Da Sud a Sud




Luigi C. Belli



Dunque, il Salento ha vinto la sua prima battaglia ecologica. La zona delle "Cesine", la splendida località rivierasca nell'agro di Vernole, a soli quattordici chilometri da Lecce, resterà un'oasi per gli uccelli acquatici, i quali - dice la notizia - l'hanno eletta a loro eden. Infatti, è stato siglato l'accordo tra il Fondo mondiale della natura (Wwf) e l'Ente di sviluppo agricolo regionale: grazie a questo accordo, il Wwf si impegna ad attrezzare la nuova area protetta. La zona delle Cesine, iscritta con decreto ministeriale nell'elenco delle aree umide di interesse internazionale, identificate dalla Convenzione di Ramsar, rappresenta una vera e propria eccezione nel paesaggio costiero dell'intera regione pugliese. Si tratta di circa quattrocento ettari circondati da un bosco a macchia mediterranea: all'interno, due laghi di circa ottantadue ettari, e paludi per oltre 162 ettari. Un angolo ancora incontaminato, "un gioiello raro nella geografia delle aree protette dell'Adriatico". Occorre andare molto su, nelle Valli di Comacchio o scendere giù, in quelle dell'Alimini, per trovare altre acque interne lungo la costa: ma queste sono destinate all'acquacoltura, danno lavoro e redditi, mentre le Cesine fino a questo momento sono state lasciate a se stesse e all'incuria e ai tradimenti degli uomini. Un angolo unico lungo la fascia adriatica, dicevamo. Mentre sul versante tirrenico si incontrano numerosi rifugi protetti per la fauna. E basti citare per tutti San Rossore, Bolgheri, il parco regionale della Maremma, l'area di Orbetello e quella di Murano, le saline di Tarquinia. Da Trieste a Santa Maria di Leuca, per circa mille chilometri, le oasi sono piuttosto scarse, la caccia diffusa e indiscriminata, è sempre stata una storia di sterminii, tant'è che da alcuni anni i ,grandi migratori scostano verso le isole e le acque interne della Jugoslavia; e tant'è che all'estero si alzano cartelli con i quali si invitano gli stormi a disertare l'Italia' cancellandola dalla geografia del loro passi migratori. Di qui, l'iniziativa del Fondo mondiale per la natura, che dapprima ha ottenuto che le Cesine venissero interdette alla caccia, poi che costituissero un'area di riposo e di protezione per i grandi stormi in rotta verso il sud. Lo stesso Wwf provvederà alla tutela dell'habitat, ricostituendo quello che l'uomo ha pressoché distrutto. Sarà rimessa a dimora la flora mediterranea, in parte scomparsa: rinasceranno dunque i ciliegi selvatici, i corbezzoli, i lentischi e i carrubi. Forse vi rivedremo la quercia vallonea. Certamente piante con bacche carnose, per il nutrimento e il riparo ai migratori e agli stanziali. Esiliate le doppiette. Un primo atto di civiltà, cui sarebbe augurabile seguissero altri, e subito. I cieli di Puglia, inquinati dalle industrie che il Nord non ha voluto, da quelle petrolchimiche a quelle siderurgiche, non sono più rigati da un volo. Alle Cesine, ora, possiamo ammirare gli stormi a freccia, alti, maestosi, frequenti, che incantarono la nostra non più vicina fanciullezza.
Si trattava dei barbieri. I barbieri erano i migliori imbalsamatori di uccelli. Aironi, folaghe, cavalieri d'Italia, anatre selvatiche impagliate ornavano le case dei salentini. Alcuni avevano anche i falchi. Alimini attraeva centinaia di migliaia di uccelli, e ricordo che si potevano agevolmente catturare i leprotti, tanto erano numerosi in quelle terre ricche di tane; e ci stavano di casa le donnole e le volpi. La macchia era superba. Poi, la nostra civiltà consumistica inventò il week-end e con il week-end si formarono le ronde armate di fucili a doppia canna e di fucili a ripetizione, sempre più perfetti, e sempre più costosi. I cacciatori divennero sparatori: non distinguevano un trampoliere da una rondine, tiravano su tutto quel che volava nel cielo e su tutto quello che correva nella macchia bassa. Un grande delitto fatto di decine di migliaia di uccisioni ha spopolato questa fascia suggestiva del basso Adriatico. Mentre l'itticoltura si poneva all'avanguardia in campo nazionale, Alimini si trasformava in un deserto, segnato dalle lottizzazioni e dai disboscamenti. Erano, questi specchi d'acqua, il primo approdo per i migratori che salivano dal sud; l'ultimo per quelli che scendendo a sud, poi raggiungevano le fasce calde dell'Africa, trasvolando il Mediterraneo. Cacciatori e barbieri, stretti in una barbara alleanza, hanno cancellato i segni di una natura viva, educativa; hanno aperto la strada all'abolizione di un ambiente; hanno mutato una geografia e una biologia.
La ricostruzione, ora, non potrà che essere una piccola, appartata epopea.
Il turismo è reddito, industria pulita, senza ciminiere. E' falso affermare che il turismo possa essere l'unica industria salentina. E' vero che può essere una componente produttiva di estremo interesse, insieme con le piccole e medie imprese e con un'agricoltura aggiornata. Dunque, facciamo prosperare il turismo. In questo campo, abbiamo molte carte in regola: buone acque marine, itinerari suggestivi, da quelli delle Serre a quelli delle grotte (Zinzulusa è superba; la grotta dei Cervi a Porto Badisco, riassume tanta parte della nostra protostoria, andando dal quarto al terzo millennio avanti Cristo; quelle marine da Otranto a Leuca, e da Leuca verso Ugento sono tutto un mondo da scoprire); e poi la geografia delle specchie, dei dolmen, dei menhir, quella del romanico e quella del barocco. Il problema è quello del disinquinamento (in misura lieve, ma l'inquinamento nelle acque costiere salentine c'è) ed è quello della protezione: non si vede perché debba finire al museo di Taranto tutto ciò che, in campo archeologico, viene scoperto nella penisola salentina; ma non si può tollerare oltre che reperti archeologici di altissimo valore abbandonino il Salento, prendendo le vie dei mercati clandestini, verso il Centro-Nord e verso l'estero, soprattutto verso "l'amica" confederazione elvetica.
Anche in questo campo la storia è fatta di mille saccheggi, di esportazioni, di affari: "pezzi" messapici alimentano i traffici clandestini di Roma e di Milano, hanno depredato persino la Grotta dei Cervi di Porto Badisco, che studiosi italiani e stranieri hanno indicato, quando fu scoperta, come la più importante dell'intera provincia mediterranea.
L'incuria fa il resto. Un esempio per tutti: nel mare di Roca, che ha sapore greco, è in rovina il castello di Maria d'Enghien. Crollato nelle acque costiere, interrato, diruto. A due passi, le mura e le tombe che fanno di questo centro uno dei "cimiteri" archeologici più interessanti della fascia adriatica. E per tutta la costa vicina, grotte che ora, in massima parte, si presentano come rifugi basiliani, alcuni di pianta perfetta, classica, ma che certamente furono stazioni abitative preistoriche: affacciate sul mare, di cui accolgono riflessi variegati, uniche per posizione, splendide nel loro susseguirsi nel gran costone di calcare. L'intero complesso abbraccia un arco vastissimo di storia. Lasciato alla vegetazione spontanea, alla rovina, alla distruzione, è emblematico della nostra inconsistenza culturale e della nostra indifferenza. Solo un paragone: se gli inglesi scoprono sulla loro terra, poniamo, un cippo romano, sia pure alto pochi centimetri, lo recingono immediatamente, aprendogli intorno un piccolo parco, proteggendolo a vista. E quel cippo diventa meta di turisti, di appassionati d'arte e di storia, di cittadini, uomini della strada. A Roca (ma non solo qui) sui resti delle mura e delle tombe, negli anfratti protostorici, tra gli archi semisepolti della dimora di Maria d'Enghien, s'infilzano le aste a punta degli ombrelloni per ripararsi dal sole agostano. E anche questo è un problema di civiltà. E stavo per dire: di inciviltà.

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