Agricoltura e dissesto idro-geologico




V. A. S.



Quando si parla di arretratezza dell'agricoltura, ci si riferisce in genere alle carenze, di antica data, che affliggono le regioni centro-meridionali e, in particolare, le aree altocollinari e quelle montane. E', questa, una impostazione corretta, giustificata cioè dal fatto che le pianure settentrionali garantiscono ormai agli agricoltori redditi paragonabili a quelli dei loro colleghi nord-europei.
Eppure, è proprio sulle pianure che oggi incombono le minacce più gravi: negli ultimi anni, infatti, ai ritardi accumulati nella realizzazione di nuove infrastrutture, destinate alle aree "svantaggiate", si è aggiunto il grave abbandono del patrimonio di aree idrauliche esistenti. E siccome l'80 per cento delle aree pianeggianti oggi coltivate sono state recuperate attraverso opere di bonifica idraulica, svolte in questo secolo, non c'è da meravigliarsi se a causa di questo abbandono nei prossimi anni la produttività delle pianure andrà declinando.
In altre parole: il dissesto idro-geologico, oltre ai danni provocati dal clima e dalle alluvioni, ha un preciso costo in termini di minore efficacia dei sistemi di irrigazione e di scolo delle acque. D'altra parte, rinnovare questo complesso di opere non è lavoro da poco: negli ultimi decenni, nell'ambito delle opere di bonifica, sono stati realizzati 82 mila chilometri di canali irrigui e di scolo; 2.350 impianti di pompaggio dell'acqua; 32.500 chilometri dì strade interpoderali; oltre 500 acquedotti rurali; 45 dighe e impianti di sbarramento. Da venticinque anni a questa parte, però, sostiene il presidente dell'Associazione Nazionale delle Bonifiche, Medici, "la pubblica opinione, distratta da altri problemi a torto giudicati più urgenti, ha completamente dimenticato che il territorio del nostro Paese è stato letteralmente costruito dall'uomo, e che quindi per sua natura presenta ogni anno un preciso costo di ammortamento e di manutenzione". Un costo che di solito viene considerato dalle imprese industriali e regolarmente inserito nei bilanci. Per le imprese agricole, invece, ciò si verifica molto di rado; e quasi mai si verifica per le imprese pubbliche. E dal momento che l'incuria non paga, oggi siamo costretti a dover fronteggiare, in condizioni di emergenza, i problemi dell'ammodernamento della bonifica idraulica.
Quali sono le cause della crisi? Varie, e strettamente interconnesse. Innanzitutto, c'è il naturale invecchiamento delle opere, che spesso sono state realizzate nella prima metà del secolo: in molti impianti, quindi, funzionano pompe di cinquant'anni fa, mentre in qualsiasi stabilimento industriale lo stesso apparecchio sarebbe stato sostituito cinque volte. Ma, soprattutto, negli ultimi trent'anni, cioè dopo il completamento delle principali opere di bonifica, si sono andate delineando nuove realtà agronomiche e urbanistiche, che hanno modificato le esigenze di utilizzazione e di trasferimento delle acque. Se, per esempio, per la coltura del grano, un tempo di gran lunga prevalente nel Mezzogiorno, e particolarmente in Puglia e in Sicilia, basta un'aratura piuttosto superficiale, e quindi le esigenze di scolo delle acque riguardano un modesto spessore di terra, alcune colture che si sono andate affermando negli ultimi anni hanno esigenze assai diverse: per il pesco, infatti, occorre una profondità di un metro; per il mais, una profondità di sessanta centimetri. Si tratta, in sostanza, di adattare gli impianti idrici alla nuova situazione. In caso contrario - come già si sta verificando in diverse aree pugliesi e meridionali - la terra finirà col respingere, a breve o a medio termine, le nuove colture. C'è poi il problema urbanistico. Negli ultimi anni, sono stati urbanizzati in Italia mezzo milione di ettari di pianura: questo imponente fenomeno ha richiesto l'impermeabilizzazione (attraverso l'asfalto o altri sistemi) di vastissime aree. Ne è derivato un aumento della velocità di scorrimento delle acque, che spesso sono andate a intasare canali ormai insufficienti. Da sottolineare due cose: che nel Mezzogiorno le aree altocollinari e montane condizionano tutti i tipi di coltura, bonifiche e irrigazioni, produzioni e trasporti, commercializzazione ed esportazione; che dì conseguenza, siamo costretti a subire la concorrenza accanita dei nuovi Paesi emergenti del bacino mediterraneo: non solo quelli della fascia settentrionale africana e medio-orientale, ma anche degli altri Paesi, quelli associati alla Comunità Economica Europea.
Nel settore delle bonifiche, settore trainante per l'ammodernamento della nostra agricoltura, negli ultimi trent'anni sono stati investiti soltanto tremila miliardi di lire. Che cosa fare? Innanzitutto, occorre aumentare il "franco", vale a dire lo spessore del terreno interessato dalla bonifica. Bisognerà poi approfondire le strutture di canalizzazione e di distribuzione delle acque per migliaia di chilometri, risistemando anche gli argini, soprattutto nelle zone di media e grande altitudine, dove fiumi e torrenti meridionali hanno la violenza degli arieti: una forza distruttiva, anche per la mancata politica delle sistemazioni geologiche e dei rimboschimenti. Ancora, vanno rinnovati molti impianti idrovori. Infine, si devono estendere gli impianti irrigui. Un programma che, a conti fatti, prevede investimenti complessivi per tremila miliardi di lire nell'arco di dieci anni. E poichè stiamo parlando di opere pubbliche, soprattutto a favore del Mezzogiorno, la parola passa allo Stato e ai suoi Enti di intervento straordinario.

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