Alla conquista di nuovi mercati




Gigi De Mitri



L'ultima relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali lo conferma: solo i Paesi di più recente industrializzazione, lambiti o meno dal petrolio, registrano un elevato tasso di crescita, mentre i Paesi con più larghe tradizioni industriali sono esposti ai bruschi contraccolpi della crisi economica internazionale. Talvolta per libera scelta, come nel caso della Germania Federale, preoccupata di evitare ulteriori aumenti del prezzo del greggio, talvolta - è il caso degli Stati Uniti - come risultato obbligato del rincaro del petrolio. Sconfitti ma non rassegnati, gli Stati industrializzati fanno a gara nel circuire i più ricchi paesi in via di sviluppo, cercando di condizionarne le scelte in un quadro di complementarietà. In questa situazione, le vittime designate sembrano essere quei Paesi che, per miopia o fedeltà alla tradizione, privilegiano i legami economici con i paesi iper-industrializzati. L'Italia è tra questi. Anche l'anno scorso, mentre i nostri tradizionali partners economici tiravano i remi in barca sotto la furia della crisi, l'Italia svolgeva una politica commerciale più aggressiva con i potenti che con i deboli. I dati, pur non aggiornatissimi, documentano questa tendenza: su un aumento globale, rispetto all'anno precedente, del 18,8 per cento nelle esportazioni e del 12,7 per cento delle importazioni, il Terzo Mondo, compresi i paesi petroliferi, assicurava solo incrementi del 15 per cento nelle nostre vendite e dell'8 per cento negli acquisti. La fiducia che gli imprenditori italiani ostentano verso l'aristocrazia delle nazioni è mal riposta, non solo perché ai nuovi ricchi compete oggi sostenere e regolare la domanda mondiale, ma anche perché questi ultimi, abbandonando il modello di industrializzazione mirante alla sostituzione delle importazioni a favore del modello "orientato" verso l'esportazione hanno creato temibili concorrenti in settori-chiave delle esportazioni italiane. Nelle industrie dell'abbigliamento, del cuoio, delle calzature, della raffinazione del petrolio, ci potrebbe essere un lunghissimo, gelido inverno.
Fattori d'ordine politico, finanziario ed economico spiegano il ritardo accumulato dall'Italia rispetto agli altri Paesi occidentali. Basterà ricordare, per quanto concerne la politica dell'export, la recente presenza del governo di Roma in Paesi del Terzo Mondo forniti di un'organizzazione molto centralizzata e quindi propensi a trattare ogni affare su un piano interstatale; l'insufficiente aiuto fornito sotto forma di crediti agli esportatori; infine, la tendenza dei Paesi in via di sviluppo a privilegiare l'importazione di beni di produzione rispetto a quella di prodotti finiti. Anche di fronte al fenomeno della nuova concorrenza, l'Italia non è stata troppo accorta, affidandosi spesso al caso o al capriccio. Le drastiche scelte di Germania Federale, Svezia e Olanda, che hanno delocalizzato da più di un decennio verso i Paesi del Terzo Mondo tutta l'industria calzaturiera e dell'abbigliamento e ampi comparti della siderurgia, della cantieristica e dell'elettronica, non hanno influenzato il nostro Paese che, nel processo di ricambio fisiologico delle tecnologie, senza troppa fatica si è assicurato la posizione di coda.
Le ragioni di questo non invidiabile primato sono parecchie, ma nessuna fa onore al Paese. "Il settore pubblico italiano - osserva Giuseppe Sacco, docente di economia e politica industriale dell'Università di Firenze - non solo tende a non eliminare le fasce "basse" della sua specializzazione produttiva, ma svolge spesso una funzione di servizio e supporto al settore privato, anche nel senso di accettare il trasferimento di attività non più produttive nel quadro italiano, ma che potrebbero dar luogo al trasferimento di tecnologia verso il Terzo Mondo". Altre cause, sempre secondo Sacco, si nascondono sotto la levigata superficie di "Paese industrializzato" che contraddistingue l'Italia. "A contrastare il ricambio fisiologico delle tecnologie - chiarisce - vi è anche la possibilità, per le imprese del settore industriale formale, di trasferire lavorazioni specifiche, produzione di parti o componenti o, addirittura, interi comparti ad aziende artigiane o al settore informale, cioé alla cosiddetta economia sommersa, dove una serie di costi vengono inevitabilmente scaricati sulla collettività". Per l'Italia, come per ogni altro Paese le cui esportazioni sono meno appetibili sul mercato internazionale delle materie prime, la strada della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo è una scelta obbligata, da percorrere con umiltà e con sollecitudine. Le ricorrenti tentazioni, in sede di Agenzia Internazionale per l'Energia (AIE) o di direttorio dei sette Paesi occidentali più industrializzati, di barricarsi nell'emisfero Nord contro un Sud in rivolta, sollevano forti riserve. Perché l'Italia nel suo emisfero è il Paese meno agguerrito, e perché l'AIE è disposta a offrire la solidarietà ripetutamente promessa soltanto a parole. Nel campo della cooperazione con il Terzo Mondo, cartina di tornasole per i nostri settori produttivi più senescenti e teatro per la conquista di nuovi spazi d'attività sul piano internazionale, l'Italia è giunta col fiato grosso: appena nella primavera del '79. Per i decenni successivi all'approvazione della Costituzione, tutti gli sforzi d'assistenza tecnica e finanziaria ai Paesi in via di sviluppo si sono concentrati nelle aree dell'antica penetrazione coloniale, con il risultato di escluderci sia dal bacino del Mediterraneo, sia dalla vitale regione del Medio Oriente, senza peraltro garantirci la salda amicizia delle ex colonie. Sotto le timide disposizioni dell'ultimo decennio, l'azione italiana resta caratterizzata da un andamento frammentario, da iniziative isolate, scarsamente collegate fra di loro, in parte promosse dalla Pubblica Amministrazione, in parte da Enti pubblici e privati. Solo da poco, e sulla poderosa spinta della crisi petrolifera, si stanno cercando nuove soluzioni, con accordi, sia pure limitati, e comunque ben lontani dalla rilevante portata di quelli di altri Paesi europei, che ci consentano di aprire nuovi "fronti".
Gli sbocchi per l'industria italiana potranno essere ampliati con una precisa azione politica e di politica economica concordata fra governo e forze produttive, atta a porre in atto i criteri per una razionale ed articolata cooperazione economico-industriale con Paesi per natura diffidenti, difficili, ma ancora bisognosi di tutto o di molto; soprattutto, con Paesi dirimpettai o vicini, verso i quali possono indirizzarsi i nostri prodotti di industrie leggere. Questo, l'unico sistema per pagare un minore scotto per gli aumenti petroliferi, che ancora per mezzo secolo condizioneranno, e potranno anche sconvolgere, il mondo.

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