E i giovani ?




Enrico Surdo



In una recentissima intervista, il presidente dell'Iri, Pietro Sette, ha parlato della situazione socio-economica della regione pugliese. Alla domanda se la nostra regione sia in qualche modo agevolata dalla sua posizione geografica, Sette ha risposto: "Emblematica, in questo senso, è la storia della Fiera del Levante, che non è solo una splendida vetrina del lavoro pugliese e meridionale, ma anche un'istituzione ormai radicata nella coscienza di tutti gli operatori economici italiani e stranieri". Ebbene, dice il presidente dell'Iri: la Fiera è nata quando l'ubicazione della Puglia era determinante dal punto di vista dello sviluppo dei traffici, visto che i mezzi di trasporto delle persone e delle cose erano diversi da quelli attuali. E' importante che la Fiera continui a dare un'immagine aggiornata dell'industria italiana e offra alla Puglia delle chances suppletive. "Ma non penso che la posizione geografica della regione oggi significhi granché. Permette manifestazioni e scambi locali, porta a porta. Nulla di più. L'ubicazione è favorevole in sé, ma sono mutati i tempi, sono cambiati i mezzi di trasporto e i sistemi di comunicazione. Lo sforzo da fare, dunque, consiste nel migliorare la produttività, nell'utilizzare bene gli impianti, nel creare molta attività indotta accanto alle grandi imprese, nell'accrescere la competitività. E' uno sforzo impegnativo, richiede pazienza e fantasia".
Dunque, è un problema di uomini. La nostra regione rimane sempre un punto di riferimento di economie diverse, e spesso concorrenti; e resta pur sempre un ponte di collegamento fra tre continenti. Ma questa ubicazione non giuoca più i i ruolo fondamentale dei tempi passati. Ciò significa, soprattutto, perdita di occasioni. E poiché le "occasioni" pugliesi sono strettamente legate all'esportazione, vuol dire che se non si produrrà bene, e a prezzi competitivi, le nostre quotazioni caleranno sui mercati mondiali, in particolare su quelli dei Paesi del bacino mediterraneo.
Chi ha determinato le spinte allo sviluppo industriale dal dopoguerra in poi? Dice Sette: c'è stata una visione politica organica e coordinata, con un coefficiente quantitativo e qualitativo di sviluppo che ha tenuto conto di tutte le esigenze delle aree pugliesi, anche se squilibri ancora ci sono e vanno in qualche modo colmati. E, accanto a queste scelte, ci sono state quelle delle forze interne della regione, che si sono mobilitate, hanno lavorato senza sosta e hanno risposto positivamente. Questo, ovviamente, ha interessato i grandi baricentri produttivi della Puglia. Ma alle loro spalle ci sono gli entroterra. L'area del Basso Salento, ad esempio; o quella murgiana, nella Capitanata, con paesi poveri che sono vere e proprie corti dei miracoli, con fasce isolate, con correnti migratorie che hanno reso negativo il saldo demografico, e che hanno ulteriormente impoverito le risorse umane locali. Che cosa fare per queste sacche di miseria? Si sa che la Murgia favorita dall'industrializzazione è stata quella di altitudine media non superiore ai cinquecento metri. L'altra Murgia, quella che va a confinare con la Basilicata e con la Campania, non è stata non diciamo investita, ma nemmeno sfiorata dal l'industrializzazione. Allora, come per il Basso Salento, e non solo per l'ultima arca della penisola salentina, riemerge il problema: i giovani fino a poco tempo fa si imbarcavano sui cosiddetti "treni della speranza" e venivano ingoiati dai nuclei e dalle aree industriali del "triangolo" del Nord o delle città industriali della Comunità economica europea. Fino a poco fa, abbiamo detto. Ora non lasciano più i paesi d'origine, vogliono restare dove sono le loro radici, dove hanno stabilito vincoli di amicizia, di parentela, di conoscenza. La valigia di cartone rosso legata con lo spago è un ricordo del passato, è entrata nella letteratura e forse anche nel mito. In Puglia sono decine e decine di migliaia, in Salento il loro numero continua a crescere. Stanno, come si dice, "con le mani appese". Senza lavoro. Disoccupati e senza alcuna prospettiva. Sono un serbatoio che continua a colmarsi, un contenitore che è quasi al limite, e dunque può esplodere da un momento all'altro. Che cosa fare?
Risponde Sette: quello dei giovani è senza alcun dubbio il problema di fondo dei nostri anni; è inutile negare: ha connotati di una tale gravità che si può considerare, appunto, esplosivo. Che fare? Mobilitare la fantasia, l'inventiva, lo spirito d'intrapresa; e sviluppare altra occupazione accanto a quella dell'industria. Citiamo testualmente: "Non dobbiamo illudere nessuno: il settore industriale non potrà dare infinite occasioni di impiego, perché da un lato per diventare più competitivo non può contare solo sull'aumento della produttività da maggior rendimento del lavoro; occorre pensare a una produttività realizzata con l'introduzione di moderne tecnologie. E questo significa, a rigore, sempre meno addetti, cioè minore occupazione. Già allo stadio delle cose nell'industria è un problema mantenere l'occupazione. Allora dobbiamo rivolgerci altrove, dobbiamo creare nuovi posti di lavoro nel terziario. Non so quanto questo possa ancora offrire, ma credo che buona parte della crisi nella quale ci dibattiamo dipenda anche dal fatto che si è ipotizzato negli anni scorsi un coefficiente di sviluppo industriale futuro basato sulle medie degli ultimi cinquant'anni. In realtà l'industria mondiale, europea e italiana, con i gradienti che erano stati mediamente costanti per molti decenni, ha raggiunto un livello tale che si è determinato un rallentamento. Che questo fenomeno negativo si possa modificare è auspicabile, ovviamente. Ma non ci sono elementi che inducano all'ottimismo".
Allora? Allora: agricoltura industrializzata, turismo, sviluppo dell'occupazione nel settore terziario. Forme intelligenti d'intrapresa che non generino occupazione secondaria, cioè occupazione stagionale o precaria, né lavoro nero. Solo così i giovani non esploderanno, non avremo - com'è auspicabile - rivolte perentorie o Vandee restauratrici.

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