Da Sud a Sud




Luigi C. Belli



Il teatro greco di Metaponto, testimonianza di una civiltà che fiorì nel cuore della Magna Grecia e dominò tutto il litorale jonico lucano. Otranto e il cinquecentesimo anniversario della stia tragedia. I "vattienti": la "rosa" in una mano, il "cardo" nell'altra, tre momenti di ciò che fu il Mezzogiorno, e di ciò che è.


La "cavea certo non vibrerà più alle lamentazioni del coro, né il pubblico sarà lo stesso che migliaia di anni fa si affollava sui sedili delle enormi gradinate a emiciclo dell'edificio, fremendo alla rappresentazione delle "Trachinie" o delle "Eumenidi", ma il teatro greco di Metaponto, sulla costa jonica della Basilicata, sarà lo stesso in grado di offrire uno spaccato autentico dell'arte e dell'architettura magno-greca. Poche settimane fa, infatti, un gruppo di studiosi, sulla base di una fatica archeologica durata decenni, ha potuto ricostruire, pezzo dopo pezzo, questo teatro, già noto nell'antichità e citato da storici come Pausania e Strabone, affrontandone un progetto di completo restauro. Rimettere assieme le tessere di un mosaico vecchio di oltre ventiquattro secoli comportava non solo la conoscenza approfondita della topografia di Metaponto, ma anche dell'arte, della storia e della letteratura dell'intera Grecia.
Ecco perché l'archeologo Dinu Adamesteanu, dopo aver rintracciato e portato alla luce l'edificio (e non solo questo), dandogli anche una precisa collocazione storica, ha chiamato a raccolta filologi, grecisti, architetti, nel tentativo di restituirlo alla fruizione di tutti. Metaponto, poi (storicamente una colonia degli
Achei del Peloponneso, ma la cui fondazione mitica si fa risalire addirittura all'eroe omerico Nestore e ai "Nostoi", quei reduci, cioé, della guerra di Troia, scampati nella penisola italica), per la complessità della sua storia, costituiva un problema nel problema. Questa città, infatti, andava famosa nell'antichità non solo per la fertilità delle sue terre e per l'agiatezza dei suoi braccianti, ma anche per la sua celeberrima Scuola di Filosofia. Una scuola filosofica fondata da Pitagora (che morì proprio in questa città) e che aveva come allievi i rampolli delle migliori famiglie greche: e proprio per questo anche il governo aristocratico metapontino subiva l'influsso potente della dottrina pitagorica. Ciò poteva significare che la tipologia dei monumenti pubblici, anche a distanza di anni dalla scomparsa di Pitagora, potesse essere differente da quella DEL mondo greco, in generale, e di quello di Magna Grecia in particolare.
Infatti il teatro di Metaponto, pur essendo greco, possiede sconcertanti caratteristiche in comune con quello romano: senza che le aquile imperiali si fossero ancora affacciate in questo versante dello Jonio. Una ricostruzione, dunque, difficile, dove è stato decisivo l'intervento dell'architetto tedesco Mertens, dell'Istituto Germanico di Roma, che è riuscito persino a ricostruire la cosiddetta "proedria", vale a dire la prima fila dei gradini del teatro, riservata ai personaggi di rango. L'unico problema, semmai, allo stato delle cose, rimane quello di stabilire (se mai lo si potrà) se in questi posti sedessero davvero le autorità del governo, e non, piuttosto, come succede nelle tribune d'onore dei nostri stadi, raccomandati e politicanti di bassa lega.
Per la storia, furono scolpite 2.500 anni fa le pietre di questo teatro, ma la loro storia solo da poco tempo è stata conosciuta: da quando, cioé, una campagna di scavi sistematici le ha riportate alla luce. Sono le testimonianze di una civiltà che fiorì nel cuore della Magna Grecia: una comunità che operò sulla costa jonica lucana dominandola soprattutto dall'alto della sua cultura e della sua attitudine al commercio e all'industria, e che addirittura anticipò i futuri sviluppi dell'architettura romana, come dimostra il prospetto ricco di decorazioni all'esterno del teatro.
I blocchi di pietra sono stati ordinati con estrema cura, restaurati o integrati (se non proprio ricostruiti) con una pietra artificiale ottenuta dopo l'analisi del materiale fatta in laboratorio. La malta ricavata da speciali impasti è molto simile alla pietra dell'epoca, sicché quando gli antichi monumenti saranno sistemati al loro posto, così com'erano quattro secoli prima di Cristo, risulteranno perfettamente uguali a quelli che diedero vita ad un'attività culturale molto fiorente. Sono state le fotografie aeree a dare una grossa mano al professor Adamesteanu, che dalla natìa Romania si era trasferito in Italia ed era approdato in Basilicata come Soprintendente archeologico, a convincere anche i più diffidenti che Metaponto era proprio lì. Iniziarono dunque i primi scavi. Oggi, tutto ciò che è stato riportato alla luce grazie alla genialità e alla tenacia di questo amico dell'Italia e della Magna Grecia è un motivo di riflessione importante per la conoscenza della storia del Mezzogiorno antico, che va dal VII al IV secolo a.C.
Otranto 1980: a cinque secoli dalla presa, è ancora vivo il ricordo di quei terribili momenti; e se pure dal mare non emerge più alcun pericolo barbaresco e i saccheggi, le rapine, le uccisioni e la schiavitù non siano ormai che memoria storica, la città sembra rivivere, il 10 agosto, quella sofferta esperienza: nelle celebrazioni - quest'anno davvero eccezionali - e nella ricostruzione degli avvenimenti, nella commemorazione degli "Ottocento che quel giorno dissero no" e nella ricerca di nuovi rapporti, culturali e civili, con i nipoti dei pronipoti dei nemici di un tempo.
Fu un'età che segnò la vita, la storia, la letteratura popolare e colta, il linguaggio degli otrantini, con una coralità sconosciuta a qualunque altra area - pugliese, lucana, calabrese, persino campana -- raggiunta dagli scorridori. Probabilmente perché nessun'altra città di analoghe dimensioni subì una vicenda tanto drammatica; perché questa vicenda, al di là della verità storica (sempre in qualche modo distorta con il passare del tempo, per il sovrapporsi e l'innestarsi di elementi mitologici, leggendari) sfociò in un grandioso fenomeno di fede; perché la cultura - non solo locale - ne ha tenuto quanto mai vivo il ricordo. Eppure, rispetto alla storia "vista dall'altra parte", l'assalto e la presa di Otranto fu un avvenimento poco meno che marginale. Tant'è che rarissime sono le fonti islamiche.
E' appena il caso di ricordare che la scorreria non era praticata solo dai barbareschi del bacino centro e medio-orientale del Mediterraneo. Se piccoli e medi centri abitati del Sud subirono, anche a più riprese, gli assalti saraceni, algerini, turchi, sorte non diversa capitava a centri e a navi islamiche ad opera di scorridori occidentali, cristiani, i quali praticavano intensamente la tratta degli schiavi, la rapina e il saccheggio. Il Mediterraneo era un "lago salato" infestato da pirati di tutte le razze e di tutte le lingue. Otranto, dunque, rientrava perfettamente in questi "rapporti" determinati dalla condizione di precarietà in cui si trovavano le città costiere, lungo l'intera fascia rivierasca mediterranea.
Certo, il centro salentino conobbe, a differenza di quanto si verificò per l'intera Sicilia o per la Spagna, solo gli aspetti negativi della presenza turca e islamica. E lo stesso può dirsi per Taranto e Bari (città occupate in epoche diverse). Non un'architettura, non una scultura, non una poesia. De resto, la dominazione fu breve e, appunto, predatrice. E se dovessimo in qualche modo renderla emblematica, attraverso un'immagine di sintesi, lo faremmo attraverso quello scorcio di mura, che possiamo ancora vedere: vi è confitta una palla di catapulta. Testimonianza quant'altre mai eloquente di quanto è rimasto, oltre al fiore all'occhiello della fede, di quei giorni.
C'è un rito cruento, il sabato di Pasqua, nel profondo Sud. Scorre sangue vero, che arrossa gli usci e le strade di Nocera Terinese, un piccolo paese in provincia di Catanzaro, dove l'emigrazione è l'unica risposta al lavoro. E' più di una "sacra rappresentazione", quasi una cerimonia nella quale magia e religione si fondono nel nome della tradizione.
Il rito è quello dei "vattienti", e si ripete ormai da centinaia di anni (pare risalga al XVI secolo) a sottolineare il bisogno di una comunità - tra le più sperdute in un Mezzogiorno affastellato di miti e di tradizioni popolari - di riaffermare la propria identità culturale. Le motivazioni sono religiose, ma c'è un fondo di paganesimo che pervade l'animosità dei penitenti, che col sangue festeggiano Cristo che risorge. Il venerdì santo è giorno di lutto; sabato vede avvicinarsi il momento dell'apoteosi. Il "vattiente" è un credente che compie un rito devozionale il giorno in cui tutto il paese è impegnato a seguire, in una processione interminabile, una statua lignea della Pietà, che con ogni probabilità risale al XVII secolo. E' una processione che vede levarsi preghiere per la resurrezione insieme con canti popolari in dialetto: canti "della Passione" che si tramandano ormai solo oralmente. Una processione alla quale tutti, ad ogni costo, vogliono prender parte: coloro che trascinano sulle spalle la pesante vara dell'Addolorata (portata in tutti gli angoli, in tutte le strade, senza esclusione) sono sempre gli stessi, anno dopo anno, e tramandano tale ufficio da padre in figlio. E per chi è lontano, per l'emigrato, i giorni della Pasqua con i riti di Nocera rappresentano un appuntamento al quale non si può mancare: l'appuntamento con la propria fede, non solo un breve ritorno a casa. Il giorno della Passione rappresenta il momento di manifestare di fronte all'intero paese la propria devozione, riaffermando la sacralità di un gesto che persino il Vescovo del centro più vicino, Tropea, ha più volte - inutilmente condannato.
Luigi Lombardi Satriani, tra i più attenti studiosi delle tradizioni popolari del Sud, sostiene che in questi paesi "i processi degenerativi del tessuto sociale e le violenze acculturatrici si stanno consumando fino in fondo. Non siamo - prosegue l'Autore - in presenza di relitti culturali di epoche precedenti che si trascinano inerti ( ... ), la flagellazione sottolinea la centralità della cultura folclorica del tema del sangue che, in quanto simbolo della vita, non può essere inpunemente versato e rende decisive e irrevocabili le azioni".
I "vattienti", mentre tutto il paese è dietro la processione, si flagellano - secondo una gestualità rituale immutata nel tempo - le gambe e lasciano scorrere il sangue per le strade, correndo su e giù per il paese. Solo dopo che è stata resa visita a tutti i parenti, gli amici, ed eventualmente anche alla fidanzata (che in questo caso prende come buon auspicio la vitalità del promesso sposo che sanguina), il "vattiente" ha concluso il rito: può dunque medicarsi le ferite e andare in chiesa, in visita alla Madonna, a processione rientrata.
Sono una trentina in tutto i "vattienti" che ogni anno ripetono il rito. Ci sono stati casi di emigrati i quali, non potendo far ritorno a Nocera il Sabato Santo, si son fatte sanguinare ugualmente le gambe nei Paesi nei quali risiedono; altri, sempre in quel giorno, hanno donato il sangue alle emoteche: importante, è non interrompere la tradizione.
La preparazione avviene in un locale attiguo all'abitazione del "vattiente": qui hanno accesso solo i maschi. Il "vattiente" si toglie gli abiti e indossa una maglia di lana nera, un pantalone corto, e si copre con il "mannile" (un panno nero indossato abitualmente sul capo dalle donne) la testa, appoggiandovi sopra una corona di spine.
Insieme con il "vattiente" si prepara un ragazzo, comunque un giovanissimo, chiamato "acciomu" ("Ecce Homo"), il quale si cinge i fianchi con un panno rosso e porta sulla testa una corona di spine con lunghi e aguzzi aculei (la "spina santa"). L'"acciomu", con una croce rivestita di panno rosso, accompagna, il "vattiente" nella sua corsa per il paese, restando legato ad esso con una cordicella di qualche metro. Il "vattiente" si lava i polpacci e le gambe con un infuso di acqua e rosmarino, che ha funzione disinfettante, quindi incomincia a flagellarsi gli arti. Per quest'operazione dispone di due dischi di sughero che sono chiamati "rosa" e "cardo". La "rosa" è un disco levigato con il quale il protagonista si batte le gambe per far affluire il sangue; il "cardo", invece, porta tredici pezzi di vetro attaccati al sughero. E' con il "cardo" che il "vattiente" si lacera, con colpi secchi e violenti, le gambe, lasciandosi sanguinare.
Ha inizio così il rito vero e proprio. Il "vattiente", che secondo la tradizione non può incontrare la statua dell'Addolorata, corre per le strade del paese, fermandosi davanti alle case di amici e parenti. Ad ogni sosta crescono i colpi di "cardo" e le gambe si rigano completamente di sangue: il sangue che arrossa vie, porte di abitazioni, gradinate. Ma il "vattiente" soffre in silenzio la "penitenza". Concluso il giro del paese, questo protagonista, ferito anche profondamente, ma felice d'aver compiuto il suo atto devozionale, fa ritorno a casa, si rimette in sesto, e prende la via della chiesa. Il sangue, dunque, assume un significato di offerta di se stessi alla divinità per propiziarsela, (un fervore religioso che poggia troppo sulla mortificazione della carne, sulla scorta di antiche tradizioni medioevali di flagellazioni); ma il gesto in sé racchiude anche una specie di sofferta rabbia secolare contro l'abbandono e la miseria del paese.
In un Sud che sembra ancora assai lontano dall'"altra Italia", nel quale magia e sofferenza, mito e religione, tradizione e disperazione si fondono con l'interiore rivolta della gente emarginata, la celebrazione della Passione, più che rinascita della vita, sembra rappresentare il trionfo della morte. Una morte trasfigurata in evidenti tracce della propria identità culturale, mai rinnegata.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000