Ipotesi di svalutazione




L. M.



Ha scritto Cesare Zappulli: "Ogni volta che la moneta argentina (il peso), inflazionata da politiche sedicenti sociali, faceva un ruzzolone cedendo nel cambio, Juan Peròn, buonanima, soleva ripetere che non gliene importava nulla, dal momento che le massaie facevano la spesa in pesos e non in dollari. Anche in Italia, oggi, c'è chi la pensa così e si domanda che cosa aspettiamo a svalutare la lira, per ridare un pò di fiato alle nostre esportazioni, strette fra l'aumento dei costi interni e un cambio (pressoché) immobile".
Che cosa sta succedendo? Semplicemente questo: che nessuno vorrebbe svalutare per divertirsi un pò, o per giocare con la nostra divisa; ma, facendo un giro per le province manifatturiere, ci si è accorti che "un buon numero di quelle piccole e medie aziende sorprendentemente benemerite di avere rovesciato la situazione dei conti commerciali con l'estero, mediante una frenetica attività d'esportazione, non ce la fanno più a stare in concorrenza, perdono quote di mercato, rischiano di chiudere". A questo punto, dice Zappulli, una bella svalutazione, diciamo del venti per cento, le rimetterebbe in sesto consentendo loro di incassare la medesima quantità di lire, mentre l'ipotetico compratore estero pagherebbe per le medesime merci il venti per cento in meno nella sua valuta.
Se è tutto così semplice, dunque, perché non farlo? Non di rado, nelle parole preoccupate degli imprenditori, è capitato di cogliere toni di risentimento per ciò che credono essere, nelle "autorità", la devozione, o addirittura il "bigottismo del cambio". Essi dicono: si cambi il cambio, e tutto cambierà. Non è tanto facile. "Se, sempre in via di supposizione, il cambio del marco passasse a un livello uguale a quello del franco svizzero, vorrebbe dire, per esempio, che l'albergatore della riviera riminese, esportatore di turismo, si troverebbe a ospitare e a mantenere, al medesimo prezzo in marchi e franchi, i suoi clienti stranieri non più per dieci giorni ma per dodici. In lire egli non ci rimetterebbe niente; in valuta invece applicherebbe uno sconto, per l'appunto del venti per cento". Questa svendita, che gli esperti spiegano come un peggioramento delle ragioni di scambio, non è certamente un affare. Parecchie volte è stato scritto che per la nostra economia non è un bel giorno quello in cui, pur di vendere all'estero, "dovessimo scambiare un ciclomotore con una capra o con un cappello". La caduta del cambio o la svalutazione significano in sostanza che ci rassegniamo a una specie di liquidazione per fine stagione o (speriamo che non accada mai) per chiusura dell'esercizio.
Passando al livello della singola azienda, la quale giudica solo ed esclusivamente in base allo stato dei suoi affari, all'economia nel suo insieme (dalla micro alla macroeconomia), vien dato per acquisito che la manovra del tasso di cambio può fornire un sollievo momentaneo ma inefficace come strumento per influenzare in via permanente la bilancia dei pagamenti, vale a dire la situazione del dare e dell'avere con il resto del mondo. A partire dal 1973, quando il regime di fluttuazione dei cambi si generalizzò, sono stati approfonditi gli studi tendenti a valutare gli effetti del mutamento delle parità sul commercio estero; e si è pervenuti alla conclusione che, nel lungo periodo, il vantaggio derivante da una svalutazione si attenua e scompare, "perché i costi e i prezzi interni si adeguano ai nuovi tassi di cambio". Se ciò è vero, non resterebbe che svalutare spesso, come politica ordinaria, aggiustando il cambio ogni anno o, al massimo, ogni due anni. Quando si scarti questa soluzione disperata, non c'è che l'alternativa detta "strutturale", consistente nell'identificazione e nella correzione dei congegni che non funzionano nel sistema economico. E a ciò sono intenti, in questi mesi, i responsabili dei dicasteri del Tesoro, del Bilancio e delle Finanze, con un'opera volta all'apprestamento di tre progetti, scaglionati nel tempo, (l'immediato, il 1981, il medio termine). Vedremo se ci sarà unità d'intenti, o se scoppieranno contraddizioni dovute a diversi interessi di partito o di corrente o a differenti culture o valutazioni economiche. Quel che occorre fare è dare alle imprese esportatrici il sollievo e il ristoro che attendono, non già mediante la svalutazione, ma con la fiscalizzazione degli oneri sociali: rimedio non entusiasmante, perché equivale a trasferire a carico dello Stato una parte del costo del lavoro, ma accettabile purché il finanziamento di questo intervento avvenga con nuove o maggiori imposte. Ma anche in questo caso occorre fare molta attenzione visto che, ad esempio, l'Iva si incorpora nei prezzi e i prezzi attivano la scala mobile. In altre parole: occorre che i sindacati si convincano che non si può volere, contemporaneamente la salvezza delle imprese e dell'occupazione mediante la fiscalizzazione e poi, di nuovo, l'aumento degli oneri sociali attraverso la scala mobile. Questo è il punto fondamentale. O si riesce "a sterilizzare il nostro demenziale congegno d'indicizzazione dei salari dagli effetti di carovita provenienti dall'esterno (il petrolio in prima linea) e dall'aumento della tassazione indiretta, o si rinuncia a fare qualsiasi politica di stabilizzazione." Poi, occorrerà mettere sotto controllo il gigantesco partitario della spesa pubblica, che è "l'altro possente fattore dell'inflazione italiana e quindi dell'incessante crescita dei costi, anche a costo di far piangere le anime socialmente più tenere". Da questa tenaglia non si sfugge. Per il bene di tutti.

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