Architettura spontanea




Enzo Panareo



Nell'inverno del 1964 si tenne al Museum of Modern Art di New York una mostra dal titolo "Architecture without Architects". Ideatore ed impaginatore della mostra era stato un illustre architetto statunitense, Bernard Rudofsky, il quale alcuni mesi prima aveva visitato in lungo ed in largo la Puglia, ed in particolare alcune zone di questa, ricavandone una somma di splendide fotografie, che, esposte, arricchirono anche il catalogo del Museum of Modern Art allestito in quell'occasione. (1)
Nodo centrale della mostra era, nell'ipotesi ideologica dell'architettura senza architetti, la cosiddetta architettura spontanea, altrimenti detta minore o popolare o rurale o folkloristica o paesaggistica. (2). Un'architettura, in altri termini, non pensata, non nata, dunque, da una sollecitazione culturale obbligata, al di là della programmazione operata da una individualità ben circostanziata nel costume e nella cultura, a schemi e moduli tradizionali. In una ipotesi di architettura spontanea, dunque, non è l'architetto con la somma delle sue esperienze storiche e culturali ad imporre se stesso all'edificio, ma è questo, o la somma delle esigenze urbanistiche e pratiche degli edifici, a condurre il disegno di un architetto ideale il quale è, tutto sommato, una mente collettiva che, rispettando sul piano di una coscienza della morfologia le norme di gestione dello spazio, risolve il dato estetico, magari inavvertitamente, sull'intuizione di una funzionalità che è culturale, di costume ed urbanistica.
Elemento fondante di un'architettura del genere, che è architettura a tutti gli effetti, e non tollera dunque pregiudiziali limitazioni canoniche, è la libera inventiva di coloro - la niente collettiva, ricca dei contributi delle molteplici individualità - i quali quest'architettura, all'interno delle costruzioni ed all'esterno, utilizzano avendone regolato lo sviluppo su esigenze pratiche ed estetiche sorte sul momento. Un'architettura, allora, sempre in fieri che trova il suo momento ultimo, storicamente anche determinato, allorquando il reticolo urbano nel quale quest'architettura, a sua volta, si è realizzata trova definita e, in questa definizione, inverata la sua dimensione umana.
Ed è evidente, a questo punto, come non abbiano senso le accezioni di minore o popolare e tanto meno quelle di, rurale o folkloristica o paesistica se sol per un attimo si pensa che la dimensione umana nella sua estensione ideologica è una dimensione universale. Che l'elemento rurale o popolare, nelle loro tradizionali accezioni di classe, abbiano potuto giuocare un ruolo nel farsi nel tempo di tale architettura è vero, come è vero, tuttavia, che i due elementi, a loro volta, rappresentano gli esponenti di una cultura i cui presupposti ideologici possono essere in grado di suscitare anche un'architettura - così come producono, per fare qualche caso, una poesia, una musica, una pittura - le cui connotazioni non si esauriscano sul piano della mera funzionalità. L'anonimia di quest'architettura, che si esprime con un singolare eclettismo compositivo fecondo di ritmi, come dato puramente incidentale non esclude allora quanto meno un senso estetico originario tra i più suggestivi. Scrive il Rudofsky a proposito di Martina Franca "... La vecchia città ovoidale - circondata da edifici più o meno recenti, fatta eccezione per un palazzo del Bernini - ha uno straordinario reticolo di pianta: strade strette e tortuose, impervie al passaggio dei veicoli, e circa centosessanta vicoli ciechi: un labirinto che metterebbe in imbarazzo Teseo: il selciato è netto e levigato, e i molti vicoli senza marciapiede sembrano i corridoi interni di un solo edificio monolitico. Porte e finestre fan pensare alle scure pitture astratte della scuola newyorkese, appese ai muri di un museo. Infatti, a differenza di Lecce con le sue facciate brune e crostose, Martina Franca è una città barocca bagnata nel bianco - è aperta, con le sue terrazze e i suoi tetti, su un panorama grandioso di mandorli e di olivi..." (3). Dove è facile constatare come il dato architettonico deve contestualmente trovare riscontro in un paesaggio dai caratteri definiti perfino nelle culture agrarie. Quel che distingue, infatti, al di là del dato architettonico e strutturale tanto efficacemente descritto dal Rudofsky, queste città di una Puglia sorgiva, la cui cultura è tramata su sapienza millenaria, è la poetica del bianco nel quale il sole, rispecchiandosi, e realizzando le infinite valenze plastiche della luce meridiana, esprime tutto il suo abbagliante vigore. Sotto il sole, infatti, il reticolo urbano, aggIutinandosi, si svolge in forme fantastiche di inediti chiaroscuri che, mutando nel corso della giornata, danno origine a soluzioni cromatiche giuocate, fondamentalmente, su due toni: quello della pietra dipinta a calce e quello dell'ombra che le masse non esposte producono, dai quali toni trae vita, in realtà, l'inventiva libera, quasi sfrenata degli improvvisati e saggi architetti, nella quale, peraltro, capriccio e, magari, senso dell'arguzia, quando non di un originale umorismo, rappresentano gli estremi di una cultura cordiale e ricca di umori. E, parallelamente, anche il verde e il verde bruno delle culture, infondo, giuocano un ruolo insostituibile nell'esaltazione del bianco della calce.
Ma quali sono in Puglia le città nelle quali questo tipo di architettura s'è manifestato in tutta la sua lussureggiante capacità inventiva?
Tracce di architettura spontanea, in realtà, s'incontrano un po' dappertutto in Puglia e si giustificano alla luce di ragioni storiche e socio-economiche molto evidenti. Ma dove essa rappresenta, e non soltanto in chiave architettonica ed urbanistica, una cultura, con le norme elementari di cui ogni cultura è partecipe, è a Ostuni, Cisternino, Martina Franca, Locorotondo, Monte Sant'Angelo e, in Lucania, Pisticci, per non citare che i centri nei quali il peculiare fenomeno architettonico rappresenta la base di una elaborazione ambientale, in chiave storica ed artistica, ricca di rapporti. In sostanza, non si tratta di individuare una tipologia fissa, standardizzata, comune a tutti i centri, ma una traccia dalla quale enucleare il discorso architettonico.
Si pensi, in realtà, al nucleo originario dal quale tali agglomerati, nella loro armonica disarmonia, hanno tratto origine e si pensi, anche, alle vicissitudini storiche, ambientali e, magari anche atmosferiche che hanno agito da propulsori per le innumerevoli soluzioni nelle quali l'architettura spontanea si è realizzata. Si pensi alle sollecitazioni di ordine culturale, di cultura come costume, alle quali quest' architettura s'è adeguata e, last but not least, ai materiali disponibili, facili da trovare, trasportare e lavorare, dunque, anche ai metodi di lavorazione che, anch'essi, in misura rilevante, rappresentano una cultura con le sue peculiarità umane prima che tecniche. Perché le tecniche di lavorazione, è acquisito, rappresentano nella continuità storica dell'umana fatica, uno dei capitoli più suggestivi ed interessanti della storia dell'uomo.
Non senza ragione uno studioso americano, Edward Allen, (4) nel descrivere con impareggiabile calore umano, con un senso di commossa poesia, le pietre di Puglia, ha intitolato l'ultimo capitolo di un suo libro, quello nel quale descrive, con lo scarno ma vibrante linguaggio dei dati tecnici, Cisternino, "Di pietre e malta: Cisternino", come a sottolineare che la magia del piccolo centro di una Murgia irripetibile, quella dei trulli, è dovuta a due insostituibili protagonisti, le pietre e la malta.
Tratto distintivo di insediamenti urbani del genere è la decorazione che si manifesta, oltre che con elementi architettonici caratteristici come archi, archetti, volte ogivali, scalette esterne ripide, comignoli, grondaie e balconi mensolati alla buona, senza fasto, con la grana dei materiali che a questi elementi hanno dato vita e con il gioco della luce su questa grana. Si pensi alla suggestiva luminosità, che a volte diventa luminismo, che assumono le pareti scabre, ruvide, dipinte a calce, di queste costruzioni allorché sono esposte al sole: all'interno di un ritmo compositivo, quello dato da archi, volte e scalette e dagli altri elementi decorativi, se ne determina un altro, cui fa riscontro quello del selciato uniforme sul quale si proiettano le ombre dei diversi elementi decorativi, la cui necessarietà, peraltro, è determinata da motivi di ordine pratico. Il discorso è sempre intorno alla poetica del bianco che automaticamente si traduce in poetica dello spazio abitabile. Infatti, abitare qui è come vivere in un'altra dimensione, nella quale l'individuo recupera, momento per momento, la propria storia secolare, la storia, cioè, di quanti lo precedettero, ma, altresì, inventa la storia di quanti lo seguiranno.
Afferma l'Allen, a proposito di Cisternino, ma il discorso vale anche per ogni altro centro. "... Per il costruttore niente era indispensabile se non la pura e semplice stabilità di ciò che costruiva. Un mezzo arco poteva ben sostenere una scala, mentre una volta a botte inclinata poteva coprirlo. Una volte a botte era intersecata dalla volta a punta di un abbaino. Un settore triangolare di volta faceva da sostegno ad un fronte diagonale di balcone se tenuto al suo vertice su mensole di pietre sporgenti. Un supporto ad una costruzione attraverso la strada poteva resistere alla spinta eccessiva di una volta o di un balcone troppo sporgente. Una camera di forma irregolare era facilmente coperta da una volta asimmetrica ... ": nulla,' dunque, di preordinato, di meccanicamente determinato, il disegno nasce dall'esigenza pratica ed è questa a fissare i canoni estetici che restano esclusivi di quest'architettura. Anzi, non si tratta di canoni estetici, ma di un libero moto della fantasia.
A questo punto pleonastico, addirittura privo di qualsiasi fondamento, sarebbe un discorso sulle tipologie nelle quali assume configurazione e personalità un'architettura del genere, imprevedibile nelle sue svariate soluzioni, affidate all'estro di individualità cui, d'altronde, interessava prevalentemente la soluzione di problemi di statica, ma anche di qualità della vita. Della vita che con il paesaggio urbano prima ed agrario poi deve confrontarsi quotidianamente, ricercando, in contesti estremamente intensivi per densità di popolazione, soluzioni ottimali sia sul piano produttivo che su quel lo abitativo vero e proprio.
Si tratta della vita che si manifesta nella sua dimensione quotidiana, senza eccezionalità di rilievo, si tratta di passioni serene, guidate da un destino millenario nel cui svolgersi la vita dei centri pugliesi s'invera. "Una specie di città-salone" afferma il Rudofsky di Martina Franca, ed aggiunge "senza traffico se non di ciclisti e di spazzini (le strade sono favolosamente pulite)", dove, con una rapida notazione di costume, è colta la qualità della vita che si svolge nell'abitato spontaneo di Martina Franca. Infatti, in rapporto a questa Puglia primordiale e civile, punto d'incontro e di scontro, nei secoli, di civiltà e culture, lo stesso Rudofsky afferma che "il suo fascino singolare sta nel suo carattere vernacolare", che è come dire in una essenza di umanità rimasta integra attraverso i millenni.


NOTE
1) -Cfr. Domus, 431, Ottobre 1965.
2)-Cfr. Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, diretto da Paolo Portoghesi. Istituto Editoriale Romano, 1965, vol. VI.
3) - li Palazzo Ducale di Martina Franca è attribuito al Bernini.
4) - E. ALLEN, Pietre di Puglia. Dolmen, trulli insediamenti rupestri. Traduzione di Vito Manzari. Bari, Mario Adda Editore, 1979.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000