Crepuscolo a Mezzogiorno




Cesare Zappulli



Negli anni buoni, i perduti anni Cinquanta e Sessanta, quando le imprese formavano profitti e reinvestivano, lo sviluppo del Mezzogiorno stava arrivando di soprappiù, per propagazione. Poi, alla fine degli anni Sessanta, l'economia italiana si ingrippò. Si impennò in salita, sotto i colpi della controrivoluzione industriale propagandata da sociologi e visionari, del classismo verboso della sinistra, degli autunni caldi. Ne seguì (e continua un lungo periodo di "non governo" ispirato dalla concezione che dovesse essere la spesa pubblica, con la sua redistribuzione sociale del reddito, le sue megalomanie industriali e i finanziamenti disinvolti, a rimettere in moto la macchina e riprendere la rincorsa all'Europa. Niente di niente. Nel frattempo, a rendere più disperante la situazione, sono sopravvenuti i guai del petrolio e l'inflazione al 20 per cento. In questa bufera, dov'è finito lo sviluppo del Mezzogiorno? Che ne è?
Francesco Compagna, meridionalista dotto e come pochi altri informato, ci dà conto di un suo attento sopralluogo fra le delusioni e le attese del Sud in un agile volume (Mezzogiorno in salita, Editoriale Nuova, pagg. 176), che ha tutti i titoli per aspirare ad essere un breviario politico.
Il libro prende le mosse di lontano, vale a dire dal quasi inspiegabile "struggimento" dell'Italia del sottosviluppo - la Calabria come in Nepal, Napoli e Palermo come Calcutta - per l'Europa; ed è questo dato, ancorché semplicemente culturale e non influente sulla "prassi" del vivere, che vale a differenziare il nostro Mezzogiorno da un'India o Egitto o Algeria. Non abbiamo il Terzo Mondo in casa, insomma, a dispetto della vocazione del populismo domestico a fare causa comune. Ma questo Sud dalle ambizioni continentali rischia la frustrazione, a misura che l'economia italiana si blocca, o come abbiamo detto s'ingrippa.
L'Italia dovrebbe essere oliata. La sua renitenza al moto o mobilità, forse indotta dalla paura del peggio, non si manifesta soltanto nel rifiuto dei lavoratori di secondare le esigenze delle imprese, nei salvataggi di aziende senza speranza, nella cassa d'integrazione, nel blocco dei fitti e nell'equo canone; è avvertibile altresì nella difesa illogica della piccola conduzione contadina e del mini-fondo, che impediscono l'innesto di imprenditorialità nell'agricoltura. Ognuno tiene disperatamente quello che ha, si oppone al mutamento, rigetta ogni tentativo liberista volto a fluidificare il sistema. E questo ottuso desiderio di conservazione può far sì che il momento del Sud, apparso e poi repentinamente scomparso, non si presenti mai più.
Francesco Compagna ne ha per tutti. Ne ha per una sinistra loquace e inconcludente che cova i miti del pansindacalismo, del panregionalismo, delle glorie (quali?) del '68. Ma di più ne ha contro un sindacato che, mentre si vanta di formulare "piattaforme contrattuali di taglio meridionalistico", ha operosamente lavorato ai danni del Mezzogiorno proteggendo i già occupati a spese dei disoccupati e soprattutto dei giovani, di cui il Sud è ancora buon "produttore". L'abolizione delle cosiddette gabbie salariali e la fiscalizzazione estensiva degli oneri sociali, togliendo al Mezzogiorno i punti di vantaggio compensativi delle diseconomie locali, hanno avuto per effetto di dissuadere l'industria europea dall'insediarvisi. Questa ha, per così dire, sorvolato il nostro Sud ed è andata ad insediare le sue iniziative a tecnologia matura in Paesi socialmente meno esosi.
Così il Mezzogiorno d'Italia, ultima riserva comunitaria di "manodopera bianca", ha perduto la sua occasione; i casi clamorosi dell'Alfa Sud di Pomigliano, insulse manifestazioni di ribellismo anti-industriale, e il vaniloquio sociologico di quanti vorrebbero affidare lo sviluppo alle velleità, coniugate, dei sindacati e delle regioni, hanno fatto il resto, dando luogo a un "Investitionclima" del tutto negativo.
Ad onta di ciò, osserva Compagna, il consuntivo dell'industrializzazione non è fallimentare, se il Sud è arrivato a contare 5588 stabilimenti manifatturieri con più di 20 addetti, di cui 4647 in proprietà di meridionali e 941 di imprenditori di fuorivia (incluse le Partecipazioni Statali): vero è, peraltro, che le iniziative importate danno il 55 per cento dell'occupazione, mentre quelle locali si restringono al piccolo o al minimo. E qui alla domanda obbligatoria - perché un'imprenditorialità meridionale non si è manifestata? - Compagna avverte il rischio di una spiegazione etologica (l'indole, il clima, ecc.) e preferisce rispondere che le forze migliori furono attratte dall'industria facile dell'edilizia (e, aggiunge, degli appalti dei lavori pubblici), e che altre, sul punto di prendere forma, furono messe in fuga dal terrorismo anti-industriale del 1968 e degli anni che seguirono. L'argomentazione pare la più debole del libro, mentre resta vero che un più nutrito esodo di capacità d'impresa e di management dal Nord al Sud d'Italia sarebbe valso a superare quel punto critico del decollo meridionale. Ciò non avvenne. La stessa Alfa Romeo si guardò dal destinare a Pomigliano le sue forze migliori; e ciò, insieme con lo sciagurato sedimento "statalista" delle plebi locali o Stato paga sempre) originò la tabe dell'Alfa Sud.
Compagna, meridionalista impavido, dimostra che si può ricominciare; si deve ricominciare: ma estromettendo dalla politica per il Sud le Regioni, rivelatesi arroganti, rissose, sonnolente, inette. Dopo il fallimento nell'applicazione delle direttive comunitarie per le strutture agricole e la dimostrata incapacità di spendere i 1.400 miliardi che l'Italia riceve dalla CEE, le Regioni minacciano ora di ripetere la prova con l'ultima preda della loro "competenza": il turismo. Dopo tutto, conclude Compagna, meglio la Cassa del Mezzogiorno.

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