§ POLITICA ENERGETICA

Nero per bianco




L.D.M.



Nel nuovo programma produttivo che il presidente dell'Ente nazionale per l'energia elettrica (Enel) ha consegnato alla fine di giugno al governo, ad appena sei mesi dalla presentazione di un documento analogo, c'è un solo protagonista: il carbone. Impiegarlo ovunque è possibile: questa, la disposizione data dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica fin dal gennaio scorso. E lo staff dirigenziale dell'Enel l'ha trasmessa, ulteriormente amplificata, agli esperti che stavano lavorando a un progetto di programmazione.
Nuove, gigantesche caldaie a combustibile solido sono state così previste in tutto il territorio nazionale, da Taranto e da Brindisi, in Puglia, fino a Bastida Pancarana, in Lombardia. Vecchi impianti funzionanti a petrolio stanno per essere convertiti a carbone, da Milazzo a Brindisi, a Porto Marghera.
Due anni fa, mentre era in preparazione il piano energetico nazionale, si prevedeva che l'Italia avrebbe consumato fra dieci anni non più di quindici-venti milioni di tonnellate di carbone per la produzione di elettricità. Alla fine di novembre, l'Enel aveva già aumentato la cifra a trentatre milioni. Allo stato delle cose, di fronte al rincaro del petrolio e alla previsione che il programma nucleare subirà ulteriori rinvii e ridimensionamenti, la quantità stimata per il 1980 è stata portata ad almeno quaranta milioni di tonnellate, con un ulteriore aumento del venti per cento. E tutti sono convinti che, da un momento all'altro, si dovrà andare anche oltre questa quantità.
Nel 1979 l'impiego del carbone era stato già raddoppiato dall'Enel rispetto all'anno precedente, fino a raggiungere quattro milioni di tonnellate; per l'anno in corso era stato previsto un consumo complessivo di sei milioni di tonnellate. Eppure, in Italia il carbone era da anni praticamente scomparso dalla scena della produzione energetica. Nel 1953 forniva ancora al nostro Paese un quarto dell'elettricità. Venti anni più tardi non arrivava neanche al sei per cento. Nel 1978, dei tredici milioni di tonnellate di carbone importato dall'estero (attualmente non esiste produzione nazionale), soltanto due milioni servivano ad alimentare centrali elettriche: la metà della quantità impiegata in un Paese piccolo come la Danimarca. In Italia è sempre mancata una cultura del carbone, afferma un esperto dell'Istituto di Economia delle Fonti Energetiche (IEFE). E se mai ce ne fosse stata una - sosteniamo noi - questa sarebbe stata comunque distrutta dall'invasione del petrolio e delle grandi raffinerie impiantate per rifornire praticamente mezza Europa. Così, nessuno ha mai pensato a impiegare nel Paese il carbone nemmeno negli anni della prima recessione petrolifera, quando il prezzo di questo prodotto era bassissimo e i Paesi produttori non sapevano come e a chi venderlo.
Ora però, di fronte alla necessità, si è improvvisamente scoperto che il prezzo del carbone è di gran lunga più conveniente di quello del petrolio. Le importazioni dell'Enel dalla Polonia (1,5 milioni di tonnellate l'anno), dal Sudafrica (tre milioni di tonnellate), dagli Stati Uniti (un milione di tonnellate), costano cinquantamila lire la tonnellata, contro le oltre 200 mila lire del petrolio. Anche se il contenuto di calorie del carbone è soltanto il sessanta per cento rispetto a quello dell'olio combustibile, a parità di produzione energetica il prezzo resta ugualmente al di sotto della metà.
Ma come potrà l'Italia ricostruirsi una vera cultura del carbone?
I problemi sono enormi e risolverli costerà enormi investimenti. Il primo è quello del l'approvvigionamento. L'Italia possiede un grosso giacimento in Sardegna, nel Sulcis, dove però la produzione, interrotta da tempo, potrà riprendere solo fra trequattro anni quando la Carbosulcis, la società controllata dall'Eni e dalla Regione Sarda, avrà completato la costruzione di una nuova modernissima miniera da tre-quattro milioni di tonnellate annue. Il carbone del Sulcis, secondo i progetti dell'Eni, non potrà servire per le centrali, ma dovrà essere utilizzato per ottenere, attraverso costosi processi, benzina e metanolo.

Tutto il resto dovrà venire dall'estero. Occorreranno contratti a lungo termine, affermano all'Enel. Ma finora questi contratti non ci sono. Per legge l'Enel non può gestire miniere all'estero, come fanno molti enti elettrici europei (quelli tedeschi e francesi ne hanno acquistate in America e in Australia). Così, il compito resterà all'Eni, che si è impegnata a importare entro il 1985, anno in cui entreranno in funzione le prime nuove centrali, dieci milioni di tonnellate di carbone all'anno. Non è compito facile: il meglio delle risorse è stato già accaparrato da altri. Fallite le trattative con privati negli Stati Uniti, perché gli americani intendevano imbrogliarci in maniera clamorosa e colossale, l'Eni ha acquistato il diritto di esplorazione per tre giacimenti in Australia ed è in trattative con le grandi compagnie petrolifere (Mobil, Texaco) che per tempo si erano assicurato il controllo di molte miniere (una parte del carbone Enel è fornito dalla Shell).
Occorreranno, poi, grandi terminali nei porti, in grado di accogliere navi gigantesche da 150 mila tonnellate, visto che con le navi più piccole il costo del trasporto intercontinentale raddoppia il prezzo finale del carbone. Esperti dell'Eni prevedono quattro terminali, del costo di 200-300 miliardi ciascuno, nei quali il carbone verrebbe depositato e trasbordato su navi di minore stazza. Le centrali saranno costruite in vicinanza dei porti (le maggiori consumeranno cinque milioni di tonnellate di combustibile ogni anno). Per Bastida Pancarana che, per esempio, a differenza di Brindisi e di Taranto, si trova nell'entroterra, si progetta di trasportare il carbone da Vado Ligure attraverso una vecchia teleferica riattivata.
Per costruire le centrali, la spesa dell'Enel sarà di sedicimila miliardi di lire nei prossimi dieci anni; a questi, forse, si dovranno aggiungere altre somme per la protezione dell'ambiente. La questione ecologica, infatti, è il vero grande problema connesso con l'impiego su larga scala del carbone. Sono allo studio tecniche avanzate per la difesa contro le polveri e lo sprigionarsi dell'anidride solforosa dai bruciatori. Il costo di un impianto di depurazione dei fumi raggiunge da solo cinquanta miliardi per ogni bruciatore da seicento megawatt. Se non saranno installati, si sarà sommersi dalla polvere nera, come nella Ruhr degli anni '30. La spesa, dunque, vale la candela. E soprattutto contribuirà ad allontanare dalla Puglia, e dal Salento in particolare, la minaccia della costruzione di centrali nucleari. Se queste devono essere costruite, costi quel che costi, le dislochino altrove: per esempio nei confini "pacifici" delle Alpi occidentali. Nel Piemonte e in Liguria. Nelle aree ad alto sviluppo agricolo e industriale. Nel Centro-Nord. Noi paghiamo già caro il costo del dualismo italiano. Non intendiamo continuare ad essere colonizzati anche per i consumi di energia nucleare.


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