Ipotesi di metà anno




Aldo Bello



Uno degli aspetti più misteriosi della nostra vita pubblica è rappresentato dalle rilevazioni statistiche. L'Istat, che è istituzionalmente preposto alla raccolta dei dati, sui quali poi la collettività, gli operatori economici, i politici, dovrebbero fondare le loro scelte egli orientamenti, dunque i comportamenti economico-produttivi per uno sviluppo equilibrato ed armonico nel campo del lavoro, è sempre in ritardo, ed è ritenuto poco credibile. Da anni si reclama da più parti la ristrutturazione dell'Istituto Centrale di Statistica, lento e farraginoso, secondo molti anche parziale, e dunque inadeguato a svolgere i compiti per i quali è nato. Risultato dell'inerzia: l'Istat non farà il censimento decennale, previsto ormai abitualmente per il primo anno di ciascun decennio (nel nostro caso, il 1981) perché non ha mezzi e strumenti idonei. Il censimento generale della popolazione italiana slitta di un anno. Questa dichiarazione di impotenza, la cui gravità da sola si mette in rilievo, lascia molti dubbi sulla presunta "modernità" del nostro Paese, almeno sotto il profilo dell'efficienza di alcune istituzioni: restiamo, com'è stato detto, un Paese industrializzato, che non è capace di trasformarsi in un Paese industriale.
Più attendibili e tempestivi i dati delle Camere di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato. Ed è da questi dati che possiamo trarre un bilancio - sia pure limitato e approssimato - per i primi sei mesi di quest'anno.
Contrariamente a quanto affermato dalla stampa quotidiana, secondo la quale la crescita del prodotto lordo nazionale è "sotto tono", i dati C.C.I.A.A. sostengono che le cose non vanno poi tanto male. Se è vero che il deficit petrolifero è un pozzo senza fondo, che sbilancia sempre più i nostri conti con l'estero, (e del resto, tutto l'apparato industriale italiano si muove solo grazie al petrolio), è altrettanto vero che le attività produttive del nostro Paese mantengono ancora un margine di concorrenzialità in campo internazionale; ed è altrettanto vero che le previsioni per il periodo estivo, pessimistiche per tanti, di fatto vanno preannunciandosi sulla linea degli anni scorsi: lo confermano i dati relativi alle prenotazioni nelle aree di massima attrazione turistica e l'incremento delle presenze nella stessa stagione pre-estiva. Gli apporti valutari dovrebbero superare quelli degli scorsi anni, anche per via della svalutazione "occulta" che ha interessato la nostra divisa.
Anche l'agricoltura, che vien fuori da una stagione climatica contraddittoria, e comunque delle meno felici negli ultimi decenni, non dovrebbe darci un prodotto lordo vendibile inferiore a quello complessivo del passato. Restano all'orizzonte i timori, tutt'altro che infondati, sulla concorrenza di Paesi che stanno per entrare nella Comunità Economica Europea, che immetteranno sui mercati prodotti "mediterranei", dunque analoghi ai nostri, ma a prezzi "stracciati" (per l'enorme minor costo della manodopera, e per l'assenza di sindacati che tutelino gli interessi economici del mondo bracciantile): Ma, malgrado tutto questo, il nostro settore primario sembra essere ancora in grado di "tirare". Il discorso, semmai, vale per l'immediato futuro: occorre ammodernare l'agricoltura meridionale, trasformarla, introducendovi criteri moderni nelle scelte (pascoli e allevamenti; colture intensive; prodotti pregiati; promozione; commercializzazione efficiente).
Stando alle previsioni generali, dunque, il prodotto lordo finale, allo scadere dell'anno dovrebbe aggirarsi intorno al 3-4 per cento: uno dei maggiori dell'Europa occidentale. Resta da chiedersi perché mai tanti profeti di sciagure debbano predicare il contrario; perché tanto allarmismo; quali finalità si propongono coloro i quali sottovalutano di proposito esiti che, alla resa dei conti, sono o sembrano essere (a metà strada; e lo diciamo in via del tutto precauzionale) positivi. Un PIL finale del 3-4 per cento alla luce del sole, che non tiene presente un altro prodotto finale, quello tutt'altro che trascurabile del "lavoro nero", del lavoro imboscato, che sembra far parte a sè, e che, nel bene o nel male, malgrado tutte le storture che presenta a livello delle entrate tributarie dello Stato, dell'assistenza, della previdenza, della tutela dei lavoratori coinvolti in stato di pura necessità, rappresenta una trancia notevole nel campo economico e produttivo italiano. Non parliamo con entusiasmo del lavor nero. Osserviamo soltanto che è una realtà dell'economia e non solo di quella italiana. I conti vanno fatti, tenendo opportunamente presenti tutte le realtà. Anche questa. Sulla sua legittimità è il mondo politico che deve esprimersi con chiarezza. Ma fino a quando una così gran parte di giovani, di donne, di ex lavoratori contribuisce a tenerlo in piedi, se non altro, per mancanza di alternative, e fino a quando una produzione, un commercio, un giro di affari e dunque un reddito di livello nazionale vi saranno legati, fingere di ignorare questo campo significherebbe comportarsi come le allegre comari di Windsor: perdersi in chiacchere, pur sapendo che la storia cammina e che tutti, in un modo o nell'altro, contribuiamo, consapevolmente o no, a farla andare: avanti o indietro: e questo è un problema di scelte. Cioè: un problema politico.

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