§ CRISI E MEZZOGIORNO

Nuovi indirizzi di politica industriale




C.A.



La stimolante lettura dell'articolo di Rosario Romeo, "L'agricoltura non basta", apparso di recente su questa rivista, pone agli studiosi di economia e di politica industriale alcuni elementi di riflessione di indubbio interesse speculativo ed operativo. Gestire la crisi in atto nel Nord industrializzato vuol dire mettere a punto un complesso meccanismo di interventi nei settori del credito, della finanza pubblica e della strategia d'impresa a livello commerciale e produttivo, i cui obiettivi possono non coincidere e talvolta divergere con le vie di sviluppo approntate per il Sud agricolo ed in via di industrializzazione. Bisogna dunque fare attenzione alle tendenze all'arroccamento, sollecitate dalla tentazione del "si salvi chi può".
Evidentemente per il Mezzogiorno l'agricoltura non basta e non bastano neanche l'agriturismo e la vocazione turistica costiera che, sollecitata da illusioni di breve periodo, ha finora prodotto più disastri ecologici che vantaggi economici. Perciò l'interessante tema proposto dal professor Romeo non va lasciato cadere, ma merita un serio ed approfondito dibattito, in un momento come quello attuale, in cui si va ridisegnando per intero la mappa del futuro industriale del Paese. L'auspicio è che questo mio intervento non resti isolato, ma trovi un seguito in altre opinioni più autorevoli e impegnate.
La vera incognita dell'economia meridionale sta, oggi come ieri, nel tipo di assetto industriale praticabile in un'area fortemente popolata ed agricola per vocazione ancestrale. Non è in discussione l'arresto del processo di sviluppo industriale nel Mezzogiorno (una soluzione di questo tipo sarebbe irrealistica e catastrofica per lo stesso assetto industriale settentrionale, che verrebbe gravato da ulteriori oneri impropri, non più sopportabili dalla ridotta competitività del sistema), ma la sua qualificazione in un disegno unitario di compatibilità economiche predisposto per ragioni di mercato e non di mero calcolo politico. Una considerazione preliminare, a mio avviso assai utile da tenere a mente, è data dall'acquisito insediamento nell'arca meridionale di industrie di base ormai operanti da oltre un decennio (chimica e siderurgia in particolare), al cui surplus produttivo bisogna trovare una risposta anche di tipo meridionalistico. Sono stati compiuti sforzi enormi (la cui utilità è indiscussa) per costruire le cattedrali dell'industria moderna; adesso bisogna animare il deserto che le circonda. Bisogna cioè provvedere all'approntamento di un sistema industriale di trasformazione (si pensi all'elettronica, alla meccanica, alla componentistica) che, utilizzando i prodotti di base, riesca a fornire prodotti finiti ad alto contenuto tecnologico, dando senso compiuto ad un sistema industriale che allo stato attuale sembra mosso ancora dai canoni dell'avventura pionieristica.
E poiché la componente estera della domanda globale assume rilievo sempre maggiore nella definizione delle aree di vendita, è fondamentale stabilire quali canali di commercializzazione devono privilegiare i nostri prodotti meridionali. Quantificando, ad esempio, i nostri rapporti economici attuali e futuri con i paesi arabi produttori di petrolio, ritengo che non dovrebbe essere difficile selezionare una serie di iniziative industriali approntate nel quadro dell'interscambio e della compartecipazione, in grado di dare respiro alle attività industriali meridionali del manifatturiero e dell'indotto.
A ben guardare, razionalizzare ed organizzare la produzione su scala industriale è, sì, un problema di politica industriale, ma la sua attuazione richiede necessariamente soluzioni di concerto con una politica del commercio con l'estero che non può essere lasciata al mero arbitrio delle imprese. Non è più pensabile condurre una seria politica commerciale verso l'estero con le riduttive pratiche correnti volte a collocare sulle piazze estere ciò che una capacità produttiva esorbitante non riesce a collocare sul mercato interno. Il suo compito primario è quello di individuare, in relazione alle possibilità di sviluppo ed alle capacità di assorbimento dei mercati esteri, le opportunità di espansione del mercato interno, subordinando ad esse gli obiettivi di ristrutturazione e di sviluppo previsti per i singoli settori produttivi e quindi collocando in una visione organica del mercato il meccanismo degli accordi bilaterali e multilaterali di lungo periodo. E' amaro dover constatare che alla grave crisi dell'apparato industriale non si sia riusciti ancora a contrapporre una seria terapia d'urto, ancorata alle tendenze evolutive che la divisione internazionale del lavoro prospetta per gli anni Ottanta.
Per il Mezzogiorno, un altro problema degno di attenzione riguarda i soggetti erogatori degli investimenti produttivi: se cioè gli investimenti devono essere direttamente effettuati dalla mano pubblica o se, invece, devono essere affidati in prevalenza alla libera iniziativa privata, approntando semplici controlli statali, con annessa gestione degli incentivi. Trattasi di una scelta politica attorno alla quale è in atto un ampio dibattito che investe anche la modificazione del quadro istituzionale utilizzato per gestire l'intervento straordinario.
Prendendomi la libertà di una breve digressione su questo tema, intendo far notare che anche i problemi attinenti al "fattore umano" si collocano nel contesto in esame. All'osservazione "il Sud non si sviluppa perché non è sviluppato", bisogna rispondere con la creazione di strumenti culturali (anche di iniziativa privata) funzionalmente compatibili con la realtà industriale che si vuole accreditare. Abbandonando la nefasta esperienza dell'acculturazione di massa, che depauperando risorse ingenti ha prodotto per un decennio disoccupati e disadattati, occorre insediare nel Mezzogiorno scuole per la formazione manageriale, centri di marketing, istituti per lo studio della finanza, della gestione, dell'organizzazione aziendale e delle relazioni industriali (l'esperienza FORMEZ è valida ma non sufficiente). L'impiego selettivo degli investimenti non può tenere conto solo delle istanze produttive, ma deve formare contestualmente le risorse umane necessarie per recepirle e difenderle come conquista sociale irreversibile. L'obiettivo da conseguire è certamente rivoluzionario per la società meridionale: creare un lavoratore impegnato in fabbrica, dotato di un quadro di valori ad essa inerenti, diversi da quelli propri della cultura contadina. Non si possono tenere le mani sui bulloni mentre cervello e cuore continuano a vivere in campagna! L'assenteismo elevato dell'Alfa Sud ed in generale la disaffezione per il lavoro di fabbrica sono la testimonianza di una organizzazione del lavoro ancora estranea ai valori culturali della società meridionale.
Questa convinzione va posta anche a base del riordino della proprietà fondiaria, ormai necessario non solo per dare dimensione economica all'impresa agricola, ma anche per definire i nuovi ruoli dell'impegno attivo richiesto alle popolazioni meridionali.
Assumere oggi un impegno per il Mezzogiorno che non abbia il sapore dell'esercitazione cartacea vuol dire dunque adoperarsi per definire il ruolo industriale ed agricolo ad esso assegnato nel contesto della domanda globale di sviluppo. Non è forse, questo, un altro servizio reso al Nord congestionato e depresso da una crisi strutturale, che i suoi centri decisionali hanno sicuramente avvertito con ritardo e mostrano ora di gestire con mano incerta?
Un'opera di chiarezza mercantile che consentisse di superare nel Sud la confusione in atto provocata dalla facilità con cui gli interventi pubblici alimentano ogni manifestazione di spirito d'impresa, che spesso si traduce in danni economici e sociali, sarebbe già per l'immediato un traguardo apprezzabile. In fondo, con un pò di riflessione, si può constatare che i nodi dell'inflazione e della recessione si sciolgono anche portando il Mezzogiorno nelle aree di mercato e non riservandogli l'eterno ruolo subalterno di economia assistita e di rapina. Un ruolo che fino agli anni settanta poteva essere conveniente per raffreddare la dinamica salariale in un clima di relazioni industriali animato dalla conflittualità permanente, ma che certo non lo è più nel contesto di una futura crescita industriale la cui efficienza si misura col metro della produttività per addetto e quindi presuppone, obtorto collo, una collaborazione necessaria tra sindacati e dirigenza aziendale.

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