§ SQUILIBRI TERRITORIALI E MONDO DEL LAVORO

Per nove anni favorito il Sud




Gigi De Mitri



Fino a pochi anni fa, ad alimentare le correnti migratorie delle diverse aree del Sud non contribuiva soltanto lo straordinario sviluppo industriale del Nord e di altri Paesi europei, ma anche la disponibilità di tanti meridionali ad accettare qualsiasi sacrificio pur di avere un'occupazione "fissa".
Oggi non sempre è così. La crescita culturale, politica e sindacale della popolazione ha prodotto in molti una presa di coscienza che induce spesso a rifiutare un "posto" se il lavoro che esso comporta non appare congeniale.

Quello scorso non è stato un anno positivo per il mercato del lavoro. Malgrado il persistere di un certo esodo dal settore agricolo, l'occupazione totale è cresciuta nel complesso del Paese. Di questo incremento, l'83 per cento è toccato alle regioni meridionali, che hanno visto aumentare in misura non irrilevante l'occupazione nei settori industriali (ventimila unità in più), e in misura addirittura imprevista l'occupazione nelle attività dei servizi (con centocinquemila unità in più).
Anche il numero delle persone in cerca di occupazione è cresciuto in maniera preoccupante (venticinquemila unità in più, e si tratta di giovani), raggiungendo la cifra impressionante complessiva di un milione e 571 mila unità. E tuttavia, sempre nell'anno trascorso, è tutt'altro che diminuita nel nostro Paese la presenza di lavoratori stranieri, nella stragrande maggioranza impiegati clandestinamente, e nel lavoro nero.
Come mai si è in una situazione così paradossale? Quante nuove unità, nei prossimi anni, si troveranno gettate sul mercato del lavoro? E quante ne potranno essere assorbite? E infine: quali effetti ha avuto sull'occupazione nelle regioni del Mezzogiorno la politica dei poli di sviluppo e delle cosiddette "cattedrali nel deserto", epicentri di aree e di nuclei di sviluppo industriale?
Ha scritto Antonio Golini che fino a pochi anni fa, ad alimentare le grandi correnti migratorie dirette dalle diverse aree del Sud verso il Nord d'Italia e verso le regioni favorite di altri Paesi europei, non contribuivano solo lo straordinario sviluppo industriale di queste aree e la loro apparentemente inesauribile fame di braccia a buon mercato, ma anche la disponibilità di tanti meridionali a trasferirsi, e ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, pur di avere un salario e un'occupazione fissa. Il "posto" costituiva "un mito senza vincoli e senza riserve", per il quale si era disposti a sacrificare tutto: la propria famiglia, i vincoli di amicizia e di parentela, la solidarietà locale, le tradizioni, l'ambiente. L'emigrato meridionale nel Nord o all'estero era dunque un eterno esule volontario della fame, che sfidava l'ignoto pur di risolvere problemi elementari di sopravvivenza.
Oggi, è stato rilevato in un convegno sul "Mercato dei lavoro nel Mezzogiorno", svoltosi nel capoluogo regionale pugliese, non sempre è così. La crescita culturale, politica e sindacale della popolazione ha comportato in moltissima gente una presa di coscienza, che porta anche a rifiutare un "posto", vale a dire un'occupazione permanente, se il lavoro che essa comporta non risulta congeniale per almeno due motivi di fondo: il tipo di mansioni assegnate; il luogo nel quale svolgerle. Le mansioni devono essere legate, almeno in una misura ragionevole, al tipo di cultura e di preparazione professionale che si possiede; il luogo deve esser tale da non costare al lavoratore l'improvviso e totale eradicamento dal proprio habitat socio-culturale. Ogni singola persona, assai più che nei tempi passati, tende a far sì che il tipo di lavoro svolto coincida con quello adatto a sé e desiderato o prescelto da tempo.
Ecco perché tanto frequentemente allo stato attuale domande e offerte di lavoro non combaciano, non si incontrano; e sono proprio gli stranieri - immigrati clandestinamente, o quasi - a riempire gli spazi lasciati scoperti da molti giovani inoccupati nel nostro Paese. Questo fenomeno - si è sottolineato nel corso del dibattito al convegno pugliese - è frutto della pressoché totale mancanza di una politica di collegamento fra Scuola e mondo del lavoro, e fra Università e mondo del lavoro, una mancanza di cui si stanno pagando e si continueranno a pagare le conseguenze.


Si pensi che nell'ultimo anno soltanto nelle regioni meridionali, fra i disoccupati, si è avuto un aumento di almeno ventimila unità, in grandissima parte diplomate o laureate. Il peso della disoccupazione "intellettuale" nelle regioni del Mezzogiorno è molto rilevante e relativamente maggiore che nel resto d'Italia, dove pure la disoccupazione dei giovani diplomati e laureati si è ampiamente diffusa. Si è dunque sostenuta, ancora una volta, l'esigenza che non vengano ulteriormente rinviate le riforme della Scuola Media Superiore e dell'Università, e che sia favorito al massimo l'incontro tra strutture formative e mondo del lavoro.
Ma, al di là della disoccupazione intellettuale, è la dinamica dell'intero complesso delle forze di lavoro quella che ci pone di fronte ad alcune realtà preoccupanti. Il previsto futuro incremento delle forze di lavoro, dovuto a fattori demografici (vale a dire alla differenza fra le nuove leve che affluiscono nel mercato del lavoro e le leve degli anziani che vanno in pensione) è tale da riproporre al Paese, e in forma accentuata, la centralità del problema del Mezzogiorno.
Nei prossimi nove anni, l'ottantadue per cento dell'incremento delle forze di lavoro italiano saranno localizzate nelle aree meridionali, mentre trascurabile sarà l'aumento nelle regioni del Centro e del Nord. A partire inoltre dalla fine degli anni Ottanta, le forze di lavoro incominceranno a declinare, dapprima lentamente, poi a mano a mano più velocemente, nell'intera area centro-settentrionale, mentre continueranno a crescere nelle regioni meridionali. Si generalizzerà, per le "due Italie", quello che già in questi giorni si -delinea con chiarezza in due regioni che possono essere assunte come campione: attualmente, Liguria e Calabria hanno circa 690 mila unità di lavoro ciascuna; in dodici anni, nella prima scenderanno a 660 mila, mentre nella seconda saliranno a 815 mila. L'inversione di tendenza è evidente. H problema sta nel risolvere la situazione che verrà a determinarsi, evitando le massicce migrazioni ed eliminando le grandi sacche di disoccupazione e di sottoccupazione che caratterizzano il mondo del lavoro calabrese odierno. E il discorso fatto per l'estrema regione tirrenico-ionica vale, in ultima analisi, per tutte le altre aree regionali meridionali. Squilibri territoriali così accentuati, infatti, creeranno senza alcun dubbio seri problemi per il mercato del lavoro. Da essi discende l'esigenza di un'analitica pianificazione dello sviluppo dell'occupazione nelle regioni del Mezzogiorno che vada ben al di là di quanto previsto dall'ormai mitico e quasi mandato in soffitta "Piano Triennale". Anche considerando le previsioni della Confindustria sugli investimenti industriali e sull'incremento dell'occupazione nel Mezzogiorno, il quadro del possibile assorbimento della manodopera meridionale presenta prospettive buie, se non si pensa. anche ad una espansione dell'occupazione nelle attività terziarie. Ma un'occupazione terziaria nelle regioni meridionali è compatibile con le serie difficoltà che creerebbe nel campo della spesa pubblica?
Anche al fine di sopperire alle previste carenze di lavoratori in alcune grandi fasce centro-settentrionali, secondo Golini sembrerebbe essenziale pensare pure a meccanismi che garantiscano una certa mobilità territoriale interregionale delle forze di lavoro. Una mobilità che (a differenza dell'emigrazione pura e semplice, spesso tumultuosa, incontrollata e incontrollabile) sia adeguatamente programmata e sostenuta, e che non faccia pagare, come si è verificato fino a questo momento, enormi costi umani e sociali a chi si sposta, alle aree di esodo, ai nuclei di espulsione demografica, e ai terminali, cioè alle aree di arrivo.


I temi affrontati sono certamente così importanti e vitali per il nostro Paese e per le regioni meridionali, che impongono un'ulteriore, approfondita riflessione da parte di tutte le forze politiche e sociali sui presupposti e sulle conseguenze delle prospettive del mercato del lavoro, e sui rimedi ai problemi da essi suscitati. Alla fase di riflessione, però, non può non far seguito un'azione politica decisa, di linee programmatiche chiare, impegnate e non astratte. Il Sud ha bisogno di fatti e di cose concrete.


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