a dente di pettine, complicando le comunicazioni, isolando i centri abitati, rendendo lunari le distanze.
E' l'antico Sud in bilico, la terra delle fumare violente come arieti che irrompono dilavando il lieve strato di terra coltivabile, mettendo a nudo il sottosuolo, che ha il colore del deserto. Qui sono accostati, senza soluzione di continuità, alture e fondovalli, il verticale e l'abissale, in un gioco di terrificanti incastri che sono il pane quotidiano delle catastrofi ecologiche.
Quando il cielo ha il sapore dell'inverno, i fiumastri ingrossano improvvisamente, superando gli argini, distruggendo le colture. "Da sempre - ci dice un giovane - qui il nostro mestiere è quello di arrangiarci". A Eboli, città emblematica del Mezzogiorno, duemila famiglie hanno vissuto per vent'anni nelle baracche costruite dagli inglesi dopo lo sbarco della seconda guerra mondiale. Le avevano trasferite da poco in case popolari: due stanze, cucina, un piccolo bagno. Case costruite come si gioca al lotto: sono tutte inabitabili. Ora, nella città nella quale hanno scritto che si era fermato Cristo, e nella quale in realtà sembra che Cristo non ci abbia mai messo piede, i senza-tetto sono circa ottomila. Altri quindicimila a Pagani. Settemila a Campagna e dintorni, quaranta per cento delle case distrutte. Quattromilacinquecento a Laviano, città distrutta al novanta per cento. Milleduecento a Santomenna, novantacinque per cento delle case rase al suolo. Novemila a Sarno, seimilasettecento a Scafati. Pochissimi i senza-tetto a Sant'Angelo dei Lombardi, a Teora, a Lioni: ma novantanove per cento delle case distrutte.
Una geografia ha mutato faccia, interi centri abitati sono stati cancellati. Quarantotto ore nette di ritardo, qualunque cosa dicano a Roma, hanno aggravato colpevolmente la situazione. La malasorte ha giocato le sue carte. Il maltempo, in seguito, ha fatto il resto. Neve e pioggia per giorni: la montagna crepata come una melagrana, grandi rivoli di fanghiglia rossa scesi dalle quote medie e alte hanno trasformato questo paesaggio, che Helmut Kanter definì "di steppa marina", in un immenso, inesorabile pantano che ha sconvolto tutto, collegamenti e soccorsi. Ancora una volta si sono dovuti fare i conti con una burocrazia lenta e macchinosa, ma soprattutto con i dissesti idrogeologici antichi e mai sanati, con lo "sfasciume" che ha fatto del Sud - come diceva Giustino Fortunato - un vecchio carro merci abbandonato su un binario morto.
"Abbiamo non il dubbio - ci ha detto un baraccato - ma la certezza, l'assoluta certezza che da qui a qualche mese, passata l'onda di emozione, nessuno si ricorderà più di noi. E noi dovremo tornare ai nostri poverissimi problemi esistenziali". Ma in Friuli la gente non si è messa a ricostruire case e industrie e stalle e poderi mentre ancora si registravano scosse di assestamento? Lassù, replicano, avevano qualcosa da perdere. Noi, oltre alla vita, se questa è vita, che cosa ci rimettiamo?


Conti alla mano: micro-economie, cereali estensivi, allevamenti occasionali, industria episodica (le cattedrali sono andate altrove, qui è rimasto solo il deserto), emigrazione.
Europa comunitaria come terminale temuto proprio perché punto di arrivo definitivo di quell'emigrazione, Stato lontano anni luce, speculazioni, classi verticalizzate, mancanza di beni civili e di servizi sociali, abbandono: tutto questo, e altro ancora, danno un nome alla fame. Il terremoto ha determinato il tracollo: sette milioni di persone allo sbando, trecentottantamila senza-tetto. Un'area più grande della Lombardia, con demografia disastrata, emigrati i giovani, presenti solo donne vecchi bambini, i dipendenti del pubblico impiego, rarissimi imprenditori, anche questi in buona parte figli dell'assistenzialismo di uno Stato che ha prodotto quaggiù l'altro sfascio, forse irreparabile, abolendo la stessa idea dell'imprenditorialità libera, della personale intrapresa. Il terremoto ha mietuto all'ingrosso proprio questa gente che non aveva voluto tagliare le radici. Ma non ha inventato nulla: nella geografia dell'arretratezza, Alto Sele, Alto Ofanto, Sannio, Irpinia, Cilento, Vulture erano già nomi notissimi, lo testimonia una letteratura tutt'altro che salottiera, ignorata dai capicosca dei circoli milanesi e romani che hanno costruito fortune sul vuoto verticale dei loro libri. Li conoscevamo attraverso la narrativa meridionale, questi uomini-roccia, queste donne-ulivo, questi bambini sgomenti dell'esodo che hanno sfilato nell'anfiteatro dei paesi montani, percorrendo strade a chiocciola, tra lastroni di ghiaccio e torrenti di fango, che hanno dovuto abbandonare le case fatte costruire con le rimesse dall'estero e le "case popolari": hanno resistito le costruzioni messe su al tempo degli Svevi e degli Angioini, si sono sbriciolate quelle realizzate dai costruttori dei nostri giorni. Colpe della storia e della politica. Ma anche colpa di queste eterne vittime. E cerchiamo di spiegare perché.
Tre viaggi nel terremoto. Il primo nelle strutture fisiche: un'urbanistica è stata sconvolta, insieme con tutti i "rapporti sociali" che consentiva, sottintendeva e forse anche condizionava, dalla solidarietà del vicinato all'economia di autoconsumo.
Di qui, il primo problema: dove, e come ricostruire? Soprattutto: chi deve ricostruire? Secondo i meridionalisti più accreditati, devono essere gli stessi terremotati a decidere. Forse, per la prima volta nella storia del nostro Paese, è emerso con chiarezza che non esiste un Mezzogiorno omogeneo: c'è un Mezzogiorno come somma di molti Sud, quelli dell'osso e quelli della polpa, delle brevi pianure e dell'alta collina e della montagna e del fondovalle. E ciascun Sud ha una propria storia, una propria economia, un'annalistica, che formano ricordi accaniti, vere e proprie frontiere, invisibili steccati che nulla, nessuno è riuscito ad abbattere. Più che confinare, questi Sud si fronteggiano. Memorie storiche, orgogli di campanile, ne hanno fatto molto spesso delle Vandee impenetrabili.
Non può spiegarsi diversamente, ad esempio, il rifiuto dei più a fare un passo indietro per consentire (magari controllandola a vista) la fase di bonifica, che precede quella della ricostruzione. Ingombranti, carichi di rancore, irremovibili e soprattutto fermi, con le mani in mano, come si dice da queste parti, in attesa di tutto e di tutti, in attesa del miracolo assistenziale, in attesa del "nuovo" venuto da fuori, gli uomini di alcuni di questi Sud, come le anime morte di Gogol, hanno messo a nudo le radici del loro immobilismo psicologico e operativo: sbigottimento per la rovina, paura, dolore e lutto sono senz'altro attenuanti di rilievo; ma un'aggravante tutt'altro che generica è la "filosofia dell'attesa" che ha caratterizzato i comportamenti umani e civili.
Nel paesaggio desolante dell'Irpinia, tra le città e i centri abitati del Salernitano, sotto Eboli e sopra le montagne del Serino, il grande fantasma dell'inerzia ha preso corpo e spessore, rivelando che tutti, i vivi e i morti, prima che vittime del terremoto, sono stati vittime di un sistema di vita, di una cultura arretrata, di una gestione della cosa pubblica in molti casi personalistica e clientelare.
Chi metteva sotto accusa il trasformismo meridionale come male epidemico e come strumento di pura conservazione, può mettersi l'anima in pace: è morto anche quello, e non sotto le macerie del 23 novembre; e ha preso il suo posto la disgregazione di molti, di troppi valori: lo ha sostituito, sulla spinta dell'emarginazione, delle migrazioni, della povertà, della sfiducia nello Stato latitante, l'individualità anarchica, esistenziale: predomina quell'"amoral familism" che Banfield aveva distillato dall'osservazione di una comunità meridionale, e che il terremoto ha accentuato, esasperandolo, fino al limite patologico delle coltellate per una coperta o per un pezzo di pane.
Di qui, il secondo viaggio attraverso il terremoto: tra le maglie intersecate della politica e della camorra, delle cosche clientelari, delle protezioni, dei boss e degli interessi imboscati, dei santi in paradiso, tra le componenti negative che hanno frantumato un tessuto sociale di per sé precario e che (straordinariamente) proprio nella povertà, nell'arretratezza, nella lotta per la sopravvivenza quotidiana aveva trovato un minimo comun denominatore, un problematico coibente. E più che un secondo viaggio nel terremoto, può essere considerato un viaggio "dietro la facciata": che cos'è la rassegnazione di questa gente, se non un sistema di "compressione" socio-economica, e dunque politica, in grado di garantire controllo e dominio? Che cos'è l'assistenzialismo, se non un "metodo" di produttività mafiosa, in grado di perpetuare quel sistema? La presa diretta delle realtà locali sembra avere stravolto (almeno per questo arco di tempo) queste strategie. Di qui, certe reazioni incattivite, e al limite certe risse non ancora sopite. Ma è innegabile, qualsiasi difesa d'ufficio si faccia, che il terremoto è stato una sciagura che si è abbattuta su altre, più antiche sciagure che hanno fatto assai più tragica che grande la storia del Mezzogiorno.
Per quanto abbiamo cercato, nessuno ha saputo, o voluto spiegarci il persistente squilibrio demografico di queste aree, con l'economia agricola non-industrializzata affidata ancora alle braccia senili; il conseguente infimo livello di produttività, soprattutto quello di imprenditorialità locale; l'incidenza di una cultura da retrovia, che sulla scorta di echi venuti da molto lontano avrà forse messo in crisi le componenti umanistiche e scientifiche, ma non può o non sa essere in grado di sviluppare la componente tecnologica: sicché il discorso sullo sviluppo è comunque fatto in ritardo, e l'unica prospettiva resta comunque, e ancora una volta, quella di "farsi trainare".
E nessuno ci ha spiegato che cosa ci stanno a fare le baracche del terremoto del 1962, regolarmente abitate per mancanza di alloggi ricostruiti, a Morra de Sanctis, ad Ariano Irpino, a Sturno e dintorni; perché beni civili e servizi sociali qui sembrano essere scienza d'un altro pianeta; se è vero o no che i giovani continuano a prendere i cosiddetti "treni della speranza", che in realtà sono sempre treni della disperazione, dell'espulsione e della diaspora; e che cosa ci stanno a fare quarantamila falsi terremotati napoletani tra gli autentici senza-tetto della capitale campana, che non superano i diecimila; e se sia vero che portaborse e scagnozzi abbiano discretamente o sfacciatamente incettato soccorsi, per redistribuirli secondo criteri clientelari; e, infine, che cosa ha fatto fino ad oggi chi strepita e si sbraccia contro quanti sono andati a verificare quanto - d'altro canto - era già del tutto noto: che questi Sud, arroccati sullo sfasciume geologico, rotti dalle calanche, macinati dalle fiumare, malgrado anni di intervento ordinario e straordinario, malgrado lo Stato e la Cassa per il Mezzogiorno, sono rimasti, con qualche variazione, quelli che erano: un'Italia che paga sempre e che paga tutto per tutti.
E terzo viaggio è ipotetico: senza dubbio ipoteca il futuro, prossimo e remoto, e riguarda le scelte di sviluppo che saranno forse mediate dalle Amministrazioni centrali e da quelle periferiche. Quel che emerge e che preoccupa, in questo momento, è la prospettiva tutt'altro che astratta del condizionamento di queste scelte da parte e a causa degli scontri in atto anche nel dopo-terremoto: questione morale, arroccamenti delle forze politiche, crisi economica, sono terremoti che hanno preceduto il terremoto: dagli sviluppi di queste "questioni" dipenderà in buona misura il futuro del Paese, del Mezzogiorno e dei suoi Sud, aree fragili, con debole capacità contestativa, serbatoi di voti clientelari, con scarsa valenza politica.
In questi Sud, nel breve e nel medio periodo, si dovranno paracadutare da ventimila a quarantamila miliardi di lire per la ricostruzione. E dunque: o si ricostruirà secondo un progetto di recupero e di rilancio civile e politico, culturale, sociale, umano, e allora avremo forse definitivamente cancellato dalla nostra geografia del sottosviluppo alcune aree che gravitano sul versante del Terzo Mondo; oppure si ricostruirà secondo i vecchi schemi clientelari, strumentali, a pioggia, per grazia o per miracolo ricevuto, e allora dovremo abituarci a vivere sul filo del rasoio. Questo terzo viaggio è, in un caso o nell'altro, una sfida che non riguarderà solamente i 468 comuni e centri abitati colpiti, i 166 duramente provati, i sedici del tutto aboliti dai sussulti omicidi della terra, ma l'intero Mezzogiorno, la sua stessa esistenza come area europea. Ed è, dunque, una "storia" che si sa quando è cominciata, ma non è dato conoscere dove porterà: né dove, attraverso i fatti, con il filtro della cosiddetta "volontà politica", andrà a finire.

Quale futuro per il Mezzogiorno

Il terremoto ha rivelato lo sfacelo del Mezzogiorno più povero: l'isolamento di un territorio dissestato, la povertà del tessuto produttivo, la disgregazione del tessuto sociale. Ci sono anche, nel Mezzogiorno degli Anni Ottanta, altre realtà: quella delle grandi città congestionate, alcune delle quali colpite anch'esse parzialmente dal terremoto; o quella delle zone coinvolte in uno sviluppo spontaneo, anche se disordinato, come la costa adriatica. Ma per almeno due caratteristiche il Mezzogiorno si presenta ancora come una realtà omogenea: la sua dipendenza dall'esterno e l'intensità della disoccupazione. Se una frontiera di Stato fosse stabilita sul Garigliano, la bilancia dei pagamenti dei Mezzogiorno segnerebbe un cronico deficit: e rivelerebbe che per almeno un quinto del loro reddito i meridionali vivono al di sopra delle loro risorse. Inoltre, con quel reddito, il Mezzogiorno non riesce ad occupare almeno il dieci per cento delle forze di lavoro disponibili. Non è una constatazione esaltante, dopo trent'anni di intervento straordinario. Quest'ultimo, infatti, ha trasformato, sì, il volto del Mezzogiorno, creandovi grandi infrastrutture, centri di industria pesante e, soprattutto, elevandovi il tenore di vita. Ma non è riuscito a realizzare una integrazione economica attiva col resto del Paese, sia dal punto di vista della capacità di sviluppo autonoma, sia da quello della creazione di una vera classe dirigente, imprenditiva e amministrativa.
In questi ultimi dieci anni, poi, il cosiddetto intervento straordinario è diventato quanto mai ordinario e secondario. Mai come in questi anni, mentre nei comizi domenicali si parlava di centralità del Mezzogiorno, quest'ultimo è stato marginalizzato. Dal punto di vista quantitativo, il flusso di risorse trasferito al Sud è sceso all'1,6 per cento del prodotto nazionale. Dal punto di vista qualitativo, esso è consistito sempre più in opere disorganiche e in incentivi finanziari non finalizzati da una programmazione industriale. Così, si è alimentato un flusso di spesa pubblica che, anziché contribuire a gettare le fondamenta di una struttura produttiva solida, si dirama in un sistema di canali assistenziali. Le numerose "chiuse" di cui questo sistema è punteggiato alimentano le clientele politiche, le burocrazie, le camorre: una sotto-borghesia che soffoca gli impulsi produttivi e i programmi di sviluppo.
E' su questo Mezzogiorno che si è abbattuto il colpo di maglio del terremoto. Esso può comportare due esiti. Può essere, come molti pensano e sperano, la sferzata di una ripresa vitale e rabbiosa. Ma può anche essere, come molti temono, la vittoria definitiva dell'assistenzialismo, alimentato da un nuovo cospicuo afflusso di fondi. I progetti, infatti, sono di là da venire. L'apparato clientelare, invece, si è subito organizzato, ed è stato fin dal primo momento pronto ed efficiente.
C'è la possibilità di evitare quest'altra sciagura al Mezzogiorno? Per questo, debbono concorrere almeno tre condizioni. La prima è un intervento davvero straordinario, per mettere immediatamente al lavoro il massimo possibile di giovani disoccupati. Il lavoro da fare c'è, ed è sterminato. I mezzi finanziari ci sono. Si faccia una leva straordinaria del lavoro, cominciando a costituire in loco l'agenzia del lavoro e il servizio di protezione civile.
La seconda è che Roma sia in grado di dire in concreto che cosa intende fare per il Mezzogiorno, in termini di posti di lavoro e di investimenti, non solo nei prossimi sei mesi o nei prossimi tre anni; ma nei prossimi dieci anni. Il totale abbandono di una prospettiva di programmazione adeguata al livello dei problemi strutturali del Paese non è stato un segno di concretezza, ma di irresponsabile miopia, che il Mezzogiorno, soprattutto, ha pagato.
La terza condizione è che il Mezzogiorno sia dotato di un apparato legislativo, progettuale e amministrativo adeguato alla portata dei suoi problemi. Quanto al primo, il ministro per il Mezzogiorno ha presentato un disegno di legge innovatore, nel senso della razionalizzazione e della produttività dell'intervento. Ma una buona legge non basta. Come non bastano stanziamenti finanziari anche cospicui, senza progetti di sviluppo seri e senza capacità amministrative. Il vero limite allo sviluppo non sta nelle risorse finanziarie, ma nella capacità di usarle, come dimostrano gli ingenti residui passivi accumulati dalla Cassa e dalle Regioni. Per saper progettare, occorrono esperti e tecniche di cui il Mezzogiorno è gravemente carente, e per i quali si dovrebbe ricorrere alle altre regioni del Paese e alla Comunità, in una vera e propria "leva dell'intelligenza".
Occorrono poi amministratori moderni e tecnici. Ma la capacità amministrativa non è solo un problema di uomini. E' un problema politico, che nasce dalla frammentazione delle responsabilità, agisce libero da vincoli, secondo le norme non codificate dell'ascrizione clientelare.
Il Mezzogiorno è la terra dei discorsi allusivi e dei poteri informali, dove la complicazione è fatta solo per chi deve restarvi impigliato. "Le leggi - diceva Giovanni Giolitti, che di potere nel Mezzogiorno se ne intendeva - per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano". Il terremoto dovrebbe essere l'eroica occasione per spazzare le complicazioni procedurali e concentrare i poteri di programmazione nelle Regioni -assistite dalle nuove agenzie dell'intervento straordinario - e quelli amministrativi nel Comune, unico microcosmo democratico che offra un appiglio alla ricostruzione di una classe dirigente nel Sud.
Politica di programmazione meridionalistica, azione straordinaria per l'occupazione, sviluppo dell'intelligenza progettuale e smantellamento della gramigna clientelare sono i temi di una possibile riscossa che non può contare solo sulla "rabbia di vivere" dei meridionali, chiamata in causa durante l'immediato dopo-terremoto, ma anche sulla capacità di governo della classe dirigente italiana.
Un economista calabrese, Antonio Serra, nel tracciare - dal carcere della Vicaria, dove scriveva nel 1613 - l'inventario dei mali del Mezzogiorno, identificava così gli accidenti cui far risalire l'inferiorità del Mezzogiorno rispetto ad altre parti d'Italia: la scarsità di artifizi (oggi diremmo: di industrie), di genti industriose (oggi diremmo: di imprenditori), e gli svantaggi del sito (oggi diremmo: del territorio); ma soprattutto (accidente degli accidenti), la "provisione di colui che governa".
Colui che governa oggi ha materia per riflettere. Il terremoto può essere un'occasione tragica per cambiare strada. Ma anche per allontanare ancor più il Mezzogiorno dalla via dello sviluppo: dando una ragione per abbandonarlo definitivamente agli uni; una ragione per affidarsi pigramente alla manna del sussidio clientelare, agli altri. In tal caso, i bollettini di una guerra cronicamente perduta dovrebbero ripetere monotonamente: a Mezzogiorno, niente di nuovo.

Tra presente e futuro

Che cosa fare per il futuro? Innanzitutto, riflettere e assumere decisioni:
- intorno all'entità finanziaria e alle modalità in cui si dovrà realizzare il programma di ricostruzione, di riassetto territoriale e di sviluppo economico e sociale dell'ampia area sconvolta dal terremoto;
- su che cosa resta dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno, e di quello straordinario in particolare - nei contenuti, nelle modalità e nell'assetto istituzionale - in rapporto alle sue questioni fondamentali del lavoro, della produzione, dell'assetto urbano, delle leggi specifiche.
Lo sforzo che lo Stato dovrà compiere nei prossimi anni per il Sud è paragonabile soltanto a quello realizzato nella fase di ricostruzione del Paese nell'immediato dopoguerra. Anche allora, sia pure in proporzione notevolmente più ampia e generalizzata, vi erano città e centri urbani da ricostruire, attività produttive da avviare e rinnovare profondamente, infrastrutture imponenti da riassestare o ricostruire o "inventare".
Per fare questo, però, è necessario mobilitare tutte le forze produttive e sociali del Paese, orientare il massimo delle risorse finanziarie e la totalità delle risorse addizionali disponibili verso il Mezzogiorno, dare efficienza e rapidità di esecuzione ai programmi e alla struttura istituzionale.
Nell'area investita dal terremoto vi sono due realtà sociali e produttive distinte, anche se strettamente interdipendenti: da una parte il sistema urbano principale, con le città di Potenza, Avellino, Salerno, nelle quali prevale il terziario pubblico e di intermediazione, con uno sviluppo industriale che, anche se ancora agli inizi, si stava rafforzando nel suo tessuto connettivo con l'insediamento di iniziative produttive di piccola e media dimensione, direttamente promananti dalle sue componenti più dinamiche; dall'altra parte, l'entroterra agricolo, esteso in terreni montani, con poche potenzialità irrigabili, con una popolazione attiva attorno al 50 per cento e con un terziario di mercato.
L'azione di ricostruzione, da promuovere attraverso uno specifico programma elaborato e gestito con la compresenza attiva di soggetti pubblici e privati, in modo da assicurare il massimo di flessibilità e funzionalità, dovrebbe riguardare i contenuti economici dello sviluppo, promuovendo direttamente o indirettamente le attività produttive, l'integrale riorganizzazione e riassetto del territorio, dei centri urbani, dei servizi e delle relazioni sociali per ricomporre un'identità dinamica delle popolazioni.
La ricostruzione dell'area distrutta dal terremoto potrà poggiare su solide basi di stabilità solo se il Sud intero procederà nella strada dell'unificazione economica con il resto del Paese. Crediamo che innanzitutto occorra prendere coscienza di alcune essenziali tematiche comuni all'intero Paese, che inevitabilmente influenzeranno le scelte per il Mezzogiorno. In primo luogo, intendiamo riferirci alle analisi condotte recentemente sulle tendenze della popolazione italiana e alle sue implicazioni sociali ed economiche, che si pongono in modo palesemente differenziato rispetto alle diverse aree urbane e produttive del Paese. Le previsioni sull'aumento della popolazione italiana al 1991 - anche se alla luce degli avvenimenti accaduti dovranno essere riconsiderate -conducono a valutare che l'incremento della popolazione attiva nel periodo 1971-1991 (circa quattro milioni di unità) si concentri per oltre il 70 per cento nel Mezzogiorno, con un incremento relativo del 24 per cento, contro appena il 5 per cento del Centro-Nord. Già oggi, del resto, l'incremento naturale della popolazione italiana si deve nella quasi totalità all'apporto dell'area meridionale.
In secondo luogo, si sta realizzando a livello internazionale, già da alcuni anni, un ampio processo di riallocazione delle risorse disponibili e una modificazione sostanziale nella divisione del lavoro.
Infine, un ultimo elemento riguarda il processo di allargamento della Comunità dei "nove", soprattutto per le sue ripercussioni nella politica agricola. Nella "CEE a dodici" gli occupati in agricoltura si eleveranno di circa il 55 per cento, sfiorando i 14 milioni di unità. In questa situazione, l'Italia e in particolare il Sud si troveranno a dover competere con le altre agricolture mediterranee all'interno di un mercato ristretto che, oggi, assorbe soltanto il 40 per cento dei prodotti "mediterranei" di provenienza dei Paesi aderenti alla Comunità, contro il 75 per cento dei prodotti "continentali" (carne, zucchero, burro e cereali).
Il nostro Paese sta attraversando una fase di mutamenti socio-economici estremamente diffusi, di spessore rilevante, soprattutto negli assetti sociali e nelle attività industriali, che hanno intaccato o almeno reso problematiche le stesse capacità e possibilità di progresso insite nel nostro sistema di economia di mercato. In tal senso, la questione meridionale si pone oggi in un contesto esterno radicalmente mutato e dominato in prevalenza da componenti di incertezza e di crisi, ma anche in presenza di fattori interni all'area meridionale di indubbia dinamicità e originalità. La situazione esistente nell'area più industrializzata, di stazionarietà o di decremento dei saldi netti di occupazione, deve convincere che non è più possibile pensare a spostamenti di forze di lavoro dal Sud verso le aree del Centro e del Nord. Pertanto, gli sbocchi occupativi devono essere ricercati soprattutto all'interno del Mezzogiorno. Ma sarebbe davvero velleitario condurre politiche di piena occupazione puntando esclusivamente sulle strutture e sui servizi interni del Sud, senza sperimentare eccezionali interventi di politica attiva dell'occupazione che si prefiggono in modo specifico la temporanea occupazione per migliaia di disoccupati.
Solo recentemente è stato compiuto da parte dell'operatore pubblico uno sforzo di acquisizione di conoscenze e di analisi prospettiche. Ciò ha consentito di cominciare a delineare una politica industriale, anche se ancora inceppata nel momento operativo, capace di espandere e mantenere a livelli competitivi il sistema industriale. Ora, se si assume come invariabile l'accennata previsione della popolazione attiva nei prossimi dieci anni e la rigidità dell'offerta di lavoro, la localizzazione dei nuovi investimenti nell'area meridionale, per l'allargamento della base produttiva del Paese, diventa quasi una direzione obbligata. Ne consegue che le opzioni e le scelte di linee produttive devono trovare il loro primo e più importante riscontro nella localizzazione territoriale. A tal fine, sembrerebbe essenziale peraltro riportare la gestione degli incentivi pubblici alle imprese industriali alla loro originaria funzione di assicurare effettivi differenziali nei costi di insediamento a vantaggio dell'area meridionale.
Le trasformazioni di questi ultimi trent'anni hanno profondamente modificato il tessuto urbano e insediativo del Sud, con l'emergere di due fenomeni strettamente correlati alle caratteristiche dello sviluppo: da una parte, l'addensamento della popolazione in centri urbani di medie e grandi dimensioni; dall'altra, lo svuotamento progressivo di piccoli centri, e in genere l'impoverimento, in termini di risorse disponibili e di attrezzature sociali, del territorio abitato.
Quel che è necessario intraprendere è soprattutto una svolta nel concepire il ruolo della città meridionale, che deve ridiventare o diventare centro promotore di attività produttive per le piccole e medie imprese e luogo di produzione di servizi, tradizionali e innovativi. Questo vale soprattutto oggi, nel momento in cui si deve affrontare la ricostruzione di tante città dell'area campano-lucana.
Appare ormai convinzione generalizzata la non omogeneità del Sud e la presenza al suo interno di differenziazioni qualitative e quantitative anche consistenti, nelle strutture produttive, nelle condizioni urbane e nella stessa intelaiatura istituzionale. Per questi motivi, gli strumenti dell'intervento straordinario oggi più che mai dovranno essere caratterizzati da una forte elasticità e propensione all'adattamento ambientale, senza irrigidire le strutture operative e i contenuti dell'azione pubblica. Ciò significa che bisogna puntare maggiormente che nel passato sulle realtà istituzionali e sociali, sulle autonomie e i nuovi soggetti dell'area meridionale, per far crescere dall'interno forze produttive e dirigenze nuove, un reticolo istituzionale più responsabile e più funzionale alla crescita delle componenti endogene di questa realtà.
Vi è infatti l'esigenza di prevedere strumenti e modalità di procedimento che siano capaci di adattarsi prontamente alle diverse "facce" dei Sud che esistono all'interno del Mezzogiorno: alla pianura, alla collina e alla montagna; ai grandi nuclei territoriali vicini a zone già sviluppate e a quelli che ne sono lontani; alle aree nelle quali si deve fermare il dissanguamento dell'emigrazione, e a quelle che hanno incrementato la popolazione per scarsa propensione alla "fuga" verso il Nord o verso l'estero. Se non si articola in questo modo l'intervento nel Mezzogiorno, se non si tiene conto di tutte - nessuna esclusa - le realtà territoriali, storiche, psicologiche e le componenti sociali, civili e umane di questi Sud, terremoto o no, il decollo del Mezzogiorno si potrà coniugare solo in un futuro di anni-luce.

Dai tecnici del Cnr la mappa sismica d'Italia

Disponiamo finalmente di una vera mappa sismica. L'hanno presentata gli studiosi del "Progetto Finalizzato Geodinamica" del Consiglio Nazionale delle Ricerche, anticipando di sei mesi la data di consegna prevista. La mappa che aveva regolato l'imposizione delle norme di costruzione antisismica è un prodotto davvero singolare della burocrazia italiana, e in particolare di uno speciale organo del Ministero dei Lavori Pubblici che ne ha curato la compilazione. Infatti, il criterio seguito era quello di dichiarare sismiche le zone dopo che un terremoto disastroso le aveva distrutte. Ciò che insegnano la storia (studio della frequenza dei terremoti nei secoli passati) e la scienza (studio delle zone predisposte a fenomeni sismici) non era mai stato preso in considerazione: si aspettava il terremoto.


Poche cifre consentono di apprezzare la sostanziale novità introdotta dalla nuova carta sismica del Cnr. Mentre il territorio protetto da normativa antisismica era pari a circa il venti per cento del suolo nazionale (1.337 comuni, nei quali risiede il 13 per cento circa della popolazione italiana), le zone che gli studiosi di "Geodinamica" hanno proposto di aggiungere sono pari a circa il 50 per cento del territorio (altri 1.357 comuni, abitati da circa il 22 per cento della popolazione italiana). La superficie protetta copre così la maggior parte della penisola. Relativamente "tranquille" restano soltanto alcune zone della Val Padana, del Piemonte, della Liguria, della Toscana, del Lazio, della Sardegna e della Puglia. I territori a più alto rischio sono la Calabria, la Sicilia orientale, una larga fascia dell'Appennino centromeridionale, aree sparse dell'Italia settentrionale.


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