Il Sud a bocca asciutta




B. M.



A Gela un centinaio di persone ha occupato l'aula del Consiglio comunale. A Catanzaro e in altri centri della Calabria ci sono state vere e proprie manifestazioni di protesta. A Paestum sono scesi per le vie con i cartelli addirittura i turisti, stranieri compresi. In Puglia vi sono stati i consueti "razionamenti". Nel Sud l'acqua continua a mancare, e con l'inizio di ogni estate cresce la tensione, aumenta l'esasperazione d'ella gente. Il problema è secolare. E ha perfettamente ragione chi scrive che è fin troppo forte la tentazione di ricorrere alla vecchia immagine letteraria (ma non troppo) della sete del Sud. Ma l'immagine non serve, o non basta a risolvere il problema. Partiamo dunque dalle cifre: ogni anno affluiscono per le precipitazioni circa 269 miliardi di metri cubi di acqua sul territorio nazionale. Di questi, ben 157 miliardi defluiscono in mare senza essere utilizzati. In questo modo, sprechiamo più della metà dell'acqua che cade sul nostro suolo.
Non si può dire che l'acqua manchi in Italia, e non si può dire che manchi nel Mezzogiorno. Secondo un'indagine dell'Università di Cosenza, in Calabria cadono ogni anno 17,7 miliardi di metri cubi d'acqua. Quanto a capacità idrogeologiche, la Calabria è seconda soltanto alla Liguria. Eppure, l'acqua erogata è quasi del tutto insufficiente appena le spiagge del litorale incominciano ad accogliere i turisti, con l'aumento della popolazione rispetto al numero del residenti abituali. Lo stesso vale per la Puglia, altra regione con flussi turistici in costante aumento: qui il problema è meno drammatico, ma non è stato validamente risolto. I rubinetti si chiudono, in molti paesi, per più ore al giorno, con le conseguenze che sono da aspettarsi. Occorre dunque aumentare la disponibilità di acqua, diminuendo drasticamente gli sprechi.
Non si parte proprio da zero: dal 1950 al 1977, la Cassa per il Mezzogiorno ha speso 2.322 miliardi di lire per opere idriche. E non si può dire che siano stati tutti quattrini buttati dalla finestra, anche se ci sono stati errori, alcuni macroscopici. I risultati quantitativi sono questi: 22.600 chilometri di acquedotti, con una portata globale di circa settantun mila litri al secondo; 3.600 serbatoi, con una capacità complessiva di tre milioni e 900 mila metri cubi, che servono 3.550 centri per oltre undici milioni 718 mila abitanti.
Nonostante le risorse idriche, nonostante le numerose opere pubbliche costruite o avviate per accrescere la portata di acqua erogata, Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata o Puglia spesso si trovano a secco. E' bene chiarire (e questo vale soprattutto per gli anni del dopoguerra), che anche la politica per l'utilizzo delle risorse idriche ha avuto nel Sud carattere episodico, confuso, frammentario, carente di adeguati elementi programmatori. In altre parole, all'inizio si è puntato prevalentemente sulla quantità più che sulla qualità delle opere idriche. Né, com'è stato scritto e riconosciuto, si possono omettere i casi di infrastrutture costruite sotto pressioni clientelari. Come a Gioia Tauro si è fatto un Porto industriale per servire un'industria che era facile prevedere non si sarebbe mai realizzata, così in diverse aree meridionali si sono costruite dighe senza canali, canali senza dighe, una cosa e l'altra senza la presenza di buone portate di acqua.
Clientelismo e intervento non programmato, o programmato male, non bastano tuttavia a spiegare il fenomeno della mancanza di acqua, che proprio in questi ultimi anni trova la sua principale causa in un vecchio male meridionale: il conflitto di competenze, che alla resa dei conti vuoi dire palleggio delle responsabilità. Protagonisti per quel che riguarda l'uso delle risorse idriche, ancora una volta, la Cassa per il Mezzogiorno e le Regioni. Queste ultime hanno rivendicato maggior potere e maggiori responsabilità nella "gestione" delle acque. In conseguenza, la legge 183 ha attribuito alle Regioni e agli Enti Locali precisi ruoli e competenze per le reti di distribuzione idrica. La Cassa per il Mezzogiorno, dal 31 dicembre 1977, acquedotti non ne fa più: la legge le ha infatti lasciato mano libera soltanto per i progetti speciali e per le grandi e grandissime infrastrutture. Tutto ciò che non supera i confini regionali è di competenza degli Enti Locali. Alla Cassa spetta il compito di progettare gli schemi idrici interregionali e intersettoriali.
In teoria, questa soluzione sembra ottima: la Cassa, alleggerita della gestione dell'intervento ordinario, può dedicarsi con piena responsabilità alla progettazione di quello straordinario: e, in effetti, la progettazione degli schemi idrici interregionali è, salvo alcuni casi, come nel Salento, a buon punto. Ma c'è il rischio che si manchi di continuità e di tempestività nell'ordinaria amministrazione: gli acquedotti dipendono da Regioni e da Enti Locali, e questi, in modo particolare nelle regioni meridionali, non hanno mai dato prova di grande efficienza.
Qual'è il maggior pericolo? Che vadano inutilizzate le risorse idriche, che non difettano nel Sud, e che restino obsolete alcune opere realizzate tra il 1950 e il 1977 per utilizzare queste risorse.
Le Regioni hanno avuto buona parte delle competenze che rivendicavano: ora debbono mostrarsi in grado di adempiervi. La politica dell'acqua è stato un "philum" conduttore della politica meridionalista e, in una certa misura, dell'intervento straordinario. Dunque, deve essere anche una costante dell'intervento ordinario.
Industria, agricoltura, turismo, per svilupparsi al Sud e per dare occupazione e redditi, hanno bisogno dell'acqua e di una politica dell'acqua. La prima c'è. All'insufficienza della seconda ci richiama l'immagine del turista tedesco, sceso in Cilento per ammirare i templi di Paestum, e finito a protestare con un cartello sotto la sede del Consorzio di Bonifica perché nel suo albergo i rubinetti erano a secco.

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