§ L'inedito

Tra Prometeo e Sant'Antonio




Carlo Levi



Ci sono molti modi, contemporanei e non contraddittori, di vedere, leggere, intendere quei fenomeni popolari (feste, balli, processioni, culti, riunioni, rappresentazioni, cerimonie, ricorrenze legate a date e a luoghi) per loro stessa natura polivalenti, dove coesistono il motivo individuale e quello collettivo, il momento del sacro in sé inesprimibile, vago, senza limiti, incerto, spaventoso e insieme affascinante nel suo mistero, e quello rituale, certo e accertante, ripetibile, nei suoi limiti e legami di religione, e nelle sue forme stabili e rassicuranti, nella sua simbolica chiarezza e rigidità di schemi e formule, sia che ci si ritrovino idoli e dèi antichissimi, o divinità più recenti, chiese organizzate. E c'è insieme una componente storica e sociale, una condizione di vita subalterna che in queste forme tramandate si esprime, con le sue contraddizioni, diversamente secondo il tempo e le alterne possibilità. E c'è una componente esistenziale e personale, con i suoi esorcismi, i suoi tentativi di difendersi contro il pericolo sempre presente della perdita di una fragile presenza. E si può guardare queste feste come lo specchio di una realtà popolare, che si salva con esse e con il loro linguaggio di segni dalla distruzione da parte della cultura dominante. Per questo esse sono, in un certo senso, censurate, avvolte in un'atmosfera di tabù, viste dal di fuori come puro oggetto estetico, folkloristico, strano, come costumanze del tutto destoricizzate, da osservarsi e descriversi come curiosità e spettacoli.
Non ho visto direttamente, né partecipato che a poche feste campane: ma i due volumi del De Bourcard, stampati nel 1858 e nel 1860, che erano, con le tavole litografiche acquarellate, nella biblioteca paterna, mi servirono per imparare a leggere, e, prima, a scrivere e a disegnare: i loro margini erano pieni del mio primo " scribbling ", dei gomitoli di curve apparentemente insensate secondo il gesto della mano infantile. Alcuni dei disegni del libro, che mi fu poi, purtroppo, sottratto, mi incantavano; altri, come la " Salita al Vesuvio ", e la rotolante " Discesa dal Vesuvio ", mi davano un certo misterioso senso di repulsione: tutti, in qualche modo, mi disposero, fin dal primo anno di vita, all'incanto della scoperta di un mondo altro, del mondo popolare del Sud. Così anche quelle immagini in buona parte descrittive, convenzionali e accademiche, (dovute tuttavia ai migliori bulini dei pittori della Scuola napoletana), avevano una parte di verità rivelatrice, e non soltanto la capacità di nasconderla sotto un velo idillico di grazia. D'altra parte, molte di quelle feste che non mi è avvenuto di vedere poi direttamente, non sono esclusive di Napoli e della Campania, ma si trovavano altrove nel Sud. La festa di Sant'Antonio, ad esempio, l'ho osservata in Lucania, con forse maggiore evidenza di significati. Andai apposta a Tricarico, con Rocco Scotellaro. Il paese era svegliato, a notte ancora fonda, da un rumore arcaico, di battiti su strumenti cavi di legno, come campane fessurate: un rumore di foresta primitiva, che entrava nelle viscere come un richiamo infinitamente remoto; e tutti salivano sul monte, uomini e animali, fino alla Cappella alta sulla cima. Sant'Antonio, questo Prometeo contadino, inventore del fuoco, dell'addomesticamento degli animali, delle culture, questa divinità arcaica del mondo contadino, questo creatore delle sue origini, si stabiliva sulle cime, dove sorvegliano i paesi, nelle chiese cristiane che erano diventate poi i suoi sacri recinti. Qui venivano portati gli animali, che giravano tre volte attorno al luogo sacro, e vi entravano, e venivano benedetti nella messa, con una totale coincidenza del rituale arcaico e magico con quello cattolico assimilante. Poi, in basso, in paese, si svolgeva una rappresentazione teatrale: un dialogo, in piazza, un contrasto tra due contadini a cavallo: uno vestito da bracciante, l'altro da signore feudale: una rivendicazione di liberazione contadina tra i frutti della terra lavorata. Intanto si accendevano i fuochi, scoppiavano i mortaretti: la giornata passava nei balli, finché, la notte, i paesi 'splendevano, per tutto il giro dell'orizzonte, di fuochi, vicini e lontani, come costellazioni.
Così il Carnevale, nei villaggi di Lucania, le maschere, la sua morte. Così, in Sicilia, la festa di Trecastagni, così simile alla Madonna dell'Arco, con i suoi " ignudi ", correnti di lontano nella notte, come i " fuienti ", senza fermarsi, sotto il peso dei ceri, a volte enormi, sulle spalle, e i malati, e le guarigioni miracolose, e le scene di convulsioni, di cadute, di croci con la lingua sul pavimento del Santuario, e la simbologia dei vari momenti. Queste analogie, e differenze, che andrebbero esaminate secondo il variare dei luoghi e delle condizioni storiche, tra le feste campane e quelle di altre regioni del Mezzogiorno, indicano certamente una cultura popolare comune. Dappertutto riti di remote divinità contadine, delle stagioni, del morire e del rinascere, della necessità di nascondersi nella morte per perpetuarsi nella terra; dappertutto i segni -di un mondo magico, di poteri nascosti nelle cose, di influssi e di influenze; il sincretismo religioso, e la traduzione di queste divinità nelle vesti e nei nomi delle classi dominatrici, nel potere miracoloso dei santi. E dappertutto l'incertezza dell'esistenza pericolante, e i modi rituali di accertarla, di immetterla in un tempo, di riconoscere sotto la maschera difensiva, sotto l'armatura simbolica, o sotto il peso della croce, e le spine, la propria identità.

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