Religione e superstizione
in due città della penisola salentina: Galatina e Gallipoli. Due
figure di "nemici " di Cristo, contro i quali si scagliava la
collera popolare nella Settimana Santa: Patipaticchia e il Malladrone.
Messo in croce,
e prossimo a morire, il Cristo del Golgota perdonò, anzi invocò
il perdono per i suoi nemici, " che non sapevano quello che facevano
". Aveva predicato l'amore per tutta la vita: " ama i tuoi
nemici ", aveva detto: il più splendido imperativo categorico
del Cristianesimo trovò conferma nel momento del sacrificio supremo
del suo protagonista. Bene. Cristo perdonò. Galatinesi e gallipolini,
no.
Obiettivo eterno dell'odio un poco ingenuo e un po' tanto vendicativo
dei galatinesi, la figura del flagellatore del Redentore, il "
brutto e cattivo " per antonomasia: Patipaticchia. Di lui, scrive
uno studioso di tradizioni linguistiche e locali, il professor Salvatore
Ferrol: " Allo studioso di onomastica locale viene proposto il
termine 'misterioso per origine e per contenuto ' di ' Patipaticchia
', appellativo arguto e dispregiativo con il quale il popolo denominò
il flagellatore di Cristo in un gruppo scultoreo che, durante le cerimonie
della Settimana Santa, era esposto accanto alla porta destra della Chiesa.
Contro di esso si scagliavano le contumelie degli adulti e contro le
sue gambe di legno venivano violente mente indirizzati i punteruoli
ed i chiodi dei piccoli che ridussero la statua ad un rudere irriconoscibile.
A noi sembra evidente nel nome del tristo figuro la presenza della radice
" pat " del verbo greco " pasco ", soffro, la quale,
ripetendosi all'inizio del nome, sta a significare le enormi sofferenze
sopportate da Cristo. Ma su questo punto la discussione è aperta
ed il contributo di altri sarebbe assai utile e prezioso ".
La statua di Patipaticchia è in cartapesta, e non manca di un
particolare fascino: alto, poderoso, folta capigliatura ondulata, barba
virile, struttura corporea solida, gambe divaricate per il perfetto
equilibrio di chi si appresta a colpire, sguardo fermo: Patipaticchia,
in fondo, era l'esecutore della sentenza orale, il braccio armato di
chi aveva ben altri poteri e ben diversa estrazione, formazione e possibilità
di decisione. Ma, si sa, il destino dei più deboli è diverso
da quello dei potenti. Sulla soglia della chiesa dell'Addolorata, a
Galatina, non c'è chi per primo commise violenza nei confronti
del Cristo, decidendo di esporlo al pubblico ludibrio e alla lacerante
vergogna della sferza; ma c'è chi osò alzare la mano su
di Lui, chi lo frustò a sangue. Contro i lui si scagliava la
collera popolare: uomini, donne, bambini, per l'intero arco di tempo
dedicato alla visita dei sepolcri, entrando nella chiesa dell'Addolorata,
ficcavano nelle carni di cartapesta del malcapitato spilli, chiodi e
quant'altro poteva dare l'immagine concreta, fisica e un poco truculenta
del dolore, della sofferenza, della ingenua vendetta popolare. L'arto
del malcapitato Patipaticchia testimonia ancora oggi (ormai da alcuni
anni caduta in disuso l'" esposizione " della statua) delle
"torture " inflitte al flagellatore, la cui imperdonabile
colpa fu quella di non aver capito di trovarsi di fronte al Salvatore.
Patipaticchia, oggi, è relegato nei ripostigli della chiesa.
Tradizione e superstizione sono racchiuse, insieme con lui, nello scrigno
dei ricordi e delle memorie della subcultura salentina.
Da Galatina a Gallipoli il passo è breve. La chiesa di San Francesco
d'Assisi ha la facciata della seconda metà del secolo XVIII;
il ,campanile è del 1500. All'interno della chiesa, fra le "cappelle
di destra ", sesta ed ultima di questo braccio, quella del Crocefisso
(il " Cappellone "), dal popolo chiamata " la cappella
del Malladrone ". Al terzo e al sesto angolo dell'ottagono formato
dalla cappella, sorgono due croci con le statue lignee di Misma e Disma,
i due ladroni che insieme al Cristo furono inchiodati in cima al Calvario.
La testa del Buon Ladrone non è di particolare fattura, sembra
priva di qualsiasi pregio: non attrae, non ferma lo spettatore, non
gli ruba l'interesse intenso che, invece, si rivolge alla testa del
Misma, il Malladrone o Mal Ladrone: opera celeberrima di Fra' Vespasiano
Genuino, vissuto in Gallipoli nel secolo XVII, è - come ha scritto
Sebastiano Verona - quel capolavoro che non si può descrivere,
perché la sua grandiosità terrificante si può ammirare
soltanto col vederla da vicino. Gabriele D'Annunzio, venuto nella città
nel luglio del 1895, non ricorda Gallipoli che per sua statua del Malladrone,
la cui " orrida bellezza " ricordò nelle pagine delta
" Beffa di Buccari " e delle "Faville del maglio ".
E a questa testa di fortissima espressione popolaresca la tradizione
locale ha dedicato un continuo fiorire di aneddoti, una serie di sentimenti,
una ininterrotta cronistoria di maledizioni e di folgoranti contumelie.
Occhi furbi, vivaci, tipici del furfante rotto a tutte le avventure
e a tutte le esperienze; riso beffardo, al limite dello sprezzo, consapevolmente
orientato alla scelta dell'inferno come naturale prosecuzione della
vicenda terrena: il Malladrone rappresenta, espressivamente, il risvolto
di Patipaticchia: un po' triste (per aver preso coscienza?) il volto
della statua galatinese, quasi segnata da un dolore interno e antico;
torbida e sanguigna quella del gallipolino, disincantata, d'una ferocia
che sembra addirittura " simpatica ", proprio perché
fa parte della storia e della vita dell'uomo, nella quale ciascuno di
noi può riconoscere, per quanto piccola, una parte di se stesso.
Brutti, sporchi e cattivi: ma nostri, della nostra cultura popolare,
delle nostre tradizioni e delle nostre memorie. Anche questo, Salento
che non muore.
|