§ IL MITO DELLE ECONOMIE DI SCALA

L'uomo imprenditore




Dario Giustizieri



Attratti forse da esperienze positive in altri sistemi economici, anche da noi si credeva che fosse sufficiente aumentare le unità di produzione, sia imprese che stabilimenti, per ridurre contemporaneamente i costi per unità di prodotto. Conseguendo per tal modo economie di scala o di dimensione.
Sono vari i motivi per cui questo mito ha perso molto del suo smalto, e ciò, per la verità, non solo nel nostro sistema economico, ma anche nel resto del mondo. Tra questi motivi, uno, in particolare, spicca, e precisamente quello riguardante la crescente importanza dell'imprenditore nel senso classico della parola, quale coordinatore dei fattori di produzione nell'ambito del mercato. In altre parole, solo se l'impresa o lo stabilimento si presenta a dimensione d'uomo -tanto per impiegare, sia pure di malavoglia, un'espressione usata ed abusata - c'è la possibilità di rendere ottimi i risultati del coordinamento di siffatti fattori, un compito che non è fine a se stesso, bensì, ripeto, in funzione delle occorrenze del mercato.
Non vale qui la pena di sottolineare le sciocchezze che si sono scritte e si continuano a scrivere a proposito della cosiddetta economia "sommersa". Un fenomeno, del resto, ormai presente ovunque e persino, tanto per fare un esempio, negli Usa, dove le teorie connesse con le economie di scala sono state più ampiamente sviluppate, e dove la "subterranean economy" acquista sempre maggior importanza. La verità è che da noi, ma anche altrove, l'economia appare sommersa solo a coloro che non vogliono rendersi conto dell'importanza del fattore imprenditoriale nello svolgimento d'ogni processo economico. Insomma, l'occhio del padrone ingrassa il cavallo.
Coloro che ancora nutrono qualche dubbio sulla validità del mito delle economie di scala meditino poi su una tendenza che sta prendendo sempre più piede, da noi ed altrove. Una tendenza che porta a decentrare le attività delle imprese meno compatte, di dimensioni più modeste, e quindi meglio governabili, sia per quanto riguarda il coordinamento dei fattori di produzione che la capacità a rispondere alle occorrenze di mercato. Da questa tendenza risulta dunque ad evidenza, anche se in alcuni casi risponde a particolari esigenze finanziarie, il riconoscimento che, se si superano determinate dimensioni, i costi per unità di produzione aumentano e non diminuiscono. Non economie, bensì diseconomie di scala.
Iniziando questo articolo, ho ricordato che l'anno scorso il Prodotto Interno Lordo è aumentato in misura sensibile. Non tutti gli economisti, però, tengono conto del fatto che questo aggregato altro non è che la somma dei valori aggiunti delle imprese che operano nel sistema economico. Quindi, ai fini dello sviluppo del sistema, il problema non è solo quello di accertare come il Prodotto Lordo Interno aumenti, ma anche e soprattutto come si suddivida tra i fattori di produzione. Se la quota del Prodotto Interno Lordo che tocca al capitale-impresa non aumenta in misura proporzionale, si determina un rallentamento nel processo d'accumulazione del capitale reale, e quindi del processo di rinnovazione e di ricostruzione degli impianti, con gravi danni per tutti e in particolare con impossibilità di creare nuovi posti di lavoro.
Per alimentare il processo di accumulazione del capitale è necessario risparmiare. Verità lapalissiana. Persino i paleo-keynesiani lo riconoscono. Nello stesso tempo, però, dicono che la quota del Prodotto Interno Lordo risparmiata dai lavoratori non è inferiore a quella risparmiata dalle imprese. Per questo, argomentano, il risparmio non aumenta quando aumentano i profitti. L'evidenza empirica, specie con riferimento alle esperienze del nostro sistema economico, pone invece in rilievo che la riduzione del risparmio d'impresa ha determinato e determina un deciso rallentamento nella formazione del capitale.
Questo vale soprattutto per le imprese grandi e grandissime che, non potendo autofinanziare i loro investimenti, hanno dovuto fare ricorso in misura sempre maggiore all'indebitamento. Nelle piccole e medie imprese, proprio perché il fattore imprenditoriale è preponderante, l'accumulazione del capitale è stata più ingente. Del resto, ciò risulta chiaro dal fatto che l'anno scorso, nonostante un aumento del Prodotto Interno Lordo del 5,0 per cento, l'aumento degli investimenti fissi lordi è stato solo del 4,5 per cento. E l'anno precedente era stato addirittura negativo. Trattasi comunque d'un aumento del tutto insufficiente.
Chiarito, dunque, che questa carenza di investimenti si deve in particolare ad un persistente squilibrio nella distribuzione del Prodotto Interno Lordo tra i fattori di produzione, è necessario aggiungere che alcuni economisti sono portati a confondere la loro opinione personale con le teorie economiche di generale validità.
Ma oggi come oggi, specie nel nostro sistema economico, dove lo Stato, il nostro Stato, "spiazza" risparmio privato per finanziare spese correnti, sembra piuttosto imprudente affermare l'esistenza di risparmio ozioso. Si dica piuttosto che non v'è risparmio sufficiente per finanziare investimenti veramente produttivi. E' non sufficiente perché in parte dissipato in spese correnti che alimentano trasferimenti di reddito, che poi si traducono in consumi.
La distribuzione del Prodotto Interno Lordo tra i fattori di produzione, così com'è congegnata nel nostro sistema economico, rende oggi assai difficile il risparmio d'impresa e quindi gli investimenti produttivi. E' un circolo vizioso in cui si dibatte l'economia italiana. Ed è un circolo dal quale non s'esce affermando che non i profitti attuali condizionano gl'investimenti, bensì quelli futuri. Ma se la distribuzione del prodotto interno rimane qual è, sia che si badi ai profitti passati che a quelli futuri, la carenza dì risparmio diventerà strutturale. Ed in questo caso c'è solo da sperare in investimenti effettuati dall'economia sommersa.

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