Ma un poco alla
volta la loro identità culturale si sta perdendo; e per altri è
sparita, sopraffatta dall'italiano, dai mass media, dai nuovi comportamenti.
Emarginazione, dapprima; poi emigrazione e sottoccupazione hanno fatto
il resto.
I Catalani arrivarono
nel 1354, al seguito di Pietro IV d'Aragona, che aveva occupato Alghero.
Oggi ce ne sono quindicimila in Sardegna, parlano tutti catalano puro,
si tramandano tradizioni e costumi immutati da secoli. Ma, come per
altri gruppi allogeni, un poco alla volta la loro identità culturale
si sta perdendo, sta scomparendo la loro lingua, sopraffatta dall'italiano.
La situazione è più o meno la stessa per centomila albanesi
(sparsi in diversi paesini tra il Molise, la Campania, a Calabria e
la Puglia); per ventimila greci o grecanici (gli ultimi vivono in Calabria
e nella penisola salentina); per ottantamila 589 ladini e per duecentomila
occitanici che vivono nelle Alpi occidentali e parlano ancora l'antica,
nobilissima lingua d'Oc; per la piccolissima comunità dei serbo-croati
(tremila e cinquecento in tre comuni del Molise); per centomila sloveni
di Trieste; per i tedeschi (non per i 275 mila in Tirolo, ma per i quindicimila
nell'arco alpino) e per i novantamila franco-provenzali del Piemonte
e della Valle d'Aosta.
In tutto, quasi un milione di persone, senza contare un milione e duecentomila
sardi , anche loro comunità, con una lingua e con tradizioni
proprie: minoranze che stanno sparendo, perché si è imposto
l'uso della lingua italiana, in aperta violazione dell'articolo 6 della
Costituzione, che prevede la tutela delle minoranze etniche, religiose
e razziali. Qualcuno ha parlato di "genocidio culturale "
, e crediamo che non abbia esagerato. Basti pensare a quel che è
accaduto alle popolazioni di lingua grecanica nella penisola salentina
(e sta accadendo alle isole grecaniche calabresi): dapprima la scuola
ha escluso l'insegnamento delle " lingue minori ", imponendo
il solo italiano; poi l'avvento della televisione ha fatto il resto.
Le leggi dei Savoia hanno colpito come Mike Bongiorno. Oggi, i giovani
della " Grecìa salentina "non parlano più la
lingua della loro terra, o ne conoscono un glossario estremamente limitato:
e si va perdendo, in questo modo, una tradizione (usi, riti e costumi,
poesia e canti e racconti: tutto un mondo creato nel corso di secoli)
che pure ha avuto pagine e momenti di indimenticabile splendore, se
è vero, come è vero, che la stele ateniese donata a quella
che può essere considerata la "capitale " del mondo
grecanico salentino, Calimera, afferma, nelle parole incise, che un
greco non è straniero in quella città. E c'è voluto
il grande amore di un calimerese, il professor Aprile, perché
non andasse del tutto perduto un patrimonio (in massima parte orale)
di inestimabile valore.
Più vivo l'interesse in questi mesi, per gli albanesi e per i
greci di Calabria. In questa terra, il turismo in pieno sviluppo non
ha escluso riti e tradizioni locali: li ha anzi proposti direi con determinazione,
imponendoli - com'era ovvio - con facilità, al punto che ora
sono una componente creativa del richiamo turistico. E non è
che si sia ridotto tutto al folclore, all'agevole consumismo estivo:
cori, balletti, recitazioni, in una parola il ricchissimo revival grecanico
e albanese della Calabria hanno fondamenti scientifici, sono stati riportati
con fedeltà agli antichi splendori. E non si è che agli
inizi. Tutto intorno , un rinascere di iniziative culturali, dibattiti,
ricerche, registrazioni, raccolte di materiali, in misura e con organizzazione
sconosciute altrove.
Quasi lo stesso lavoro che si vuol fare in Sardegna: qui è l'intera
isola ad esserne coinvolta, con i suoi codici di comportamento, con
la lingua e con le énclaves costiere e interne, con l'arte, con
riti e tradizioni: un lavoro sterminato, ma anche un lavoro che può
dare non solo una storia, ma una letteratura, una poesia un teatro,
una favolistica originali, inedite.
Non sono, questi della Calabria e della Sardegna, che due esempi di
quel che si potrebbe fare per tutte le minoranze linguistiche italiane;
le quali, del resto, e forse per una imperscrutabile nemesi storica,
sono oggetto di studio e di ricerca da parte degli stranieri, più
che degli italiani. E l'opera monumentale, le pazienti ricostruzioni
idiomatiche, le ricerche e le comparazioni territoriali di un Rohlfs
insegnino per tutti.
Colpiti dall'emarginazione, dapprima, e poi dall'emigrazione e dalla
malattia epidemica della sottoccupazione, quelli che parlano le lingue
" minori ", negli arcipelaghi assediati dall'italiano, invasi
dai mass media, sono sempre meno. Vanno scomparendo nobili, antichissime
civiltà locali, proprio nel momento in cui ciascuna regione cerca
di ricreare la propria identità storica e culturale. Annegano
nel mare di un italiano addirittura approssimato (e non per evoluzione,
ma per degradazione della lingua) tipici linguaggi che proprio alla
formazione della "lingua del sì ", dell'italiano classico
hanno dato inestimabili contributi. Come svuotate da una lunga resistenza,
colpite da un morbo inguaribile, le aree allogene della penisola hanno
visto cadere la tensione spirituale, in un primo tempo; poi hanno assistito,
senza poter opporre nulla, all'impoverimento progressivo e alle crescenti
contaminazioni della lingua; infine, ed è storia dei nostri anni,
hanno visto morire, o stanno per vedere moribondo, intero il mondo che
la ha formate, intere le radici su cui sono cresciute: radici lontane,
remote, di civiltà autenticamente autoctone. Il progresso è
fatto anche di puntuali perfidie e di qualche tradimento. Occorre dire
di più?
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