§ SCORTE STRATEGICHE

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M. W.



Per ora è solo un'ipotesi. Ma, con i tempi che corrono, molti operatori economici stanno per prenderla seriamente in considerazione. Se l'Unione Sovietica e il Sudafrica decidessero contemporaneamente di non vendere più materie prime all'Europa Occidentale, nel giro di trenta giorni l'Italia resterebbe praticamente senza un'oncia di manganese, di vanadio e di platino, troverebbe enormi difficoltà a procurarsi un poco di cromo e andrebbe mendicando altre materie prime industriali. Il manganese è indispensabile per la preparazione di quasi tutti gli acidi e praticamente non ha materiali sostitutivi; il vanadio viene utilizzato in importanti ferroleghe; il platino ha un campo di applicazione molto vasto (industria automobilistica, chimica, elettrica e petrolifera); il cromo è un materiale quasi insostituibile nelle lavorazioni metallurgiche e chimiche. Il blocco ipotizzato non creerebbe la stessa situazione in Francia e nella Repubblica Federale Tedesca. Già da tempo i governi di questi due Paesi hanno organizzato lo stoccaggio di scorte di minerali strategici e la Bundesbank, Banca Centrale tedesca, ha stanziato 325 milioni di dollari (275 miliardi di lire) per finanziare scorte di dodici mesi, presso le industrie, di cromo, manganese, cobalto, vanadio e amianto, mentre la Francia accumula stock di metalli che garantiscono all'industria nazionale un'autonomia non inferiore a tre mesi.
Per il gruppo di metalli ritenuti maggiormente critici (cromo, manganese, cobalto e vanadio), dal 1975 la Francia ha accantonato scorte per circa novanta miliardi di lire, che secondo i programmi dovrebbero raggiungere 350 miliardi nel giro dei prossimi due anni. Anche il governo britannico si sta rapidamente avviando sulla strada dei due partners europei. Da noi, invece, non si fa niente. Tutti sono assorbiti dal problema petrolifero e sembrano non rendersi conto che ci potrebbero derivare difficoltà enormi da un inceppo anche momentaneo nell'approvvigionamento delle materie prime. A Roma, insomma, pochi si preoccupano del problema e delegano la politica delle materie prime alla Comunità Economica Europea.
Gli organismi comunitari di Bruxelles non hanno grandi possibilità di intervento, ma l'interesse degli eurocrati per il problema è quanto mai vivo. Hanno cominciato col calcolare il grado di dipendenza dell'estero dei Paesi della Comunità e hanno scoperto che è del 75 per cento, inferiore a quello del Giappone (che è del 90 per cento), ma di gran lunga superiore a quello degli Stati Uniti (pari ad appena il 15 per cento). In particolare, il grado di dipendenza è totale per sei materie prime (manganese, cromo, cobalto, platino, vanadio, tungsteno), mentre per il titanio (indispensabile per la costruzione di aerei, di centrali nucleari e di impianti di dissalazione) c'è una fortissima dipendenza dall'area nipponica.
Oltre che all'Unione Sovietica e alla Repubblica Sudafricana, i Paesi che fanno la parte del leone nella produzione di materie prime industriali sono gli Stati Uniti (rame, piombo, zinco, molibdeno, tungsteno, bismuto e argento), il Canada (ferro, piombo, zinco, molibdeno, nichel, tungsteno e argento), l'Australia (ferro, piombo, alluminio, zinco e bismuto), il Brasile (ferro, alluminio, titanio e columbio).
A questa lista si aggiungono la Rhodesia (cromo), lo Zaire (cobalto e tantalio), la Nuova Caledonia (cobalto e nichel) e altri Paesi che, dal punto di vista italiano ed europeo, sono ritenuti critici per la loro instabilità politica o per gli stimoli che possono trovare a consorziarsi in cartelli di produttori.


Che cosa fa la Comunità Economica Europea per scongiurare questo spettro? L'azione è diretta soprattutto a incentivare la cooperazione internazionale. Tutti i più recenti accordi bilaterali stipulati dalla CEE prevedono un capitolo dedicato alle materie prime, sul quale gli eurocrati si sono particolarmente impegnati per ottenere garanzie nell'approvvigionamento. E' il caso del trattato con la Jugoslavia (forte produttrice di mercurio), della seconda convenzione di Lomé (sottoscritta negli ultimi mesi del '79 fra Comunità e 57 Paesi d'Africa, Caraibi e Pacifico), degli accordi con i Paesi del Sud-Est asiatico aderenti all'ASEAN (Filippine, Thailandia, Malaysia, Singapore e Indonesia). L'altra linea su cui si muove la politica comunitaria è la ricerca, nel campo del riciclaggio, dello sfruttamento di nuove risorse e della sostituzione. Secondo alcuni esperti, queste ricerche, più che mirare a risultati rilevanti, costituiscono un deterrente psicologico nei confronti delle ipotesi di cartelli tra i produttori di materie prime strategiche.
Ma il problema delle scorte strategiche, dicono a Bruxelles, non si può risolvere a livello comunitario. In caso di crisi, la loro ripartizione creerebbe sicuramente discriminazioni fra le nazioni e fra i diversi comparti produttivi. Se i Paesi membri vogliono gli stock, devono farseli per conto loro.


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