Sortilegio del Nord Malia del Sud




Sergio Zavoli



Volevo farmi una casa sulla Flaminia, dopo Prima Porta, perchè la mia vita - e capisco, badate, tutta la debolezza di questi richiami - è orientata a Nord, in direzione delle mie parti. Era invece fatale che me la facessi a sud, ai Castelli, sul versante di Napoli. Mi scuso con Roma, così cercata da ragazzo e così sfuggita, oggi, ogni volta che mi ribollono dentro, come in questi tini frascatani, le lune. Confesso che ciò mi capita soprattutto quando è in pericolo la salute. Allora penso che la guarigione sia più garantita lassù dove, per modesto che sia il risultato, mi sono fatto, anima e corpo.
Ero a Ferrara, una città che avendo non il comune nosocomio, ma addirittura l'Arcispedale, mi prometteva più di altre di portare a casa non dico la pelle, che sarebbe rimasta dura anche a Roma, ma la sensazione di non aver corso alcun rischio. Dire il perché è più difficile, e tuttavia provo. In quella parte, la più fonda della Padania, c'è l'unico fiume italiano paragonabile al Tamigi e l'unica nebbia che possa andar bene anche a Londra; e poiché Shakespeare dice che solo i grandi fiumi, complici le nebbie, ci liberano di tutto ciò che sporca la vita, compresa la morte - al contrario di chi attribuisce al sole e al mare ogni potere di ripulitura - mi attrae l'idea che basti immergersi in quel mondo d'ombre per affrontare, poi, la splendente scoperta della rigenerazione. D'altronde ero già persuaso prima di intrattenermi su questa amletica ipotesi nei lunghi dormiveglia dell'ospedale, che i fiumi vasti, col grembo profondo e con le rive che s'intravedono appena l'un l'altra, avessero il potere di suscitare intorno ad essi, quantomeno, una grande pazienza.
Il loro viaggio è così lento perché nulla di urgente li spinge verso il mare; tutto fluisce con quella gravità estranea perché il destino non è alla foce, ma di volta in volta nel tratto di terra in cui il fiume si attarda. Il Po ha questo passo e questo volto, mi dicevo; e se rigonfia e tracima non col delta deve fare i suoi conti, cioé dove il mare lo respinge, ma con la bassa che sta sotto le sponde, pronta a prendersi sulla schiena una parte del fiume come ciascuno paga la propria parte di vita. Non ho mai visto, del resto, un paesaggio così sposato, insieme, col fiume e con la sua indole; ossia uomini e paesi, animali e case, vegetazioni e cieli tanto in pace tra loro e così pazienti.
In una stanza d'ospedale provavo a rivedere tutto ciò che si svolge, quietamente, sul Po. Le barche spuntano dalle anse sempre un pò inattese, passano alla stessa velocità di un tronco d'albero, spariscono con la medesima misteriosità di quando sono comparse. Ai fianchi del fiume si posano i cimiteri più bianchi e più neri che abbia mai visto. Non a caso la morte si raduna a ridosso del Po: in una natura sconsacrata dal niente che ospita, il fiume è l'unica, viva sacralità. I camposanti del Polesine! Per esempio: Gorino: là avevo conosciuto, di novembre, l'odore acre dei fiori guasti, il melenso sapore dei lumini di cera masticati come chewing-gum, le zattere indurite da infinite mani di catrame, che portano a prua le bare, a poppa i parenti.
Sulla sponda c'era un gran daffare di bancarelle colme di giuggiole, di castagne e di "fave dei morti", un dolcino secco, di tanti colori come i coriandoli, rallegrato da un seme d'anice che bisogna cercare con la punta della lingua. Tribunette di legno dappertutto, coi recipienti di latta allineati sugli scalini, l'etichetta dei pomodori appena strappata, il manico di fil di ferro e, dentro, qualche palla di crisantemo. Le donne sfilavano lungo gli argini con quel bidoncino giallo, sorvegliandone il ciondolio per non perdere acqua. Quasi tutte, sotto l'altro braccio, stringevano un piccolo sgabello. Scese per la piccola rampa, entravano nel cimitero una dopo l'altra; e lì cominciava un viavai nero, orientato con sicurezza da quella bussola del dolore che guida la gente, ciascuno per sé, nei vialetti dei camposanti.
La rapida conoscenza dei sentieri era naturale come il muoversi in casa. Invidiavo la consuetudine sbrigativa delle donne, quelle dei bidoncini, subito affaccendate intorno alle sepolture, e mi chiedevo se non fosse privilegiata la loro nozione così antica, e per nulla inquieta, della sofferenza; agivano, infatti, come se la morte avesse ormai ragionevolmente separato il dolore da quel penoso, ma in fondo vago, dovere. Solo più tardi mi accorsi che le donne, deposto io sgabello accanto ai piccolo riquadro di terra, parlavano col loro morti; descrivevano con pacatezza, minutamente, ciò che era accaduto a casa, nella strada, in paese. Anche quella scena era figlia del fiume: i fatti simili ai legni d'alluvione, che s'impigliano lungo e rive. Così fantasticavo, con gli occhi socchiusi, come quando la febbre allontana e rimpicciolisce le cose e lo sguardo sembra passare attraverso una cruna.
Parlare, qui, a un mondo impalpabile è naturale, mi dicevo. Già coi vivi, quando sul Po cade la nebbia, e come stare tra presenze incorporee: basta un passo e le perdi. Allora ci si cerca a richiami, o a grida, a seconda della lontananza. Dentro quel grande fumo chiaro le voci hanno risonanze brevi, le parole si sciolgono subito nel fiato umido dell'aria. Ogni tanto una folata di vento rischiara un pò il paesaggio, ma un'altra richiude il varco.
I barconi mandano segnali che arrivano da lontano. Poi, quando il vento di bora solleva la coltre e l'arrotola lungo la bassa, oltre Ferrara, fino al campanile di Pomposa, fino alle torri campanarie di Ravenna e ai trespoli delle raffinerie, in quel mondo di colpo spalancato riappaiono gli orli rossi dei paesi, le esili file dei pioppi, le righe dei canali. E i "casoni" senza più porte e camini, vuoti da chissà quanto. "Beata solitudo, sola beatitudo", hanno scritto con la calce, su uno di essi, i raccoglitori di piume di Scardovari che hanno l'anima, anch'essi, impigliata nel paesaggio. Anime vive a tratti e sfuggenti le vidi dove il Po comincia ad aprire la sua foce, nei primi slarghi sui quali arrivano i gabbiani perché l'acqua è ormai dolce e salata.
E' una natura di frontiera, con le piume di fiume già chinate dai venti marini, che trattiene solo qualche capanno; e le persone, più sembianze che corpi, sembrano finite lì perché il Po non poteva spingerle oltre quella congiunzione d'acque, al di là della quale il fiume è già morto, corroso dall'intrusione salina. E sembrano davvero le anime di chi è arrivato in fondo al gran viaggio dei Po, vaganti nell'Ade del delta, ombre shakespeariane sospinte dal fiume che monda la vita di tutto ciò che la sporca, compresa la morte.
Neanche a dirlo, nei giorni in cui ho ripensato al fiume in quell'ospedale lontanamente conventuale (che visto da fuori è niente, ma dentro ha una labirintica proliferazione di corridoi e stanze, scale e volte, cortili e pavaglioni, archi e chiostri) la nebbia aveva totalmente avvolto la mia malattia. E neanche a dirlo, nel giorno della dimissione il grande manto acquoso non c'era più e dal fiume arrivavano velocemente, nette e felici, le lontane sirene dei barconi.
L'ospedale, adesso con quell'arci in testa tributatogli anche da me, era l'emblema della guarigione, l'esempio araldico di come si cura, con quanta provinciale dignità, un uomo di metropoli. Avevo visto raddrizzare coorti di reumatizzati della bassa, collocare marchingegni nel cuore, calare sonde nella psiche, e rimuovere vecchi sedimenti, dipanare, ridurre e tendere la grande corda dell'intestino, decantare umori da reni e vesciche, percorrere le arterie con docili fili di metallo, insomma risvegliare da malattie le più varie una fiduciosa popolazione di sofferenti. Avevo ascoltato il portantino che si chiedeva, insieme al primario, se mai potrebbe essere confusa anche lì una bombola di ossigeno con un'altra di anidride carbonica; avevo veduto gli ambulacri ordinati, i medici cortesi, gli infermieri solleciti. Tutto ispirato a una disciplina non fraintesa, che gioverebbe a chi è in salute e figuriamoci a chi sta male. Uscendo, avevo messo una banconota dentro una busta e un pò goffamente mi ero rimesso, per la distribuzione, all'equità della capo-reparto; mi restò in mano, respinta con cortesia: "qui non è lecito", fu la risposta, e mi parve di parlare con una dama di grazia che sa insegnarti le buone maniere senza mortificare il tuo galateo.
Allora capii la metafora della nebbia e del fiume. Non ci voleva più Amleto, né il nord ostinato e patetico della mia bussola, per domandarsi se l'esempio di una così alta civiltà "contadina" non avrebbe ancora motivo di valere anche altrove, dove aumenta, a catena, l'avvilita misura di chi soffre e, devo supporre, di chi cura. Che nebbia e fiume, o il contrario, nascondano o portino via ciò che offende la vita è l'ultimo pudore di una società che lo rispetta fino in fondo, fino al delta. E sono tornato a casa, in questo meridione senza colpa, fra questo popolo sempre più intelligente e tradito quanto più scendi. Dove il sole non può nascondere nulla, anzi risplende su tutto, perché prima o poi si veda che il Sud, a modo suo, fa miracoli.

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