I figli del labirinto




Sergio Zavoli



Pare, dunque, che il crescente distacco delle generazioni le separerà definitivamente in tempi sempre più brevi. Il ritmo sempre più accelerato della storia già annuncia un mondo d'epoche che via via bruceranno esperienze disegnate su progetti così diversi da annullare ogni "valore" precedente. Su quel ponte dove i padri mettevano nella mano dei figli il filo caldo dell'esistenza, le prossime generazioni si divideranno in fretta, senza rimpianti. I giovani verranno al saluto con una forbice.
La nostra, forse, è stata l'ultima generazione che ha stretto a lungo la mano al padre e l'ha guardata con il sospetto di avervi lasciato qualcosa che non avremmo più riavuto e che forse ci sarebbe mancato. Accadde anni fa, quando padri e figli tornarono a vivere nelle loro città distrutte dalla guerra e capirono che la storia li rimetteva sì insieme, mutando però il loro ruolo in quello nuovo e drammatico di fratelli. Resi uguali dal niente che trovarono, si guardarono come Cleobi e Bitone di fronte al carro da dover spingere insieme. Chiamati a vivere, una mattina, su uno sterminato spettacolo di morte, parve loro d'essere vissuti soltanto per vedere un disastro assurdo e liberatorio.
Di fronte alla necessità di ricominciare a vivere, ci fu come una tregua; una tregua, non una riappacificazione col passato. Era tardi, del resto, per un accordo che ormai implicava soltanto il futuro, e il viaggio comune durò poco.
Poi, vennero i nostri figli. Esenti da ogni compromissione, respinsero subito una città che avevamo ricostruito perché anch'essi potessero amarla; rifiutarono subito una continuità in cui non potevano riconoscersi: avevano in serbo la Luna, il Vietnam, il maggio, la droga, gli esodi comunitari, il Christ Superstar.
Tra passato e futuro, due sponde ugualmente sospette, presero a camminare sul loro greto rischioso disposti a vivere, senza origini, una solitudine carica di intenzioni profetiche, consapevoli che importante non era arrivare, ma essere partiti.
Il labirinto, dunque, non li aveva irretiti; ma poi, usciti per i varchi aperti dal rancore, vanamente proclamarono i loro rifiuti radicali. Fuori, la terra promessa non c'era. Soltanto un esodo che avesse saputo dove fermarsi, riunirsi e rifare la città nuova avrebbe distrutto, e non solo condannato, il labirinto e le sue vischiose ragioni. Ci fu, tra loro, chi scelse di vivere negli spazi ancora umani dell'esistenza e chi decise di provocare la città dentro e fuori le mura, spesso assediandola con negazioni perentorie, anziché con proposte alternative in cui poter riconoscere un possibile progetto. Ridotte a slogan, le voci estreme si risolsero presto in vocìo. La città, intanto, si dava un futuro al quale, in nome del rifiuto globale, gli assedianti avevano rinunciato.
Così, in attesa che tornino, il labirinto continua a organizzare, da solo, la sua logica.
A chi o a che cosa risalgono le qualità dell'uomo che lo fanno unico nella sua diversità? A un disegno perfettamente preordinato, oppure agli errori che scompigliano il processo di riproduzione in successioni sempre più casuali? Dovremo cercarci nei nostri geni, oppure la nostra identità è un valore invisibile interamente espresso da ciò che siamo?
C'è su questo valore un dibattito che dura da millenni, da quando Socrate isolò la natura dell'uomo come un problema a sé; e la scienza non è ancora riuscita a dirci con certezza se l'uomo è un progetto originario della creazione o un fatto fortuito che, replicandosi, si è andato organizzando dentro la necessità.
All'interno di un compito che Dio e la natura continuano a contendersi come loro unico e inaccessibile dominio, l'uomo va comunque inoltrandosi nel suo futuro con un'intelligenza e una responsabilità nuove. Non si accontenta più di vivere un ruolo già stabilito dall'origine, ma vuole confrontarsi con tutto ciò che da se stesso può garantirsi.
Pensavo a queste cose, e ad altre del genere, leggendo del convegno dedicato al cromosoma chiamato "Caino", che regola l'istinto della violenza e che ci fa più o meno aggressivi, più o meno miti. La nostra sorte, hanno detto i congressisti più apocalittici, dipenderà anche dalla manipolazione di questa infinitesima parte di noi: psicologi, neurologi e psichiatri potrebbero accordarsi con fisici, biologi e chimici e mettere insieme uno straordinario potere. Modificando la chimica del cervello, per esempio, sarà possibile far felici gli scontenti con gli euforizzanti, mansueti i rivoluzionari con i deprimenti, dimentichi i poveri con gli allucinogeni, docili gli irrequieti e feroci i quieti. Saremo dunque in grado di rifondare l'uomo e di condurlo dove ci piacerà? Credevo che solo una grande esperienza sociale, intellettuale, estetica e spirituale potesse rinnovarci nel profondo; che all'uomo spettasse, sì, di determinare e regolare il suo compito dentro la natura, dirigendola e magari signoreggiandola, ma a patto di aver definito il ruolo che dovremmo avere dentro di essa; un ruolo non di subordinazione, ma neppure di antagonismo e tanto meno di violenza. Come difenderci, allora, di fronte al dilemma scienza-umanesimo? Garantendo, prima di tutto, l'educazione alla libertà, fondata insieme sulla responsabilità singola e collettiva, sui fatti della storia e sui valori della coscienza. Il problema dell'uomo, perciò, resterebbe quello di misurarsi con gli scopi sempre più umani che dovrebbe sapersi dare consapevolmente.
Posto, dunque, che il vero fine sia questo, metto fin d'ora a disposizione il mio cromosoma della violenza, il mio "Caino"; a patto che in laboratorio si cerchi l'uomo e la sua immagine, non un modello suscitato dall'orgoglio di suscitarlo. Si cerchi, cioè, in nome di Abele. Sono disposto ad affidarmi a un fisico, a un biologo, a un chimico, a chiunque volesse cercare, con me, il mio buon fratello separato per rimetterci insieme. Anche a un chirurgo, se volete, ma non a un demiurgo. Un uomo che sia qualcosa d'altro che un uomo, non l'hanno fatto né Dio né la natura. Potrebbe farlo l'uomo stesso, si dice. Ma avrebbe la sua immagine? Vorrei restare quello che sono. Perché già mi distingue da ogni altro animale il fatto di esserlo un pò meno, e poi perché posso decidere di non esserlo più tanto. Questa libertà mi garantisce più di qualunque magia.
"Gli uomini usciranno dalla loro infanzia - mi disse Jean Ristand - solo il giorno in cui rinunceranno ad ogni soggezione e tutela, solo quando sapranno cosa volere fare di se stessi. Ma insieme, non l'uno per gli altri. Degli artefici singoli non mi fido".

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