§ ANNI '80

L'impresa in bilico




Gigi De Mitri



Come sta l'impresa? Tra due fuochi: cioè tra l'intervento pubblico e l'attività sommersa. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una forte espansione di questi due protagonisti della vita economica e sociale a fronte di una progressiva erosione dello spazio riservato all'impresa vera e propria. L'intervento pubblico in economia, anzi l'opposizione tra sfera pubblica e sfera privata, è il risultato di una lunga evoluzione storica, nel corso della quale la rivendicazione di diritti politici e civili sempre più vasti per l'individuo si è accompagnata a una crescente menomazione dei diritti economici. Mentre, infatti, almeno in linea di principio, la libertà di azione e la libertà di scelta del cittadino in campo politico sono sempre più esaltate e difese, vengono sempre più compromesse la libertà d'azione e la libertà di scelta del cittadino-imprenditore, del cittadino-risparmiatore e anche del cittadino-consumatore. L'estensione del concetto di libertà dal campo politico a quello economico è risultata eminentemente contraddittoria. E principio della libertà dal bisogno è stato infatti sovente interpretato, specie in Europa, nel senso di una limitazione della libertà di scelta. Così si garantisce a tutti l'assistenza sanitaria gratuita, ma questa grande conquista porta spesso con sé l'impossibilità pratica di scegliere da chi, come e dove essere curati. La recentissima unificazione dei servizi mutualistici ha significato, anche per moltissimi italiani, una severa restrizione nella possibilità di scegliere il medico curante. Lo stesso fenomeno si può riscontrare nel campo dell'istruzione. Al tempo stesso, un'interpretazione rigida e schematica della tutela del posto di lavoro rischia di annullare completamente la mobilità, danneggiando non solo gli imprenditori, ma soprattutto i disoccupati e i giovani in cerca di prima occupazione. Una nuova classe di burocrati si è incaricata oggi, in quasi tutti i Paesi dell'Occidente, di gestire questo meccanismo essenziale, garantistico ma limitante, della libertà dal bisogno, e di spendere, per conto del cittadino, ma senza che il cittadino abbia in effetti molte possibilità di controllo, una quota imponente e crescente del suo reddito. In quasi tutti i Paesi occidentali, ormai, una larga quota del reddito nazionale viene sottratta alla discrezionalità degli individui e transita, invece, per le casse dell'Amministrazione Pubblica, che la impiega e la ridistribuisce secondo propri criteri. In queste condizioni ci si sta muovendo in una sorta di collettivismo di fatto e quel che ne consegue è che l'impresa Italia presenta un deficit pauroso, pari a circa il 14% del prodotto interno lordo (PIL). A formare tale deficit globale concorre l'azione diretta dell'Amministrazione Pubblica in campo economico; tale azione ha registrato negli ultimi anni una notevole espansione, non già per una maggiore efficienza, bensì con finalità pretestuosamente sociali, che si traducono nel salvataggio di imprese fallimentari. Attualmente l'incidenza delle imprese pubbliche sul totale delle medie-grandi società italiane industriali e di servizi può essere stimata , secondo uno studio di Mediobanca, nel 35% circa per quanto concerne numero di dipendenti e fatturato, e nel 53% per quanto concerne gli immobilizzi tecnici. Le stesse imprese pubbliche, tuttavia, hanno concorso per l'82% alla formazione della perdita di esercizio complessiva del campione (ossia 1.880 miliardi sui 2.300 complessivi nello scorso anno).
Così, milioni di lavoratori che prima contribuivano allo sviluppo del sistema sono ora nella condizione obiettiva di essere mantenuti dal sistema. li profitto è scomparso dalle imprese pubbliche, tranne pochissime eccezioni, e questo non tanto per colpa dei managers pubblici, quanto per l'eccezionalità dei vincoli, anche di natura politica, cui gli stessi sono sottoposti. La necessità di finanziare la rapida espansione del settore pubblico ha imposto agli italiani, volenti o nolenti, di mettere a disposizione dello stesso gran parte delle loro risorse finanziarie: la partecipazione del settore pubblico al credito totale interno è così andata crescendo, fino a raggiungere un'incidenza del 68% nel 1979 (36 mila miliardi su 53 mila complessivamente disponibili) lasciando soltanto 17 mila miliardi per il finanziamento di famiglie e di imprese (incluse le partecipazioni statali). Questo dato sintetizza efficacemente gli effetti sull'impresa dell'intervento pubblico.
L'economia sommersa, o lavoro nero che dir si voglia, nasce in parte come reazione all'eccessivo dirigismo e ai "lacci e lacciuoli" frapposti all'attività imprenditoriale. Le stime indicano che questa economia alimenta una produzione pari al 15-30% del prodotto interno lordo ufficiale, sfuggendo però alle rilevazioni statistiche e spesso evadendo la legislazione fiscale e previdenziale. L'economia sommersa è caratterizzata da costi unitari del lavoro inferiori a quelli dell'economia istituzionale, da maggiore elasticità nelle prestazioni lavorative (mobilità, straordinari, scelta dei dipendenti) e quindi maggiore possibilità di adeguamento al mercato, da minori costi relativi all'ambiente di lavoro, e, infine, da oneri fiscali e sociali nulli o estremamente ridotti. Ma non si può dimenticare che quest'economia, almeno nelle dimensioni raggiunte in Italia, è un indice delle disfunzioni e dei limiti imposti al sistema economico ufficiale. Inoltre l'economia sommersa è parassitaria delle medie-grandi imprese industriali (in quanto la progressiva riduzione degli orari di lavoro e il crescente assenteismo favoriscono il doppio lavoro). Infine, può esportare a prezzi competitivi rispetto a produttori di altri Paesi perché non paga né le tasse né gli oneri sociali: ma così finisce per esportare ricchezza nazionale e contribuisce all'allargamento del deficit pubblico. Anche l'economia sommersa, quindi, danneggia l'impresa.
A tutto ciò, si aggiunga il carattere fortemente ideologico e spesso portatore di messaggi politici del Sindacato. Questo aspetto si è radicalizzato nel corso del ciclo di lotte 1969-70, quando il Sindacato ha fatto ricorso, ai fini di rafforzamento organizzativo, a un'ampia produzione di ideologie del conflitto e dell'antagonismo sociale. Si è così alterato il rapporto classico tra partiti politici e Sindacato, secondo il quale le ideologie erano emanazione dei partiti e al Sindacato spettava il ruolo di negoziatore nei confronti delle imprese. Con quali conseguenze? Il messaggio ideologico ha pervaso vasti settori dell'apparato sindacale, producendo effetti perversi nella sua condotta di attore industriale e dando luogo a una diffusa conflittualità, spesso incontrollata. Una volta scoperta la strada del l'ottimizzazione del rapporto tra danni inferti (alla produzione) e danni subìti (salariali), alcune frange della forzalavoro hanno eretto la conflittualità a sistema, e hanno iniziato a usarla anche al di fuori della mediazione organizzativa del Sindacato. Allora è accaduto che l'impresa, fondamentalmente centro di produzione, è stata attaccata come centro di potere ed è divenuta oggetto e territorio non più di produttività, ma di conflittualità generica, spesso estranea ai temi stessi della conflittualità aziendale (e quindi sindacale), e qualche volta portatrice di morte (e qui siamo nel campo del terrorismo).
Risultato. Se non si corre ai ripari, rispettando le libertà conquistate, si profila preoccupante all'orizzonte uno scenario misto di caratteristiche collettivistiche e terzo mondistiche:
1) il continuo declino della produttività potrebbe condannare le grandi imprese all'estinzione, facendo subentrare ad esse, ovunque, l'impresa pubblica. In questo caso, per esempio, secondo l'economista Romano Prodi, si generalizzerebbe un sistema di produzione meno efficiente; diminuirebbe il reddito nazionale e di conseguenza il reddito dei singoli;
2) in campo internazionale l'Italia potrebbe essere condannata alla perdita di competitività, a una graduale emarginazione dalle potenze industriali e a uno slittamento verso il Terzo Mondo (prospettiva terribilmente concreta se si tiene conto della diversa dinamica della produttività nel periodo '72-77: -12% in Italia, +26% in Germania, +24% in Francia);
3) nella sfera del singolo cittadino potrebbe aversi un assoluto garantismo sulla carta (lavoro, abitazione, assistenza sanitaria) con prestazioni effettive discutibili (almeno là dove non potesse intervenire una nuova economia sommersa riconvertita ai servizi) e con ulteriori limitazioni della libertà di scelta individuale.


Unica via d'uscita, il ritorno al mercato. Ma questo ritorno passa per una fase assai importante: Sindacato e Impresa non dovrebbero dimenticare che la crisi dell'uno è correlata alla crisi dell'altra, secondo un coefficiente tanto più alto quanto minore è la controllabilità del fattore lavoro. Il cosiddetto "patto sociale" non appartiene alla letteratura, ma nasce da un'esigenza profonda, che è quella di un incontro come via obbligata per superare la crisi.


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