Da Sud a Sud




Luigi C. Belli



Scrisse il Sada, in una prosa colta, che tuttavia, fece buona presa sul popolo: "Quando i turchi intimarono agli otrantini di arrendersi, essi risposero un tremendo: No! E perché nessuno si pentisse o cercasse eventualmente di tradire la volontà generale dei cittadini, il sindaco fece gettare le chiavi della città in mare. Erano chiavi di ferro, che da secoli chiudevano e aprivano le porte del luogo, e sopra di esse era deposta la veneranda ruggine dei tempo, rispettata quasi come garanzia di sicurezza. Ma ecco che, allorché sulla mura i cittadini si furono disposti alla difesa, al comando dei capi militari, e le bombarde vennero apprestate, e insieme il fuoco greco, i mangani e le catapulte, tutti videro una cosa bella e insolita. Un angelo aveva pescato le chiavi della città dal mare e, intonando un inno dolcissimo, portava quelle chiavi a Gesù nel Paradiso. Esse non erano più di rugginoso ferro, ma brillavano d'oro puro, invermigliato di sangue. Era la gloria, che Dio dava attraverso l'annunzio del martirio. E l'angelo fece il giro di tutte le mura, e tutti gli otrantini lo videro e s'inginocchiarono levando al cielo le loro più vive preghiere. Poi l'angelo salì, salì né più lo si vide. Solo una striscia di luce rimase sulla città, e non disparve, se non quando, dopo quasi un anno, fu liberata".
Il ricordo di quell'epopea è vivo ancora oggi. L'Ora di tutti, di Maria Corti, ne rievoca l'atmosfera corale e lo spirito popolare di un eroismo che fu di tutti. Eppure, nella grande storia dell'avanzata dell'Islàm verso Occidente, quello di Otranto è, dal punto di vista arabo, un episodio marginale. Tant'è che ne parlano più i cristiani che gli islamici. E se fosse per le cronache orientali, neppure forse ne avremmo notizia.
Malgrado questo, Otranto e la sua presa per mano turca restano emblematici: per i contrasti interni all'Italia Meridionale, che ne determinarono la caduta e la ritardata liberazione; per le imprese "minori" degli scorridori islamici, tutti però concorrenti al gran flusso della storia che portò l'Islàm verso la Sicilia e verso la Spagna, epicentri di civiltà e di cultura di notevolissima portata; per il massacro che fece seguito alla caduta della città. E non si tiene conto che scorrerie, razzie, cattura di prigionieri venduti poi come schiavi, non furono a senso unico; scorridori genovesi e marsigliesi, pisani e spagnoli, anche veneziani e bretoni, non agivano diversamente. Agili flottiglie, che si evitavano accuratamente sul mare, depredavano città e villaggi costieri di entrambi i fronti, assalivano navi con merci e con passeggeri, in un intrico di vicende che emergono solo da storie locali, e, di recente, dalla ricostruzione fatta da Salvatore Bono ("I corsari barbareschi"): vastissimo fenomeno storico, così intimamente connesso a tanti aspetti ed episodi della storia del Mezzogiorno d'Italia. Ricostruzione che abbraccia il tenia nella sua complessità e lo svolge sulla base di una diretta conoscenza delle fonti e della bibliografia, e con il contributo di accurate ricerche personali.
Audaci corsari provenienti da ogni parte dell'impero ottomano, cristiani rinnegati che intraprendono con straordinario successo la carriera corsara, infelici schiavi che popolano i "bagni" e le strade delle città barbaresche, che implorano il riscatto o tentano rischiosamente la fuga, religiosi di vari Ordini, consoli, mercanti che trattano la "redenzione" degli sventurati: un'umanità piena di ardimento, di dolore, di speranze, di sacrificio, è stata la grande protagonista di quella complessa vicenda storica.
C'è un solo grande precedente, quello di Fernand Braudel, lo storico francese, autore dell'ormai classico "Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo al tempo di Filippo secondo", nel quale si sottolinea come nel Mediterraneo la pirateria sia stata "un'industria vecchia quanto la storia", praticata apertamente da tutte le popolazioni rivierasche. E l'argomento si esaurisce con le pagine di Alberto Tenenti ("I corsari in Mediterraneo all'inizio del Cinquecento").
Se nel quadro del Braudel campeggiano in primo piano le galere e gli sciabecchi barbareschi, sullo sfondo appaiono centinaia di altre navi, che all'ombra o in contrasto con la verde bandiera dell'Islàm "issano innumeri altre bandiere che noi non siamo in genere abituati a considerare come bandiere corsare: quelle dei Cavalieri di Santo Stefano, dei Cavalieri di Malta, di Venezia, di Trapani, di Marsiglia, e di tante altre città della costa". Non c'era porto che non avesse o non avesse avuto, i suoi corsari.
Se, alla fine del Quattrocento, i cristiani sono i principali protagonisti della "corsa" nel Mediterraneo Occidentale e sono tutt'altro che assenti nel Levante, la guerra da corsa, sia come forma di lotta tra Stati, sia come lotta religiosa, era un fenomeno anteriore. Tra la fine del 1200 e gli inizi del 1300, ricorda il Tenenti, non solo essa esiste già in questa duplice forma, ma le sue regole e le sue articolazioni appaiono da tempo fissate. Sarà solo con il secolo XVII che la pirateria diverrà nel Mediterraneo un fatto prevalentemente musulmano. Prima di quest'epoca, è bene ribadirlo, essa fu un fenomeno generale, tra i più rilevanti della vita mediterranea.

Due architetti salentini

Francesco Colaci nacque a Surbo nella seconda metà del secolo XIV, e lavorò quasi costantemente al servizio di Raimondello e di Giovanni Antonio Del Balzo-Orsini, conti di Lecce e principi di Taranto. Amaro destino, il suo, dal punto di vista professionale. Sconosciuto in tutta Italia, e poco o pochissimo noto nella terra natale. Eppure fu senza dubbio autore di molte opere, perché "dovette seguire un lungo tirocinio di studi e di prove, prima di fissare la propria individualità e raggiungere la perfezione.".
Ma la sola, grandissima opera che porta il suo nome inciso in una targa (quella di cui è dunque nota la paternità), è la guglia di Soleto, "monumento d'ineffabile bellezza, ultimato nel 1397". Per formarsi un concetto approssimativo di quest'opera, basti ricordare la poetica leggenda, ancora viva nella memoria popolare, secondo la quale la torre fu elevata dalle streghe in una notte di tregenda.
Scrisse di questa guglia un "viaggiatore" attento, il Briggs, nel suo volume "Il Tallone d'Italia": "Non è possibile paragonare questa costruzione con nessuno dei campanili gotici inglesi, così come non è possibile fare confronti con Westminster. Ma, se si paragona al capolavoro in marmo di Giotto e al famoso campanile di Verona, esso rimane sempre uno tra i due o tre più splendidi capolavori di tutta l'Italia. I dettagli sono perfetti, come quelli del suo rivale di Firenze, con questa differenza: che nel campanile di Soleto manca quella esteriorità di rozzezza, che è riscontrabile in quello toscano".
Esagerazione, forse. Oppure forzatura di giudizio critico. Occorre pur sempre pensare che Briggs percorreva regioni pressoché inesplorate, apriva frontiere che raramente erano state valicate, alla scoperta di aree che fino ad allora - tranne alcune, sia pur notevoli eccezioni - non erano state oggetto di indagine. Eppure, resta intatto il fascino di questo monumento, visibile a grandi distanze, incantevole, gigantesco menhir sulla pianura salentina, ai confini del mondo greco salentino, sorto nell'epoca forse tra le più splendide dell'architettura del Basso Salento. Il Marti, infatti, ipotizza che lo stesso Colaci possa aver lavorato alla costruzione della navata centrale di Santa Caterina, in Galatina, opera di stile ogivale, dovuta "alla munifica fede di quel prode e possente feudatario".
Giangiacomo dell'Acaya, figlio di Alfonso, barone di Segine e di altre terre del Salento, nacque verso i primi anni del secolo XVI, e fu successore del padre nel 1521. Compiuti severi studi di architettura, soprattutto militare, entrò nell'Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani, e sotto le insegne di Carlo V combatté contro i Francesi e gli eserciti della Lega in Terra d'Otranto.
Tornato al governo dei suoi feudi, "ebbe cura di cingere Segine di forti muraglie con sei baluardi; di rinnovare il castello, munendolo di torri e fossati, atti a resistere ad ogni assalto proditorio dei Turchi; di sistemare il piano edilizio del villaggio, riedificando anche la Chiesa Maggiore ed elevando il Convento dei Francescani".
Realizzato questo complesso di opere, nel 1535 fece di Segine il centro della vasta Baronia e le impose il nome di Acaya, come è possibile rilevare da due iscrizioni murate, una sulla porta della Terra, l'altra sul fronte del Castello. La sua fama di grande architetto divenne allora universale, al punto che l'imperatore Carlo V gli conferì l'incarico di molte opere di difesa dell'Impero. Sorsero le mura e il castello di Lecce, dal 1537 al 1549; i castelli di Capua, di Crotone, di Cosenza; il completamento di quello di Sant'Elmo, a Napoli.
Come architetto civile, costruì il Palazzo della Reale Udienza, l'Ospedale dello Spirito Santo e l'Arco di Trionfo in onore di Carlo V, tutte opere sorte nella capitale salentina nel 1548, con l'impronta del suo ingegno, "adusato, però, alla fredda e severa arte delle costruzioni militari".
Con ogni probabilità, il dell'Acaya disegnò anche la chiesa dì Sant'Antonio di Padova, completata dopo la sua morte. Morì "nel dolore immeritato", quasi dimenticato da tutti. Dal punto di vista architettonico, e dunque tecnico, due sono i periodi della sua feconda vita: nel primo (Castello d'Acaya), a cortine e torrioni, si ispirò al sistema di fortezze che aveva avuto per prototipo la Rocca di Ostia, di Giuliano da Sangallo, e diede un'impronta originale a tutte le opere militari dell'Età Aragonese. Nel secondo (Castello di Lecce), a pianta quadrata con poderosi bastioni ad angolo acuto, adottò il sistema richiesto dalle nuove esigenze militari per l'uso delle artiglierie pesanti, che dominavano ormai l'arte della guerra di quel tempo. Inesplicabile, dunque, che il nome di questo grande architetto non compaia nei trattati di arte e di architettura militare, se non come un "minore". Forse, l'eccentricità dell'area che gli diede i natali ha in qualche modo influito sui flebili echi prodotti dal suo nome.


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