A chi giova la svalutazione




Luigi De Mitri



C'è una certa ambiguità nella discussione sull'opportunità di svalutare la lira. Alcune tesi, ben note agli studiosi, non sempre sono rese esplicite, mentre andrebbero prioritariamente richiamate.
Una prima considerazione che ci sembra ricorra molto raramente nel dibattito e che pure ha una grandissima rilevanza sulla distribuzione del reddito, è che una caduta del cambio comporta un maggiore trasferimento di risorse al resto del mondo per ottenere la stessa quantità di importazioni.
La svalutazione infatti peggiora le ragioni di scambio e rende più care le merci acquistate all'estero in termini dei beni che noi esportiamo. Tale peggioramento, ove si verificasse oggi, si cumulerebbe con quello derivante dall'aumento dei prezzi del petrolio e che si stima imporrà, di per sé, nel 1980, un maggiore trasferimento di risorse reali all'estero pari a oltre il due per cento del Prodotto Interno Lordo. Ciò significa che la crescita prevista del Prodotto Interno Lordo in termini reali servirà quest'anno in buona parte a finanziare il maggior costo delle importazioni. Se dovesse aggiungersi una sensibile svalutazione della moneta, anche una crescita più elevata del PIL - si parla ora del 4% -servirebbe quasi esclusivamente a far fronte al peggioramento della nostra posizione negli scambi internazionali, senza portare benefici all'interno. Cresceremmo di più, ma senza alcun vantaggio: l'incremento del reddito sarebbe quasi totalmente trasferito al resto del mondo.
Mentre il peggioramento delle ragioni di scambio originato dall'aumento dei prezzi del greggio o delle materie prime si può imputare ad una variabile esogena non contrastabile nel breve periodo, è invece vero che il deprezzamento del cambio dipende solo dal fallimento della nostra politica economica e dall'impossibilità di trovare una composizione ordinata alle diverse e contrastanti aspirazioni relative alla distribuzione del reddito. Un altro ordine di considerazioni da richiamare è inerente al sempre minor grado di controllabilità dell'economia italiana. Al peggioramento tendenziale delle ragioni di scambio, intervenuto dal 1973 in poi, in mancanza di un aggiustamento strutturale perseguito con una coerente programmazione, si è risposto con un aumento, affidato ai settori tradizionali, della quota delle risorse destinate all'esportazione. La nostra economia, quindi, è diventata nell'ultimo decennio ancor più aperta e più dipendente dall'andamento dell'economia mondiale. Il controllo della domanda aggregata è divenuto sempre più difficile. Il riequilibrio della bilancia dei pagamenti ha avuto luogo più che riducendo le importazioni o modificando la struttura, forzando le esportazioni. In parte ciò si è realizzato con la compressione della domanda interna, che ha liberato quote di risorse da destinare al resto del mondo. Ma tale manovra di breve periodo, non essendo stata integrata da un adeguato intervento strutturale, non è stata sufficiente ad operare il trasferimento richiesto di risorse; è intervenuta allora la svalutazione della lira per forzare le esportazioni, resa inevitabile anche dalla perdita di competitività. In tal modo, tuttavia, per il peggioramento delle ragioni di scambio è ancora cresciuta la quota del prodotto nazionale da destinare all'estero.
Se noi oggi valutassimo gli scambi attuali con il resto del mondo in lire, ai prezzi del 1970, riscontreremmo un consistente disavanzo a nostro favore, anziché l'enorme deficit commerciale che pone in discussione la stabilità di cambio. L'effetto prezzi ha indubbiamente stravolto i nostri conti con l'estero; ha prodotto un forte trasferimento di risorse reali in misura maggiore delle quantità importate. Una nuova svalutazione accentuerebbe questa tendenza. Come dimostrano alcune recenti simulazioni effettuate con modelli econometrici, convalidate da analisi micro-economiche, la manovra del tasso di cambio si rivela inoltre uno strumento sempre meno adatto per influenzare permanentemente la nostra bilancia dei pagamenti.
L'indicizzazione sempre più estesa, la copertura elevata delle voci di costo e la rapidità della diffusione del rialzo dei prezzi spiegano in gran parte l'inutilità di questo strumento.
Da queste considerazioni emerge esplicitamente che:
a) la risposta che dobbiamo dare alla crisi attuale non può che essere di natura strutturale, in modo tale da farci riprendere il controllo dell'economia.
b) è del tutto irrazionale l'assenza di un'intesa tra le parti sociali sulla distribuzione del reddito. Infatti questa situazione scarica le tensioni sui prezzi e quindi, alla fine, sul cambio. Ma, come si è visto, il deprezzamento del cambio più che modificare la distribuzione interna del reddito, sottrae risorse a vantaggio del resto del mondo: si potrebbe quasi dire che gli altri beneficiano dei nostri litigi;
c) la deindicizzazione dell'economia rispetto agli impulsi esterni da sola non è risolutiva. Essa va intesa come una premessa per ripartire equamente l'onere del deterioramento delle ragioni di scambio. Non avrebbe senso tuttavia smontare la scala mobile se non si raggiungesse un adeguato consenso sulla distribuzione del reddito. Le rivendicazioni assumerebbero in un caso del genere un aspetto ancor più corporativo e la spinta sui prezzi e sul cambio non diminuirebbe.
L'adesione al Sistema Monetario Europeo (SME), si diceva nel programma triennale, rende più impegnativa la necessità di rallentamento del tasso italiano d'inflazione. Questa si rafforza nell'attuale precarietà dei nostri conti con l'estero.
Non crediamo si sia raggiunto il punto di non ritorno che renda inevitabile la svalutazione: ma soprattutto siamo convinti che, se questo dovesse verificarsi, tutti noi non ne trarremmo alcun vantaggio.

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