§ LO SME UN ANNO DOPO

Il collaudo




Lucio Marescalchi



Non è certo facile tracciare un bilancio completo del primo anno di attività del Sistema Monetario Europeo, quello SME che non poche Cassandre italiane profetizzavano avrebbe avuto non solo pochi mesi di vita, ma anche e soprattutto riflessi catastrofici sulla posizione valutaria, economica e sociale del nostro Paese.
Sul piano strettamente monetario, il consuntivo è decisamente positivo. Nonostante le pressioni di fattori destabilizzanti, quali i ripetuti, forti aumenti dei prezzi del petrolio e delle principali materie prime, l'incessante dilatazione del mercato dell'eurodollaro e le erratiche fluttuazioni del prezzo dell'oro, i rapporti di cambio all'interno dello SME sono stati caratterizzati, negli ultimi mesi, da una stabilità che sembrava definitivamente irrecuperabile e che è il risultato sia della sufficiente flessibilità del sistema, sia di una più responsabile politica di interventi, sui mercati valutari internazionali, della Federal Reserve Bank americana.

Oscillazione contenuta

Nel '79, l'oscillazione media delle monete SME rispetto allo "Scudo" è stata contenuta entro l'1,9% (contro una media del 5,2 per cento nei sei anni precedenti), grazie al buon funzionamento del tanto discusso "indicatore di divergenza" e alla tempestività con la quale, traducendo nei fatti gli impegni presi a Bruxelles, furono decise, nel settembre scorso, la rivalutazione del 2 per cento del marco tedesco nei confronti delle altre monete dello SME e l'adozione di nuove misure restrittive in alcuni Paesi "divergenti" (Danimarca, Belgio e Olanda). Smentendo le cupe previsioni della vigilia, la lira ha dato prova di un'eccezionale tenuta che l'ha collocata tra le monete "forti" dello SME, assieme al marco e al franco francese, assistita in questa sua inaspettata performance dal margine di fluttuazione relativamente più ampio (6% rispetto al normale 2,25%) accordatole dal meccanismo monetario CEE, nonché dall'accorta manovra sul cambio condotta dalla Banca d'Italia nelle settimane immediatamente precedenti l'avvio dello SME.
Non mancano, tuttavia, le zone d'ombra. Spicca fra tutte l'assenza più completa ancora di una strategia comune nei confronti del dollaro, le cui oscillazioni esercitano effetti differenziati sulle singole monete SME e alle quali ciascun Paese è portato a reagire in funzione di considerazioni strettamente nazionali, quali la struttura geografica e valutaria del proprio commercio estero o l'evoluzione dei tassi d'inflazione e di disoccupazione interni.

Il franco e il marco

I rischi di questo immobilismo per il funzionamento dello SME sono stati chiaramente dimostrati l'estate scorsa dal pesante impatto negativo sul franco belga-lussemburghese degli interventi a difesa del rapporto di cambio marco-dollaro effettuato dalla Bundesbank: per mantenere il franco agganciato al marco, le autorità monetarie belghe furono costrette infatti a "bruciare" riserve valutarie per un miliardo circa di dollari.
Finora, però anche per la diversità degli interessi politici internazionali dei vari governi CEE, ci si è limitati solo a dotte disquisizioni filosofiche sul problema che, considerati i suoi profondi riflessi sul coordinamento delle politiche nazionali in materia di cambi, tassi d'interesse e d'espansione della massa monetaria, condiziona notevolmente lo sviluppo - e, a termine, la sopravvivenza stessa - dello SME. Non sorprende, quindi, se ormai da qualche tempo si prospetta con sempre maggiore insistenza l'ipotesi di un rinvio (di uno o due anni) della seconda parte del Sistema: la creazione di un vero e proprio Fondo Europeo e l'introduzione dello "Scudo" come strumento di riserva (in parziale alternativa al dollaro), che erano originariamente previste per il marzo '81.
Sul piano economico, lo SME non ha certamente contribuito a promuovere concretamente quella convergenza che è indispensabile alla progressiva realizzazione di una unione economica e monetaria europea. Le divergenze, anzi, si sono approfondite: il divario tra i tassi di inflazione è nettamente aumentato (dal 5% circa della Germania Federale al 19% dell'Italia), a seguito anche del diverso impegno con il quale i singoli governi hanno saputo o voluto affrontare il problema. Certo, nessuno ha mai sostenuto che lo SME avrebbe permesso di per sé di arginare i processi inflazionistici, di risanare il bilancio dello Stato o di rilanciare gli investimenti produttivi, e, con essi, i livelli d'occupazione. Ma è altrettanto vero che si dava per scontato che i vincoli di cambio risultanti dal Sistema Monetario Europeo avrebbero spinto tutti - e in particolare i Paesi, come l'Italia, con tassi d'inflazione decisamente superiori alla media - ad adottare sia pure gradualmente una gestione economica compatibile con gli obiettivi globali dello SME.
Purtroppo le cose non sono andate così. Per considerazioni essenzialmente di politica interna, ci si è affidati finora a misure-tampone che si stanno rivelando di scarsissima efficacia e che, al limite, potrebbero rendere indispensabile una terapia d'urto molto più drastica di quella che sarebbe stata necessaria se, sin dall'inizio, si fosse agito con la dovuta tempestività e coerenza. Classico esempio, il nostro Paese. Tutto sembra indicare, infatti, che né governo, né forze politiche e sindacali, abbiano realmente percepito tutte le conseguenze dell'adesione allo SME. Sotto il profilo dei risultati economici, l'Italia si allontana ulteriormente dalle altre economie europee: essa continua a registrare il più elevato tasso d'inflazione e di crescita dei salari monetari, con le inevitabili ripercussioni che questo ha sulla competitività interna ed internazionale della produzione italiana.

La "guerra" dei tassi

Senza contare, poi, l'inarrestabile lievitazione del disavanzo dello Stato (che rappresenta ormai l'l 1,5% del Prodotto Interno Lordo, un tasso pari al triplo della media CEE) che, insieme con tutte le indicizzazioni del sistema, ha effetti moltiplicatori tutt'altro che marginali sulla dinamica inflazionistica nazionale.
Archiviato il Piano Pandolfi, si cerca di deflazionare l'economia manovrando, essenzialmente, sulla leva dei flussi creditizi e dei saggi d'interesse, mentre si dovrebbe puntare a disinflazionare il sistema eliminando tutti quei fattori che contribuiscono a spingere i prezzi-costi italiani a un ritmo nettamente superiore a quello di tutti gli altri Paesi industrializzati. E questo, proprio nel momento in cui l'orizzonte dell'economia internazionale, europea ed italiana si va rapidamente rabbuiando (basti pensare alla "guerra" dei tassi d'interesse, al rallentamento del commercio internazionale e dei tassi di crescita, al deterioramento della bilancia dei pagamenti anche di paesi "forti", quali la RFT e il Giappone, alla ripresa del dollaro e ai suoi effetti sulle altre monete e sistemi economici). Ecco perché, adesso, si ricomincia a parlare da noi di un'eventuale svalutazione della lira (mentre fino a poco fa quasi si chiedeva l'Oscar della stabilità) come dell'unica operazione possibile per ridare competitività alla nostra economia. Eppure, l'esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato, al di là di ogni dubbio, che un'appropriata manovra del tasso di cambio, anche se può costituire uno strumento necessario per una seria politica anti-inflazione, non può che avere effetti estremamente limitati. Tanto più che (è il caso italiano) tale manovra è stata utilizzata in passato soprattutto per fronteggiare i forti aumenti dei salari monetari, piuttosto che per ripristinare il necessario equilibrio tra l'evoluzione dei prezzi italiani e quelli degli altri Paesi. Senza dimenticare, anche, che col deprezzamento del tasso di cambio si possono perseguire, alternativamente, due obiettivi: l'incremento dei margini di profitto degli esportatori e dei produttori sottoposti alla concorrenza straniera anche sul mercato nazionale, oppure l'aumento delle vendite all'estero grazie ad una maggiore competitività internazionale. Ma poiché sono obiettivi alternativi, è evidente che la scelta dell'uno comporta, automaticamente, la rinuncia all'altro.
Il tempo stringe e non consente più che ci si continui a cullare nell'illusione che, in qualche momento, tutto finirà per rientrare nell'ordine. IL il momento, invece, di agire responsabilmente, di prendere cioè le decisioni che si impongono per dimostrare ai partners CEE la serietà con la quale intendiamo concretamente rispettare gli impegni assunti e restare, così, agganciati alla Comunità. Non è più possibile far finta ancora di ignorare che l'inflazione riduce, piuttosto che aumentare, i livelli di occupazione e che il mantenimento della stabilità monetaria è un obiettivo prioritario nella misura in cui esso comprende, nel contempo, anche quello del più elevato tasso possibile di occupazione.


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