§ EMIGRAZIONE DI RITORNO

Senza pił miti




C. M.



L'inversione di tendenza, appena delineata nei corso del 1979, sta avendo in questi primi mesi del 1980 una verifica in positivo: non solo i "treni della speranza" sono un ricordo del passato, da far rientrare cioè nella memoria storica della Penisola Salentina; non solo non si parte più verso l'estero, verso le aree ad alto assorbimento della Repubblica Federale Tedesca, della Francia, dei Cantoni Elvetici; ma i rientri, i "ritorni" stanno assumendo un ritmo crescente. Non si tratta - è bene dirlo subito - di massicce anabasi. Ma è indicativo il fatto che stiano rientrando nei paesi salentini di origine persone di età media intorno ai 35 anni, con quindici-sedici anni di esperienza lavorativa in cantieri esteri, e con un conto in banca proporzionale alla quantità dei risparmi effettuati nel periodo di espatrio. Sono persone che, com'è stato scritto, "tornano con rabbia", perché hanno scoperto che le condizioni di lavoro all'estero non erano poi migliori di quelle che è possibile riscontrare nel nostro Paese, per lo meno nelle aree industrialmente più avanzate, e perché hanno capito, fra l'altro, che il "salto dell'uccello sul ramo", (cioè l'emigrazione europea, ben diversa da quella transoceanica che contraddistinse le prime, cospicue partenze di italiani e in particolare di meridionali verso le Americhe, nella seconda metà del secolo scorso e nei primi trent'anni del nostro), il salto dell'uccello sul ramo, dicevamo, ha comunque tagliato radici culturali, amicizie, affetti e vincoli di parentela: tornano, e trovano una società diversa, mutata sotto tutti gli aspetti: diversa da quella che avevano abbandonato, sia pur temporaneamente, alla ricerca del primo lavoro fisso e del primo salario; diversa da quella che li ha accolti, offrendo loro lavoro e salario, e che in realtà non hanno mai sentito come propria, lasciandola nel momento in cui hanno ritenuto di poter ripercorrere il cammino, a ritroso. In realtà, dunque, l'emigrato di ritorno è doppiamente isolato: per due volte si è trovato in un ambiente non suo, in quello straniero, in quello locale, mutato perché sono mutati tempi e uomini e comportamenti.
Questi ex emigrati sono indubbiamente di fronte a scelte problematiche. Devono investire i loro risparmi in attività produttive che consentano loro di vivere, senza correre il rischio di vedere dissipato quanto hanno accantonato in anni di lavoro, spesso durissimo, in Paesi stranieri; e devono reinserirsi in una società che non è più quella - prevalentemente contadina, artigiana, legata al ritmo del mondo rurale più che industriale - che hanno lasciato in anni anche non lontanissimi. Non esistono, nel Salento, associazioni o centri di assistenza per gli ex emigrati. La partenza del bracciante o del manovale fu una rivolta solitaria contro la fame; il ritorno è una decisione autonoma; il reinserimento è uno sforzo "personale". Sono mille storie di solitudini, comunque le si consideri. In ogni caso, la comunità può per lo meno far questo, per loro: accoglierli come coloro che hanno realizzato il vero, grande miracolo del lavoro italiano all'estero; come coloro che, con le rimesse, hanno contribuito in maniera determinante a sostenere la nostra bilancia del pagamenti, a limitare il deficit nazionale, a non far colare a picco la nostra economia. Senza retorica, ovviamente. Ma anche con lealtà. E con la determinazione di chi non vuoi giocare all'imbroglio.
Diciamo questo, perché si sta delineando - anche come scelta "imprenditoriale" - la tendenza a considerare il "ritorno alla terra" come sbocco possibile all'occupazione. Il discorso, in realtà, è complesso. Ma può essere semplificato ove si tenga conto di questo: che il ritorno alla terra può essere creativo e salutare solo nel caso che a cercare la terra siano forze giovani, ricche di slanci e di iniziative, disponibili al sacrificio (almeno inizialmente), pronte a lavorar duro, e a lavorare su progetti precisi, non su bucoliche visioni purificatrici (che van lasciate tra i consigli nel cassetto dello psicologo): su programmi che possano avere un alto indice di fattibilità, su aree agricole autosufficienti (dunque: con problemi di accorpamenti, di cooperazione, di meccanizzazione, di specializzazione delle colture, di disponibilità irrigue, di articolazione dei capitali investiti, di prestiti a tasso agevolato, ecc.). Un discorso, questo, che non può tornare per gente che ha speso il meglio dell'età e delle energie e ora vuoi godere, com'è giusto, il frutto dei proprio lavoro. Né, in questo senso, e in questa misura, giocano favorevolmente le proposte di sviluppo dell'agriturismo, per le stesse considerazioni che abbiamo fatto, e perché - fra l'altro - l'intrapresa in questo settore è quanto mai ardua, almeno per quel che riguarda la Penisola Salentina. Si tratta, o meglio, si tratterebbe di avviarla, infatti, in un'area eccentrica rispetto alle grandi zone di richiamo, bagnata sì da due mari, ma lontana e quasi remota dalle fasce ricche (che poi sono quelle dalle quali partono escursionisti e turisti), senza un "polo invernale", quale può essere solo la media e grande montagna (a contatto con la fascia costiera: come si vede in Calabria, ad esempio), e soprattutto priva delle strutture fisiche e organizzative adatte. E se per queste si può correre ai ripari nel giro di pochi mesi o di qualche anno, per la morfologia del territorio non c'è scampo. Agriturismo, va bene, ma stagionale: di conseguenza, imprenditorialità e lavoro a singhiozzo. Difficile ritenere che, in termini economici di puro e semplice bilancio, ci sia chi voglia rischiare fino a questo punto.
Resta, dunque, il settore terziario (ma anche qui ci sono problemi di affollamento e di imminente saturazione); e resta, soprattutto, la prospettiva della piccola impresa, magari a carattere cooperativo o associativo. In questa direzione vanno spinti o indirizzati coloro che, realizzati dei risparmi, vogliano intraprendere attività remunerative: nella piccola impresa (nella media impresa in una prospettiva di lungo periodo), collegata direttamente non con una, ma con più grandi aziende produttive, al fine di assicurarsi gli sbocchi dei prodotti e le possibilità dei più ampio collocamento. I settori che "tirano" ancora nel Salento sono parecchi: metallurgico e meccanico, chimico, del materiali da costruzione, della trasformazione e della conservazione dei prodotti agricoli. Una recente indagine sconsiglia i settori tessile e del l'abbigliamento, calzaturiero, del mobilio, delle pelli e del cuoio. Il discorso non riguarda solo gli emigrati di ritorno. Interessa anche i giovani in cerca di prima occupazione. Naturalmente, stiamo parlando di imprenditorialità privata, non di pubblico impiego, questa specie di rifugio per sinistrati, culturalmente parlando, che si va sempre più trasformando in un gigantesco deposito, di anime morte, di intelligenze sprecate; di energie spente.

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