§ ORO E SISTEMA MONETARIO

Alternative all'"utopia" Keynesiana




L. D. M.



Nel 1918, quando stava per concludersi il primo conflitto mondiale, Walter Rathenau scriveva che "certamente c'è bisogno, in questi passaggi da un'epoca all'altra, di pensiero e di volontà creatrici". La "folle corsa all'oro" di questo minaccioso inizio dell'ultimo ventennio del secolo non è affatto "folle". E' la razionale risposta all'assenza "di pensiero e di volontà creatrici" dei governi che hanno la massima responsabilità negli affari mondiali: in altre parole, è solo l'effetto o uno degli effetti dell'incapacità di immaginare e promuovere nuovi equilibri politico-istituzionali corrispondenti all'avvenuta dislocazione del potere economico e all'emergere di nuove tensioni su scala mondiale. Gli equilibri sanciti dall'esito della seconda guerra mondiale, che - nel campo monetario - trovarono la più compiuta espressione negli accordi di Bretton Woods, sono stati rotti da almeno un decennio. Gli anni '70 sono stati segnati da un crescente disordine internazionale, economico e politico.
Il prezzo dell'oro misura la febbre dell'organismo mondiale.
Dal 1934 al 1971 il prezzo dell'oro rimase stabile a 35 dollari l'oncia. Il giorno di ferragosto 1971 veniva dichiarata l'inconvertibilità del dollaro; il 18 dicembre di quell'anno la moneta americana veniva svalutata e il prezzo dell'oro saliva a 38 dollari l'oncia. Da allora, gli aumenti si sono susseguiti a ritmo accelerato: a fine 1977 l'oncia valeva 165 dollari; a fine 1978 valeva 226 dollari; a fine gennaio 1980 ha superato quota 750, e a fine febbraio 800 dollari. Che cosa c'è "sotto" la sfiducia nel dollaro?
Al fondo, c'è la diffusa consapevolezza che gli Stati Uniti non possono più essere la Banca Centrale del mondo. Solo alla fine del '71, si entrò ufficialmente nel regime del "dollar standard". Ma, di fatto, tale regime è stato ininterrottamente in vigore nel quarto di secolo seguìto a Bretton Woods. Poteva sopravvivere, sia pure tra crescenti difficoltà, in quanto la fiducia nel dollaro era sorretta dalla consapevolezza che "gli Stati Uniti erano il gigante economico fra le nazioni", detentori esclusivi della responsabilità di garantire l'ordine internazionale. Da tempo le cose non stanno più così: questo è il punto fondamentale.
Nel 1955 il Prodotto Nazionale Lordo degli USA rappresentava il 65 per cento del PNL cumulato dai sette principali Paesi dell'OCSE; attualmente rappresenta il 45 per cento. Specularmente, il PNL della Germania Federale è passato nello stesso periodo dal 7 al 13 per cento e quello del Giappone dal 4 al 15 per cento. Oltre a ciò, nuovi Paesi sono entrati in una "fase relativamente avanzata dello sviluppo industriale"; tra la prima metà degli anni '60 e la seconda del '70 la quota dei "dieci nuovi Paesi industriali" sulla produzione industriale complessiva del mondo capitalistico è passata dal 5 al 10 per cento, e la loro quota sulle esportazioni mondiali dal 2,5 al 7 per cento. I dieci Paesi sono: Spagna, Portogallo, Grecia, Jugoslavia, Brasile, Messico, Hong Kong, Corea del Sud, Taiwan, Singapore.
Dunque, nel mondo occidentale sono emersi accanto agli Stati Uniti e si sono consolidati, due nuovi poli di potere economico internazionale: il Giappone e la Germania Federale (oppure, con qualche forzatura allo stato dei fatti, la Comunità Economica Europea). Poli sprovvisti di proporzionale responsabilità politica: di qui, una prima ragione di squilibrio. Il secondo fattore di tensione è dovuto all'emergere dei nuovi Paesi industriali, estremamente dinamici grazie a una notevole capacità competitiva nelle produzioni mature. Il terzo e dirompente gruppo di tensioni è associato al consolidarsi, con la prima crisi petrolifera, di un quarto polo di potere economico internazionale: l'Opec. Fattore dirompente del sistema degli scambi e dei pagamenti internazionali, in quanto i Paesi produttori di petrolio non sono, nel complesso, in grado di spendere per beni e servizi che una frazione dei loro ricavi di esportazione e sono quindi caratterizzati da una forte propensione alla liquidità.
Il primo shock petrolifero fa entrare in coma il già compromesso sistema degli scambi e dei pagamenti internazionali per almeno due ragioni. Prima: i maggiori Paesi industriali mettono in atto conflittualmente due diversi, ma cumulativamente autolesionistici, tipi di reazione alla "sfida" dell'Opec. Gli USA accettano un crescente deficit di bilancia corrente e tentano di neutralizzare la tassa petrolifera svalutando il dollaro; gli altri maggiori Paesi puntano simultaneamente a ridurre le importazioni e ad accrescere le esportazioni, riuscendo a comprimere il tasso di crescita dell'economia mondiale. Quando, nel 1978, i paesi dell'Opec hanno cessato di esser vittime di illusione monetaria e si afferma la tattica delle "tre locomotive", sono mature le condizioni per un nuovo shock petrolifero. E infatti l'espansione economica del 1979 innesca il raddoppio in dodici mesi del prezzo medio nominale del greggio. Seconda ragione: si aggravano le difficoltà dei Paesi in via di sviluppo non produttori di petrolio, il cosiddetto Quarto Mondo, caratterizzato dal più elevato saggio di aumento sia della popolazione sia dei consumi energetici. I crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti di quest'area devono essere finanziati dal sistema bancario privato presso il quale si accumulano i "petrodollari". A fine '79 l'indebitamento bancario del Quarto Mondo è stimato in 150 m iliardi di dollari, mentre per il 1980 si prevede un disavanzo corrente di altri 60-70 miliardi di dollari. In definitiva, oggi, alla vigilia di una depressione di notevole gravità, sono stati raggiunti contemporaneamente due limiti cruciali: è al limite la capacità del mondo di assorbire dollari; ed èal limite la capacità di indebitamento del Quarto Mondo. Si è accumulato, perciò, un potenziale destabilizzante di enorme entità. Esistono vie d'uscita? Si potrebbe dire, con Musil, che "vi è nell'instabile una maggior porzione d'avvenire che nello stabile, e il presente altro non è che un'ipotesi non ancora superata". D'altra parte, non si può sottovalutare la forza d'inerzia delle abitudini mentali, la resistenza suicida al prendere atto di nuove situazioni e condizioni e allo sperimentare nuove ipotesi. Tuttavia, per tentare una via d'uscita, abbiamo a disposizione il quadro di riferimento offerto dal progetto di "Clearing Union" di Keynes, del quale il sistema nato a Bretton Woods era la pallida ombra. L'idea fondamentale, com'è noto, concerneva la creazione di una vera e propria Banca Centrale sovranazionale, dotata di tutti i poteri oggi propri delle analoghe istituzioni nazionali, ivi inclusa la facoltà di emettere moneta. "Abbiamo bisogno -scriveva Keynes - di uno strumento monetario internazionale che goda di generale accettabilità fra le nazioni ( ... ). Abbiamo bisogno di un quantum di moneta internazionale che non sia né determinato in modo incontrollabile e capriccioso come, per esempio, dal progresso tecnico dell'industria dell'oro, né soggetto a forti variazioni dipendenti dalle politiche di singoli Paesi in materia di riserva aurea; ma sia governato dalle esigenze correnti del commercio mondiale e sia anche suscettibile di deliberata espansione e contrazione per annullare tendenze deflazionistiche ed inflazionistiche nella domanda mondiale effettiva".
Il problema odierno è quello individuato da Keynes nel 1943: disporre di una sede per determinare la formazione di un volume di liquidità internazionale, atto a sostenere un concordato saggio di espansione dell'economia mondiale e a soddisfare, in particolare, i bisogni dei Paesi in via di sviluppo.
Vi sono alternative all'"utopia" keynesiana? La conservazione del presente stato di cose concorre ad accrescere i rischi di guerra. La ri-monetizzazione dell'oro, per il motivo individuato da Keynes e per la concentrazione delle riserve mondiali in Sudafrica e in Unione Sovietica, avrebbe conseguenze deflazionistiche e destabilizzanti di portata incalcolabile. Infine, le tensioni cui è già sottoposto il Sistema Monetario Europeo segnalano il carattere illusorio della soluzione legata alla creazione di diverse aree regionali di stabilità monetaria.
E' chiaro che, come vede Napoleone Colajanni, il tentativo di realizzare l'"utopia" keynesiana comporterebbe un sostanziale accordo internazionale circa la redistribuzione planetaria del reddito e non si vede come ciò non possa implicare la ricerca di forme di associazione tra Est e Ovest. Questa potrebbe essere una delle vie per governare in modo pacifico il "passaggio da un'epoca all'altra". I fatti sotto i nostri occhi non sono però tali da alimentare questa speranza.

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