§ ANNI '80

E se la lira cede




Dario Giustizieri



Dunque, alla Banca d'Italia stanno facendo i primi conti: l'aumento differenziato del prezzo del petrolio non consente previsioni certe ma, in ogni caso, l'ipoteca che graverà nel 1980 sull'economia italiana non sarà inferiore a cinquemila miliardi di lire. Anche nella capitale francese gli esperti dell'Ocse stanno rivedendo i calcoli dell'outIook '80 (vale a dire le previsioni che ogni anno, alla vigilia di Natale, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico formula sull'economia mondiale). L'anno si presenta con prospettive fumose e con grandissime incertezze. Tutti i calcoli che gli specialisti stanno facendo si basano sul prezzo del petrolio e sulle sue prevedibili variazioni. Da esse, infatti, dipende in grande misura lo sviluppo dell'economia internazionale insieme con l'andamento dei mercati finanziari: ruolo del dollaro, riciclaggio dei petrodollari, prezzo dell'oro, tenuta dello Sme. E dipenderanno le scelte che l'Italia dovrà fare per rispondere nei prossimi anni ai maggiori vincoli che creeranno gli aumenti delle materie prime.
In pratica, negli ultimi due anni, il prezzo del greggio è raddoppiato. Conseguenza: un rafforzamento del ruolo delle multinazionali nella distribuzione dell'"oro nero". E poi, la bilancia dei pagamenti dei Paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo subirà un massiccio deterioramento. I Paesi industrializzati passeranno da un leggero attivo nel '78 a un disavanzo di 30 miliardi di dollari nel '79 e di circa 50 miliardi di dollari nell'80. Conseguenze più gravi per i Paesi in via di sviluppo. Per quanto concerne l'Italia, dopo l'avanzo di 6-7 miliardi di dollari nel '79, è previsto per l'80 ancora un attivo dal quale bisognerà togliere la maggiore imposta petrolifera. Secondo Rinaldo Ossola, ex Direttore Generale della Banca d'Italia, il Prodotto Nazionale Lordo non potrà crescere più del 2%, ed è sempre all'orizzonte la recessione, accompagnata da un aumento della disoccupazione. L'inflazione (la cui crescita era stata prevista nell'ordine dell'8-9%), sarà nella media dell'Ocse, cioè non inferiore al 10%. Un grosso problema, dice Ossola, è quello dell'ingente trasferimento di reddito verso i Paesi produttori di petrolio. Questo deve pur venire fuori da qualche parte: o dalla diminuzione (o al massimo dal congelamento) dei salari reali o dall'accrescimento sensibile della produttività del sistema. "I salari reali - sostiene Ossola - sono diminuiti o non sono cresciuti in tutti i Paesi salvo l'Italia: un caso, diciamo, da manuale, dove i salari, nonostante tutto, continuano a crescere. E questo, è chiaro, si fa a spese degli investimenti, col risultato che le conseguenze si pagheranno comunque più tardi. I Paesi industrializzati devono accettare questo trasferimento di ricchezza e possono farlo ordinatamente attraverso il contenimento dei salari, o disordinatamente attraverso l'inflazione".
Situazione italiana. In questo momento, il nostro Paese non ha alcun bisogno di vendere oro perché ha buone riserve sia in dollari sia in Ecu (unità di conto europea). L'indebitamento è sceso moltissimo, dal massimo di 22 miliardi di dollari del luglio '77 ai 13 miliardi di fine '79. Di questi, almeno 8 rappresentano l'esposizione delle Banche verso l'estero, a fronte dei quali ci sono crediti commerciali. Allora, se le riserve sono alte e la bilancia dei pagamenti non desta preoccupazioni, perché mai la recente manovra sui tassi è stata giustificata dalla Banca Centrale con la necessità di difendere la lira e di rendere appetibili i debiti in valuta? In realtà, l'aumento del tasso di sconto è stato motivato da considerazioni di ordine internazionale, ma anche da considerazioni di ordine interno. Oggi ci troviamo in una situazione in cui non c'è una politica economica coerente. Tutta la politica economica, afferma Ossola, è quella fatta dalla Banca d'Italia. L'aumento del tasso di sconto può essere uno "strumento rozzo", ma è "senz'altro efficace per rovesciare le aspettative. L'efficacia è stata accresciuta dall'aumento consistente in un colpo solo. In mancanza di interventi di contenimento del deficit pubblico allargato e della progressione dei redditi reali, non c'erano altre strade da seguire". L'Italia, fra l'altro, rischia di dover uscire dal Sistema Monetario Europeo. La lira ha un margine più ampio di oscillazione, che ha poi un significato relativo perché il differenziale di inflazione, ad esempio, fra l'Italia e la Germania Federale è sempre di dieci punti, quindi molto di più del margine del 6%. Questo, secondo gli esperti, si dovrà pur ripercuotere sulla tenuta esterna della lira. Come è possibile coesistere in un sistema praticamente di cambi fissi, quando la RFT viaggia a tassi di inflazione di gran lunga inferiori a quelli dell'Italia? Si potrà resistere, senza svalutare, a costi gravissimi: spendendo le riserve e contraendo il margine di competitività.
Ora, il margine di competitività delle esportazioni italiane si è eroso, ma non si è ancora esaurito. Difficile dire fino a quando durerà. Certo, bisogna darsi da fare: accanto ai settori tradizionali, (abbigliamento, tessile, vini, pelle e cuoio, e via dicendo), che non debbono essere abbandonati, occorre trovare altri sbocchi. La nostra esportazione vista nel medio periodo è strutturalmente debole. Dobbiamo poter esportare prodotti a più alta qualità e a più alta tecnologia o inserirci nel filone nuovo dei servizi. li processo di terziarizzazione è un processo sano e noi dobbiamo sostituire le esportazioni materiali non redditizie con quelle immateriali. Questa è la linea degli anni '80, che potremo veder emergere dalla fine del decennio.

Prezzi da dollaro a 1. 000 lire

Bilancia passiva negli anni '80

Di fronte alla prospettiva dell'inflazione, qual'è il comportamento del risparmiatori? Alcuni diversificano il risparmio, altri fanno ricorso ai beni-rifugio, altri ancora si rivolgono agli intermediari finanziari "giocando" al profitto a breve o a medio termine. In queste dichiarazioni di alcuni esponenti di Istituti finanziari, invece, è il polso delle Banche, la linea del comportamento nei confronti del risparmio, i problemi che si devono affrontare in una situazione di precarietà politico-economico-finanziaria-sociale. Problemi complessi, che investono "filosofie" e "teorie" che poi si devono tradurre in operatività che premii, e non danneggi, chi si rivolge con fiducia alla Banche, chi accantona e non spreca, chi rischia investendo e non sperpera. Se ancora oggi il sistema italiano "regge" e la recessione non ci ha gettati sul lastrico, lo si deve al risparmio dei singoli e delle famiglie, alla "mediazione,> equilibrata che ne fanno le Banche, pur vincolate da legami istituzionali (plafond, finanziamento del deficit pubblico, ecc.), alle attività di investimento dei privati imprenditori. In questo ampio quadro si inseriscono le problematiche bancarie. In questo contesto va fatta la "lettura" delle dichiarazioni che seguono. E in una prospettiva di fiducia deve continuare a proiettarsi il risparmio degli italiani, convinti come siamo che dalla crisi - o dal complesso di crisi - in cui ci dibattiamo, si possa uscire lavorando tutti insieme.


Il risparmio finanziario delle famiglie e delle imprese, che negli anni '60 e agli inizi degli anni '70 era ripartito in corrette proporzioni fra depositi bancari, titoli ed azioni, è andato progressivamente accentrandosi negli ultimi anni sui depositi a vista. Tuttavia, a partire dal 1978 tale tendenza ha cominciato ad invertirsi mediante un crescente spostamento dai depositi ai titoli del debito pubblico. Nel '79 il fenomeno si è ulteriormente accentuato, tanto che si può prevedere che la quota rappresentata dai depositi bancari sulle attività finanziarie sull'interno dell'economia torni sui livelli degli anni '60, anche se l'impennata dell'inflazione registrata ultimamente può rendere difficile il processo e provocare un parziale ritorno al deposito bancario. Le maggiori aziende di credito hanno assecondato, o meglio sovente "pilotato", la tendenza manifestata negli ultimi tempi dai risparmiatori di ritornare ad acquistare titoli, sulla base di una concezione del ruolo della Banca che punta oggi, nei rapporti con la clientela, più che sulla sola offerta di deposito, sulla prestazione di servizi finanziari qualificati e diversificati. In questa logica, diverse Banche hanno ritenuto opportuno indirizzare sul mercato monetario e finanziario le disponibilità della clientela, in tutti i casi in cui le condizioni di tasso richieste presentavano carattere di incompatibilità con le remunerazioni correnti sul mercato dei depositi. La scelta di una tale politica si fonda sulla convinzione che un'adeguata diversificazione delle attività finanziarie del pubblico costituisca una condizione indispensabile per un miglior funzionamento dei mercati monetari e finanziari e per promuovere, in definitiva, una più efficiente e razionale allocazione delle risorse. Va tuttavia osservato, a quest'ultimo proposito, come la strategia di "disintermediazione" messa in atto negli ultimi anni dalle maggiori Banche abbia consentito per ora soltanto uno spostamento del risparmio dai depositi ai titoli del debito pubblico, vale a dire al finanziamento del deficit dello Stato: un assetto stabile sarà conseguito solo quando si riuscirà a ripristinare le condizioni perché il risparmio possa indirizzarsi anche verso le attività finanziarie offerte dalle imprese e dagli Istituti di credito speciale.
Luigi Arcuti
Direttore generale dell'Istituto Bancario San Paolo di Torino.

Il permanere del "plafond" sull'accrescimento degli impieghi, da un lato, e il rendimento dei titoli di Stato, dall'altro, costituiscono una "direttrice" con margini di manovra piuttosto ristretti, se non si ha la possibilità di mediare il risultato economico della pura gestione del denaro con altre fonti di reddito. Parlando, invece, in proiezione strategica, penso che nessuna Banca possa permettersi di trascurare, per lunghi periodi, l'obiettivo dell'espansione fisiologica dei depositi, in quanto ciò significherebbe rinunciare ad una crescita equilibrata, ovverossia al fattore vitale di qualsiasi impresa operante in competizione e in regime di costi "non variabili" crescenti.
Pertanto, a mio giudizio, il risparmiatore deve continuare ad essere considerato principalmente come il naturale apportatore di mezzi all'intermediario creditizio, senza creare illusioni attribuendo eccessivo rilievo alla capacità di attrarlo con servizi diversificati. Le più recenti indagini di mercato confermano che le motivazioni del depositante, nella scelta della Banca, restano: la vicinanza dello sportello, il tasso di rendimento ed alcuni fattori irrazionali (tradizione, amicizia, campanilismo, ecc.). Naturalmente, ciò non significa che non vada posto un realistico e consapevole impegno nello sviluppo dei servizi, bensì che gli stessi debbano essere sviluppati non quali improbabili ed economicamente incerti mezzi di approccio al risparmiatore, ma come autonome fonti di reddito, capaci di concorrere positivamente, al netto delle rispettive spese di produzione e commercializzazione, alla formazione del risultato finale della gestione.
Giovanni Guidi
Amministratore delegato del Banco di Roma

In periodi di inflazione, come quello attuale, sembra quasi anacronistico parlare di risparmio. E' un concetto che ci richiama istintivamente a situazioni di stabilità economica e monetaria, nelle quali il valore delle somme accantonate non viene eroso inesorabilmente dalla diminuzione del potere d'acquisto e nelle quali il reddito di tutte le categorie di cittadini non viene intaccato dai malcongegnati meccanismi fiscali, dall'aumento dei prezzi, dai più elevati costi dell'intermediazione, dalla mutevolezza dei rapporti di cambio, e così via. Eppure, proprio in periodi di inflazione si è spesso assistito ad una maggiore propensione individuale per il risparmio corrente, ad un afflusso di liquidità presso gli Istituti di credito che sono i naturali centri di raccolta del denaro in attesa di destinazione. Questo maggiore afflusso pone alle autorità monetarie e alle Banche problemi di gestione di liquidità non indifferenti. Il risparmio resta alla base di ogni forma di sviluppo economico, svolge un ruolo fondamentale anche in una situazione di crisi ed è essenziale alla ripresa.
Enzo Ferrari
Presidente dell'Associazione Casse di Risparmio Italiane

Negli ultimi anni le maggiori Banche hanno in genere riconsiderato le proprie politiche di intermediazione. Chi raccoglie molto deve anche impiegare molto. E impiegare molto, in un sistema che presenta i problemi a tutti noti, costringe ad impiegare anche in direzioni eccessivamente rischiose o che, a stretto rigore, non rientrano nel mestiere della Banca di credito ordinario. Alla base della nuova politica della raccolta c'è quindi in sostanza una nuova politica dell'attivo. Ma al di là di questa motivazione di natura per così dire aziendale, c'è anche una considerazione di carattere più generale. La struttura finanziaria italiana è notoriamente troppo concentrata sulle attività liquide. La causa fondamentale di ciò non risiede nel comportamento delle Banche e nella loro, vera o presunta, "corsa al* depositi", ma nell'evoluzione che l'economia "reale" ha avuto negli ultimi dieci anni e soprattutto nell'inflazione. E' abbastanza naturale che le grandi Banche si siano posto il problema e abbiano scelto l'obiettivo di non accrescere le tensioni di un mercato già tanto teso. I risultati finora, sia pure lenti e faticosi, ci sono stati. Speriamo che la ripresa dell'inflazione e il conseguente aumento dei tassi d'interesse non ci facciano arretrare di qualche anno.
Il rischio di una minore propensione al risparmio delle famiglie indubbiamente c'è. E' peraltro difficile dire quando e in quali dimensioni possa effettivamente concretarsi. Il risparmio in un Paese è legato ad una serie complessa di variabili che gli economisti hanno individuato e quantificato in modo diverso a seconda anche della "teoria" accettata. Non c'è dubbio, comunque, che il risparmio aggregato di un Paese dipende da circostanze sociali come, ad esempio, il sistema di sicurezza sociale, da circostanze demografiche come, ad esempio, la struttura per età della popolazione, e da circostanze più propriamente economiche come il reddito, più o meno positivo o negativo, che può essere ricavato dal risparmio. Se si fa riferimento a queste ultime circostanze e in particolare all'inflazione che erode quote sempre maggiori dell'accumulazione passata, è difficile pensare che il risparmio si senta oggi incentivato. Ma c'è di più. L'efficienza della spesa pubblica, l'uso assistenziale delle risorse, la scarsa incentivazione della produttività, sono altri elementi forse ancora più determinanti della propensione al risparmio. E' a questi elementi che bisogna pensare seriamente se si vuole evitare una pericolosa involuzione del processo di accumulazione nel nostro Paese.
Lucio Rondelli
Amministratore Delegato del Credito Italiano

Non si può essere pienamente d'accordo col giudizio implicito che i grandi Istituti di credito abbiano trascurato l'incentivazione dei depositi nei tempi recenti. Se il riferimento è limitato ai piccoli depositanti e risparmiatori, è opportuno rammentare che i maggiori Istituti di credito non beneficiano di quella capillarità nella loro rete, necessaria a promuovere la raccolta del piccolo risparmio, che si forma particolarmente nelle famiglie e che oggi ha origine in tutto il territorio e non è più concentrato nei grandi centri urbani. La promozione di questo tipo di raccolta implicherebbe un costo alquanto elevato, data la concorrenza che proviene non solo dagli uffici postali, ma anche dagli intermediari finanziari, che possono convogliare questo flusso di risparmio verso forme di investimento ad alto rendimento ed esenti da gravami fiscali.
La proposta di introdurre per il risparmio delle forme di indicizzazione - come è avvenuto in alcuni Paesi e in primo luogo in Brasile - per ovviare gli scompensi e le distorsioni causate da un tasso d'inflazione molto alto, potrebbe essere una soluzione soltanto nel caso in cui tutte le forme di investimento del risparmio avessero più o meno lo stesso trattamento e la differenziazione fosse dovuta unicamente ai vincoli di durata e ai rischi inerenti ai vari tipi di investimento. Aggiungo, inoltre, di non ritenere possibile che le Banche possano modificare di propria iniziativa certi parametri di riferimento, senza determinare ulteriori distorsioni nei flussi di risparmio, come già attualmente si può riscontrare per la rigidità di alcuni saggi di interesse (si vedano quelli corrisposti sui depositi postali) e la flessibilità di altri.
Nerio Nesi
Presidente della Banca Nazionale del Lavoro

Le Aziende di Credito operano nell'ottica di assecondare gli sforzi delle Autorità monetarie volti al conseguimento di una struttura più equilibrata dei flussi finanziari, nella quale le componenti liquide vengano risospinte verso dimensioni fisiologiche. Al perseguimento di questa politica non sono evidentemente estranee considerazioni di conto economico connesse con la bassa redditività media dell'attivo bancario. Muove certamente in questa direzione la visione delle Aziende di Credito di tendere ad una più ampia diversificazione dei servizi, con particolare riferimento all'attività di intermediazione in titoli per conto della clientela. Basti pensare che nel 1979, nei soli primi nove mesi, il portafoglio Bot e Cct del pubblico si è praticamente raddoppiato, superando i 25 mila miliardi di lire.
Agli attuali livelli di inflazione, il reddito reale dei depositanti assume valori negativi. Tuttavia, questo fenomeno è collegato soprattutto all'accentuarsi delle tensioni inflazionistiche e non già al divario esistente fra saggi bancari attivi e passivi. Premesso che nel periodo più recente l'ampiezza del divario è andata sensibilmente comprimendosi, passando da 7,5 punti percentuali di fine 1976 agli attuali 5 punti, è ancora una volta da sottolineare che tale divario va a coprire non solo i costi di gestione (fra i quali, stante la situazione di difficoltà delle nostre imprese, gli accantonamenti a fondo rischi vanno assumendo sempre maggiore peso), ma anche gli oneri che ad esse derivano dai noti vincoli sull'attivo. D'altra parte - come risulta chiaramente dai dati della Banca d'Italia - l'utile unitario delle Aziende di Credito si è mediamente commisurato negli ultimi anni ad appena lo 0,25%.
Occorre dire che la propensione al risparmio delle famiglie si è mantenuta in questi ultimi anni su livelli soddisfacentemente elevati, soprattutto come riflesso del tentativo dei risparmiatori di ricostituire il valore reale della loro ricchezza finanziaria in presenza di un elevato tasso di inflazione. Al riguardo è però da osservare che, nonostante l'elevato tasso di risparmio, la ricchezza finanziaria delle famiglie a fine 1979 risulta, a prezzi costanti, di poco superiore a quella del 1973. In queste condizioni non appare del tutto irrealistico il pericolo di una fuga del risparmio o, quanto meno, di una crescente propensione all'acquisto dei cosiddetti beni rifugio, come dimostra del resto l'esperienza più recente. Tale pericolo potrà risultare tanto maggiore quanto più si proseguirà sulla via finora seguita di sottoporre il risparmio ad un trattamento fiscale sempre più oneroso.
Silvio Golzio
Presidente dell'Associazione Bancaria Italiana


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