Il Concordato e la Musa nel Salento




Luciano Graziuso



Nelle commemorazioni del 1979, ormai volto al termine, due avvenimenti di cinquant'anni fa hanno ricevuto le maggiori attenzioni.
Uno di portata internazionale, quale, nell'ottobre 1929, fu il crollo della Borsa di New York; l'altro non meno importante, a livello nazionale: il Concordato fra lo Stato italiano e la Chiesa, firmato l'11 febbraio dello stesso anno.
Dell'uno e dell'altro molti aspetti sono stati richiamati e riesaminati, attraverso la stampa o i più moderni mezzi di comunicazione; in particolare, per il Concordato, proprio nel novembre si è parlato - e polemizzato - su di una presunta bozza, più o meno definitiva, che dovrebbe costituire il testo del nuovo accordo, negoziato fra le due parti, in un clima, per tutti e due i contraenti, così profondamente mutato rispetto alle posizioni di 50 anni fa.
Ma non è di questo che qui si vuole parlare.
Nella memoria dei miei anni d'infanzia l'avvenimento ha richiamato, quasi inconsciamente, alcuni versi di una poesia di don Cosimo De Carlo, sacerdote, nativo di Vernole (1873 - 1945), predicatore e scrittore molto noto nella Lecce di quegli anni.
Egli è autore, fra l'altro, di una vasta raccolta di Proverbi dialettali del Leccese, pubblicata in Il edizione (è quella che posseggo) nel 1928 e dedicata, niente meno, "AI valoroso avv. Oronzo Massari - Omaggio al suo brillante ingegno".
Dirò per inciso che l'opera è stata di recente ripubblicata in 300 copie anastatiche dalla Casa editrice Forni di Bologna.
Orbene, ricordando che in occasione della firma del Concordato la poesia era stata pubblicata nel settimanale leccese L'Ordine (Organo dell'Azione Cattolica Salentina), sono andato alla ricerca del relativo numero.
I miei tentativi, in casa - voglio dire, a Lecce - sono andati però sistematicamente delusi. Quando ormai avevo perduto le speranze, ecco che la fortuna mi è stata propizia: a Firenze, presso la Biblioteca Nazionale Centrale.
E' questo il testo della quasi del tutto sconosciuta poesia che, a distanza di 50 anni, ripropongo all'attenzione dei lettori:

ALLELUJA - ALALA'

"E' caduto il diaframma! Alleluja!
E caduto il diaframma! Alalà!
Così canta l'Italia redenta,
questo canto perenne sarà.

Vissi gli anni di mia giovinezza
Contristati dall'aspro dissidio;
Pur avevo nel cuor la certezza:
Il bel giorno di pace verrà!

E nei giorni solenni di Pasqua
Benedissi col ai mio e:
Io sfidavo dei miopi lo sdegno,
La mia fede era quella, il mio amor,

Che non vennero meno giammai,
Che mi trovan quest'oggi al mio posto,
Dio, l'Italia! In un serto legai
Quei due nomi e li strinsi nel cuor.

No: la Croce di Cristo e la Spada
Non son termini avversi: Gesù
A difesa del dritto le unisce
Perchè trionfi giustizia quaggiù.

No: la Tiara del Papa non lede
i diritti d'augusta Corona,
e se questa con essa procede,
trio in terra l'amor, la virtù.

Alleluja! la mano del Duce
ha sfondato il diaframma! Alalà!
Re Vittorio col Papa s'incontra,
scambia il bacio di santa amistà.

Primavera, t'avanza fiorita,
scioglie i geli del rigido inverno,
si rinnova d'Italia la vita!
Per il Duce! Alleluja! Alalà!

La poesia, come si nota anche dagli esclamativi abbondantissimi, è tutta intessuta di trionfalistica retorica: nelle ripetizioni, presenti sin dai primi versi, nelle allitterazioni iniziali (Alleluja / Alalà; canta / canto ... ), negli accenti finali di sarà / verrà; Gesù / quaggiù; amor / cuor ... (rime troppo facili e trite); nell'uso degli astratti: dissidio, certezza, sdegno, fede, amor, dritto, giustizia, fede, virtù, amistà ...
Trionfalismo si nota nella baldanza, con cui, p. es., si evidenzia la sfida dell'Autore allo "sdegno" dei "miopi" e ancor di più al v. 4, quando si sentenzia "questo canto perenne sarà" (laddove, in ben altre occasioni, il Manzoni aveva, più cautamente, detto di sciogliere "un cantico che forse non morrà").
Ed è retorica abbracciare ed esaltare insieme, acriticamente, Re e Papa, Dio e Italia, Croce e Spada, Tiara e Corona.
Questi slanci, però, ci possono meravigliare o addirittura scandalizzare oggi, così abituati come siamo al confronto e allo scontro delle opinioni e alla possibilità di soluzioni molteplici o alternative (come si dice); ma non poteva succedere allora, quando, essendo la retorica di gran moda, se ne faceva uso ed abuso in ogni occasione; quando, o si scriveva più o meno in questo metro o non si poteva scrivere affatto, a meno che non si fosse disposti a subire carcere e processi.
Certo è però, d'altra parte, che chi più aveva fiato per far suonare le trombe, più le faceva suonare ...
Solo alla luce di queste considerazioni è possibile quindi tentarne, ora, una giustificazione.
A conferma dei clima osannante, instaurato soprattutto negli ambienti culturali ecclesiastici, proprio nello stesso numero dell'Ordine (15 febbraio), in prima pagina (la poesia del De Carlo è in seconda) ho letto addirittura un'ode in latino osannante all'avvenimento, a firma G.P. (quasi certamente Guglielmo Paladini, altro sacerdote, canonico, noto ancor oggi per i suoi studi di storia locale).
Per chi ne fosse curioso, ecco il testo con la mia traduzione, quasi alla lettera:

Sancta sedis et Italiae conciliationis eventu

Omnes laetitia corda levent polis,
firmo consilio magnifici Ducis
pax et iustitia in moenibus italis
osculantur ad invicem.

Hoc est factum praeoptatum
factum felix valde gratum,
factum aere perennius.

Nos hoc tempus veneremur,
et dicatum confitemur
Mussolini nomini.

Sii nomen Domini saecla per omnia
cultum suppliciter laudibus inclitis,
nostro et det nitidos Pontifici dies
longe a casibus asperis.

Usque hoc tempus celebremus
tantum, cui nos non habemus
ullum par elogium.

Salve Dux, salve Rex, mundus
serta vobis dai iucundus
ac summo Pontifici.

Quae premunt Domini in nomine prospera
sint et Italiae praepete saeculo,
et Duci, patriae qui bene consulit
tuta et mirifica manu.

Lupiis, III Id. Febr. MCMXXIX
G. P.

(In occasione del Concordato fra la Santa Sede e l'Italia.)

Alzino tutti al cielo con letizia i cuori: per il saldo operato del Duce magnifico la pace e la giustizia a vicenda si baciano nelle mura italiche.

E' un avvenimento molto desiderato, avvenimento felice e assai gradito, avvenimento più durevole del bronzo.

Noi cinchiniamo di fronte a quest'epoca e dichiariamo di volerla intitolare al nome di Mussolini.

Il nome di Dio per tutti i secoli sia benedetto con suppliche e con inclite lodi e possa dare al nostro Pontefice splendidi giorni, lungi dalle avversità.

Sempre esaltiamo quest'opera così grande, perla quale noi non abbiamo alcun elogio adeguato.

Salve Duce, salve Re, il mondo lieto offre corone a voi e al sommo Pontefice.

Nel nome di Dio gli eventi successivi si svolgano prosperi e per l'Italia nell'ora che volge e per il Duce, che con sicura e mirabile mano ben provvede alla patria.

Lecce, 13 febbraio 1929).

(Si legge nel testo cies per dies e dai per dat; il mio testo è corretto, a meno che non scappi al proto qualche nuovo errore).
Come si può notare, più che altro si tratta di una mera esercitazione, sul tipo di quelle che si usava comporre nelle scuole del tempo, infarcita di ricordi, non solo oraziani, ma anche nel metro, di più dimessi canti goliardici medievali.
Cose che oggi, prese in sé, non dicono più niente o quasi niente, ma che aprono anch'esse uno spiraglio sulla vita politica di quegli anni.
Le elezioni fasciste del 24 marzo erano alle porte e nell'Ordine del 22 dello stesso mese la Giunta Diocesana di Lecce delibera "di far obbligo a tutti gli iscritti alle organizzazioni di Azione Cattolica di partecipare in massa alle Elezioni plebiscitarie del 24 marzo ... per la ratifica del Trattato, per la sua applicazione, per il ringraziamento al Capo dello Stato per quanto ha fatto di bene alla Chiesa e alla Patria".
La lista unica venne poi approvata con 8.506.576 si contro 136.198 no. Né si votò più in Italia fino al 2 giugno 1946.
Un'ultima aggiunta: queste note provengono da un cattolico, convinto e praticante, che non può, come tale, scrivere per attaccare o denigrare la sua Chiesa; egli però crede che sia necessario e doveroso far conoscere, in spirito di umiltà e di verità, alcuni fatti del nostro più recente passato: per evitare di cadere in nuovi errori, oggi o anche domani.
Lecce, nov. 1929


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